Il piccolo Hans - anno XVI - n. 63 - autunno 1989

Il piccolo Hans r.ivista di analisi materialistica 63 autunno 1989 Virginia Pinzi Ghisi 5 Vuoto di sapere e istinto di ricerca Giovanni Bottiroli 11 Il desiderio di Antigone La psicoanalisi come pensiero extra-morale Marcello W. Bruno 48 Teoria coinemica e liquidazione del lacanismo Giovanni Cacciavillani 67 Sull'ontogenesi del ritmo Paolo Bollini 93 Sul sublime come fondamento in Dante Donald W. Winnicott 123 Paura del crollo Filippo M. Ferro 141 "L'oro dell'esperienza": sintomo e struttura nella psicopatologia di E. Hecker Ewald Hecker 145 Sulla fondazione del punto di vista clinico in psichiatria Anna Maria Accerboni Pavanello 162 Gli "Entwicklungsziele der Psychoanalyse ,, STANZE Hermine von Hug-Hellmuth 189 Sulla tecnica dell'analisi dei bambini MINUTE Fulvio Marane 221 Freud, l'ipnosi e il problema mente/corpo LETTURE Sergio Premoli 229 Il diario clinico di Ferenczi Antonio Prete 236 Lingua, trasparenza, sovrasenso

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Anna Maria Accerboni Pavanello, Paolo Bollini, Giovanni Bottiroli, Marcello W. Bruno, Giovanni Cacciavillani, Filippo M. Ferro, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ewald Hecker, Hermine von Hug-Hellmuth, Ermanno Krumm, Fulvio Marone, Sergio Premoli, Luca Rosi, Mario Spinella, Manuela Trinci, Italo Viola, Donald W. Winnicott. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1989 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Tipolitografia Meina, Carugate (Milano)

Vuoto di sapere e istinto di ricerca In inglese non esiste una parola che designi l'angoscia. La Standard Edition usa il termine anxiety e forse questo non è stato senza conseguenze per gli psicoanalisti europei e americani che sulla Standard si sono formati. Ansietà è qualcosa da calmare, una domanda che può avere risposta in una spiegazione. Einterpretazione è così spesso usata in funzione anti-anxiety per il nevrotico. Ma con lo psicotico questo palliativo non funziona. È allora interessante osservare come, tra i diversi scorci di storia della psicoanalisi che questo numero del «Piccolo Hans» raccoglie, Winnicott oscilli tra un' anxiety troppo debole per adattarsi a terribili sofferenze psicotiche, e un termine come agony, agonia, che sembra aprirsi su un fondo indistinto, su una sorta di dissoluzione elementare. La lacuna, tra ansietà e agonia, rileva la mancata collocazione nell'enciclopedia delle conoscenze psicoanalitiche, del concetto di angoscia. Ma l'oscillazione è già di Freud, che presenta a sua volta due versioni, entrambe soggette a revisioni e capovolgimenti, del significato dell'angoscia: una di tipo sessuologico, da attribuirsi al coitus interruptus o all'ingorgo di materie seminali, e una psicologica che suggerisce, a cavallo del fisi5

co, una improbabile elaborazione psichica di una congestione somatica. Le tarde puntualizzazioni di Inibizione, sintomo e angoscia soffrono già di pedanteria, da cui i tentativi di usare il pensiero di Freud come una «caratteristica» lulliana: come cioè se il maneggio di una terminologia potesse di per sé produrre conoscenza. In realtà, c'è un testo freudiano che consente la collocazione dell'angoscia. Ma il fatto che Freud ce l'abbia offerto come relazione fedele di un caso senza peraltro trarne le conseguenze possibili, ha fatto sì che si continuasse a rivolgersi al catalogo dei termini «descrittivi» per sopperire al vuoto di sapere. «Aggressività» e «depressione» hanno caratterizzato i giovani psicoanalisti in formazione, primi pazienti di una mancata teoria. /;angoscia, di fatto, si colloca proprio sull'orlo di un vuoto di sapere. È la minaccia del venir meno di qualcosa che si sa, di fronte alla misura del divario che si annuncia tra il soggetto e il resto. In altre parole, è il vacillare delle teorie sessuali infantili di fronte al quesito «da dove vengono i bambini», è l'incombenza del seme paterno, è la sproporzione tra il bambino e il padre e, in tutto ciò, è il muoversi pericoloso di un inanimato, che è ancora il seme, verso l'animato, per cui è importante chiarire con Hans, è questo il testo freudiano, che la sedia non ha il fapipì. Allora vediamo come questo «vuoto di sapere», invece di èssere paralizzante se coperto da termini psicologistici, è lo spazio di una costruzione molto interessante, che coincide con la costituzione del soggetto. /;angoscia preserva dall'anxiety, perché si sa dove muoversi, e tiene lontani dall'agony, perché non piomba nell'indiscriminato e nell'indistinto, cioè nell'orrore. Lo spazio su cui si affaccia ha innanzitutto dei confini, che il bambino traccia nella sua casa, di fronte alla sua casa, nel suo tratto di campagna, è il recinto del Dazio di 6

Hans, è il ruscello di Darwin. Il movimento dell'inanimato è assunto dall'animale, trait-d'union tra il soggetto e le cose, e scalpita, come il cavallo di Hans, e muggisce, come la mucca di Darwin. È causa di fobia, e questa, primaria, strutturale, creatrice di confini e di sistemi di irrigazione, di canalizzazioni e di tubi, di viadotti e di solchi, permette di trovare, nel tratto di terra, alla guisa degli antichi conquistatori, il proprio nome. È un nome dimidiato, perché metà spetta al padre, riiente è totalmente dominabile, né l'animale, né la minaccia del godimento paterno. Lo spargimento di semi a coprire la terra di fratelli con cui lottare, gli infiniti calci di rigore andati in porta, la confusione che lo psicotico razionalizza sul campo di calcio, rimane a far parte della verità. Ma i due culmini della vita sessuale, che anche Freud ha scandito nell'inizio in due tempi, tendono, di fronte ai primi interrogativi a quattro anni e sul limite della maturità genitale a quattordici, a ristabilire le due vette, le due torri, le due cime del Vesuvio e del Monte Cicala, che dialogano tra loro nel linguaggio delle teorie sessuali infantili. Inamovibili dall'inconscio, come le ha poste Freud, segnano, a partire dal vuoto di sapere su cui vibra l'angoscia, l'awio dell'istinto di ricerca. Vediamo allora. Non Melanie Klein, che spinge sotto la superficie, lavorabile, disegnabile, tracciabile, verso l'interno della madre come luogo della conoscenza possibile. Non il suo «penetrating eye» che si pone di fronte a un pieno di conoscenza, giacché la genitalità è tutta spiegabile. Ma qui viene in aiuto la poesia che Winnicott evoca all'inizio del suo saggio. I poeti l'hanno già detto, io devo affrontarlo. Ha poco a che vedere con le atmosfere di « una stanza per due», così mi sembra si intitolasse uno scritto pubblicato dalla «Rivista di psicoanalisi», o con le sensazioni che -fluttuerebbero sopra una seduta, così suggestivamente come le 7

descrive un altro psicoanalista, ivi. Se integriamo nel testo di Winnicott quanto di « teoria» vi fa difetto, il riconoscere che il «crollo» è sempre il crollo delle teorie sessuali infantili, crollo che minaccia l'adolescente, e che per lo psicotico è awenuto fin dagli inizi, giacché ha mancato quel luogo (il luogo della fobia), che è il luogo di teorizzazione dell'angoscia, scopriamo nella poesia un luogo analogo di strutturazione di una «teoria». Abbiamo, in una lunga teoria di editoriali, seguito la costruzione di Sterne nel Tristram Shandy, dove ogni capitolo sulla nascita, sul concepimento, sulla nominazione e sull'esistenza del soggetto, viene ancorato a un capitolo sulla fobia e su.Ile costruzioni di difesa. Ebbene, il padre di Tristram, ormai è stato accettato questo nome mediocre, al posto di quello splendido di Trismegisto, filosofo, teorizzatore, è costruttore di ponti, riceve una certa somma in eredità. Potrebbe destinarla, pensa, a due scopi a scelta. O recintare la casa in campagna, o inviare il figliomaggioreBobby a fare un lungo viaggio «di conoscenza» attraverso l'Europa. Ma prima ancora che si concretizzi la seconda ipotesi Bobby, del resto già poco intelligente, muore. Listinto di ricerca, come del resto sapeva perfettamente Edipo, non porta lontani. A separarlo dalla cecità ci sono i confini invalicabili se non con la fantasia di Hans, i termini custoditi dai leoni, i muri guardati dai lupi, il recinto della casa di campagna, ma in questo ambito, di un dove che è di per sé un altrove (l'istinto di ricerca è anche unWitz), l'istinto di ricerca coincide con il tener conto, come conoscenza suggerisce, che l'apparato psichico si struttura all'esterno secondo modalità del paesaggio circostante (non la cristiana pacifica appropriazione devastatrice della natura mondiale, ma quella «guerreggiata» di un luogo deputato e simbolico): poiché l'àcqua di sorgiva s'è fatta chiara come al solito, e la rosa selvaggia è in fiore e l'usignolo tra ìrami modula, svaria, distende il suo canto e trilla, è giusto che io sva8

rii il mio canto. (Un giorno potrò vedere il mio amore lontano. Sarà bellissimo vedere questo amore lontano. Non avrò mai gioia, se non godrò di questo amore lontano. Speriamo di vederlo questo amore lontano. È così nobile e verace che per lui sopporterei di starmene da tutt'altra parte, ancora più lontano, schiavo laggiù, nel paese dei Saraceni.) In questa «rispondenza», l'ermo colle, la siepe, permettono di vedere senza che lo sguardo penetri nella genitalità, da cui la morte viene infine separata, e, divisa, può essere anche accettata. Virginia Finzi Ghisi 9

LA PRATICA FREUDIANA Insegnamento di teoria e clinica psicoanalitica Seminario 1989-90 il giovedì alle ore 18 nella sala riunioni della PrQ.vincia, Viale Piceno 60, Milano Sergio Finzi terrà quindicinalmente il seminario: Adolescenza e senilità apertura: giovedì 30 novembre alle ore 18 Continua il gruppo di studio: Per un ambulatorio psicoanalitico dei bambini

Il desiderio di Antigone La psicoanalisi come pensiero extra-morale 1. Eingresso all'etica Ci troviamo di fronte al problema di sapere che cosa permetta di formulare l'analisi per quanto riguarda l'origine della morale (J. Lacan) È ancora possibile, dopo la seconda Critica di Kant, dubitare che l'autonomia sia la proprietà strutturale prima, fondante, di ogni discorso orientato ai valori? L'autonomia della volontà che «vuole bene», oltre a implicare la necessità di un'etica rispetto a cui il Bene e il Male non sono preesistenti, corrisponde a una dichiarazione di trasparenza dei soggetti: in quanto non dipende da altro, la morale è certa di non derivare da un fondamento opaco, di non affondare le sue radici in una terra oscura, di non poggiare su una piattaforma perennemente instabile. Così all'autonomia e alla trasparenza si aggiunge subito una terza caratteristica: il diritto alla rigidità. Un diritto rivendicato non solo dall'etica universalista - «Esiste una sola morale come esiste una sola geometria» (Voltaire1) - ma anche da quella che potremmo chiamare post-etica, cioè dall'atteggiamento argomentativo e dialogico della ragione «infondata». Si intuirà in seguito come universalismo e relativismo non rappresentino affatto un'alternativa; il loro conflitto articola e custodisce un territorio «diurno» dove i concetti di «coscienza», «re11

sponsabilità», «intenzione», e altri dello stesso genere, mutano unicamente la lunghezza del raggio lungo cui scorre la volontà dei singoli. Le etiche «corte» diluiscono l'universalità dell'imperativo categorico, e ne attenuano l'incondizionatezza; ma, salvo abdicare completamente, ripropongono una fiducia modesta e infrangibile nell'autonomia. Dunque, i confini di questo territorio racchiudono tutti i concetti che la tradizione dell'Occidente è disposta a riconoscere come pertinenti alla riflessione etica: più oltre, si apre lo spazio sconosciuto e notturno di un pensiero che chiameremo extra-morale, e di cui si tratterà di identificare in primo luogo gli abitanti. Con il termine extramorale non si presume di indicare un «altrove» assoluto: concordiamo con Jankélévitch2 sull'impossibilità di sottrarsi al problema etico, indirettamente riproposto dalle sue negazioni. Qui si allude invece a una tradizione di pensiero accomunata dalla convinzione che egualmente impossibile e illusoria sia l'autonomia dell'etica. Non che si voglia tornare a un'eteronomia intesa pre-kantianamente: il punto di partenza per questa riflessione notturna è la non trasparenza del soggetto, la sua pluralità, la sua dipendenza ontologica dal regime del desiderio. Prima di Freud e di Lacan, alcuni «analisti del cuore umano» come La Rochefoucauld, Stendhal, Nietzsche, hanno mostrato come il soggetto non sia padrone a casa propria, e quindi non possa sperare di esserne il legislatore. Nello stesso tempo, hanno escluso l'equivalenza di tutti i comportamenti e di tutti i valori, e non hanno rinunciato a disegnare le forme di una esistenza più autentica, «superiore». Dunque, il pensiero extra-morale non annulla le istanze dell'etica - e prima fra tutte il suo diritto a esistere come problema; ma respinge la pretesa di potersi addentrare ex abrupto, in base ad una volontà e a una scelta immediate, nello spazio dei valori: le scelte etiche devono preliminarmente essere «scelte», cioè si deve sa12

per riconosce. re la via che introduce ad esse. Il problema strategico precede quello etico. Sulle difficoltà di un ingresso immediato all'etica si meditino le parole di Nietzsche: «il credere nella morale non è ancora una prova di moralità: ci sono casi - è il caso dei filosofi rientra nel loro novero - in cui una tale credenza è semplicemente un' immoralità»3 . 2. Un luogo di antinomie Questo non è che uno dei paradossi che si incontrano nell'ambito dell'etica. Il Seminario VII ne mette a fuoco almeno altri quattro, che riguardano (a) il Bene supremo, (b) il rapporto bene/piacere, (c) il desiderio, (d) la colpa. Antinomie che non sembrano risolubili dall'etica con i suoi soli mezzi. Forse, la facilità con cui tale campo genera paradossi dipende da una contraddizione profonda, che è già stata abbozzata: l'insostenibilità dell'etica, la sua impossibilità ad esistere come pensiero e spazio autonomo pur nell'impossibilità di rinunciare a una vocazione di autonomia. L'etica non può che essere kantiana, e non può esserlo. Esaminiamo anzitutto il rapporto bene/piacere. La sua paradossalità va individuata nel fatto che «il piacere appare in molti casi come il termine opposto allo sforzo morale, e tuttavia è necessario che esso vi trovi la sua referenza ultima, quella a cui deve in fin dei conti ridursi il bene che orienterebbe l'azione umana» (EP, 46)4 • Ecco un nodo che si presenta proprio là dove il problema si avviava a soluzione. Tale circolarità non era ignota ai classici: Altri prima di Freud hanno parlato del piacere come di una funzione direttiva dell'etica. Aristotele non si limita a prenderlo in considerazione: egli non può fare à meno di collocarlo addirittu13

ra al centro del campo della sua direzione dell'etica (EP, 36). Non c'è motivo di sorprendersi, dunque, di fronte alla «dominanza dell'edonismo nella morale di una certa tradizione filosofica» (EP, 218). Lungi dal rappresentare un degrado dell'etica a causa dell'introduzione di criteri pragmatici, l'utilitarismo fa affiorare in superficie quella solidarietà del Piacere e del Bene, che le versioni più «disinteressate» e ascetiche non hanno saputo negare completamente. Neppure in Kant si arriva a una separazione definitiva tra i due termini: il postulato dell'immortalità dell'anima, fondato sulla necessità di un prolungamento della nostra esistenza affinché sia possibile adeguare felicità e virtù, non scaturisce tutto sommato da una mentalità «contabile»? «Kant ha potuto ridurre alla sua purezza l'essenza del campo morale, e ciò nonostante nel suo punto centrale ha sentito la necessità di riconoscere uno spazio per la contabilizzazione. Questo, e nient'altro, significa l'orizzonte della sua immortalità dell'anima» (EP, 366). Tornando all'utilitarismo, esso s'iscrive a tutti gli effetti nel solco tracciato da una lunga tradizione, pur con una carica demitizzante: la prospettiva platonica e aristotelica del Bene supremo viene ricondotta a una «economia dei beni» (EP, 256). Vedremo in seguito il limite di questa secolarizzazione, tutta interna al rapporto tra principio di piacere e principio di realtà. Tra i desideri che essa pretende di saper amministrare non c'è il desideriopuro, ostile, per essenza, all'«economia». Tra le illusioni-o nuove mitizzazioni-degli utilitaristi c'è la pretesa di poter armonizzare il bene del singolo con quello di tutti, addomesticando la conflittualità radicale che sorge nel cuore stesso del desiderio. Essi non credono al terzo paradosso, quello del Wunsch imperioso: 14

Il Wunsch, Io incontriamo nel suo carattere particolare, irriducibile... Il Wunsch non ha il carattere di una legge universale, ma al contrario della legge più particolare - anche se è universale che questa particolarità sia riscontrabile in ogni essere umano (EP, 33) Si annuncia qui la parodia di Kant condotta inconsapevolmente nell'opera sadiana. Per verificare l'universalità della massima, che il soggetto vorrebbe trasformare in imperativo etico, Kant suggerisce di compiere un esperimento ideale: saresti disposto a vivere in un mondo in cui il principio della tua azione valesse con la necessità di una legge della natura? Giudicheresti morale quell'universo? In Francesi, ancora uno sforzo (1795), Sade dà l'impressione di cimentarsi in un esperimento del genere: immagina un'utopia egualitaria, in cui la gerarchia tra libertini e vittime viene sottoposta a una reversibilità permanente. Per realizzarla, è sufficiente trasformare in legge la massima «Ho il diritto di godere del tuo corpo, può dirmi chiunque, e questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nel capriccio delle esazioni ch'io possa avere il gusto di appagare». Tutto sembra svolgersi in conformità alle indicazioni kantiane; il soggetto erige a norma universale un principio che potrebbe venir ritenuto «morale» non solo dal suo giudizio privato, ma da un'intera tradizione che si richiama all'etica «secondo natura». Purché si sappia che la natura non è domestica, e che spinge Eros e Thanatos ai loro esiti estremi. È interessante constatare qui, la convergenza del secondo e del terzo paradosso: indicando nella jouissance il solo imperativo categorico si riconosce, da un lato, che la legge universale è costretta a prescrivere il particolarismo di ogni soggetto - e in ciò soltanto consiste la sua universalità; dall'altro, si ritrova la solidarietà spinta fi15

no all'indiscernibile tra il Bene e il Piacere. Kant escludeva che potesse giungere all'universale una volontà affetta patologicamente (intendendosi con questa nozione l'insieme delle passioni e degli interessi privati): Sade mostra che ciò è possibile, purché il patologico sia esasperato, o meglio liberato nella sua pura essenza. L'imperativo categorico è una fortezza inespugnabile, le sue mura sono in grado di respingere ogni assalto· del desiderio, ma si direbbe che i difensori abbiano lasciato la porta aperta; è dall'ingresso principale che la jouissance penetra nel maniero, e vi si installa come un possessore legittimo. Il quarto paradosso riguarda la colpa. In proposito, la lezione di Freud è tra le più innovative, come Laèan sottolinea ripetutamente pur rilevando che i termini dell'antinomia sono ben presenti nella tradizione dell'etica. Senza alcuna ambiguità o reticenza, san Paolo ha spiegato la necessità della Legge affinché vi sia il peccato: tanto più cresce la severità della proibizione, e tanto più si profila la possibilità di essere smisuratamente peccatore (EP, 208). Quanto a Freud, egli scrive Il disagio della civiltà per dirci che tutto ciò che è deviato dal godimento verso l'interdizione va nel senso di un rafforzamento sempre crescente dell'interdizione. Chiunque si sforza di sottomettersi alla legge morale vede costantemente rinforzarsi le esigenze più minuziose, più crudeli, del suo Super-io (EP, 208). L'insaziabile dispotismo dell'Ueber-Ich, il suo esigere sempre nuovi sacrifici, nuove offerte, nuovo sangue, come una divinità infinitamente crudele, deve farci riflettere. Si è già posto in dubbio che l'etica sappia pervenire all'autonomia: ma il dibattito autonomo/eteronomo, così come si è svolto nell'ambito filosofico, ha ignorato un presupposto la cui ovvietà non risulta più tale. Il presuppo16

sto di una non-aggressività dell'etica, di un'«etica disarmata»: lo spazio morale sarebbe quello in cui si entra dopo aver deposto le armi, dopo aver rinunciato allo spirito di sopraffazione. Occorre che non solo Eros, ma anche Thanatos resti fuori; niente di bellicoso, niente che riguardi il potere, la guerra, la strategia, ha diritto di cittadinanza nell'Etica o nella post-etica. Ora questo spirito di pacifismo ci appare improvvisamente come un'illusione o una menzogna: tutti gli sforzi per sottrarre retica ad una dimensione eteronoma non sono diretti semplicemente al riconoscimento di uno spazio al riparo dalle pressioni religiose, ideologiche, politiche, ecc. Al contrario, sembrano funzionali ad un ribaltamento dei rapporti di potere: conquistando l'autonomia, l'etica vuol rendere eteronomo il territorio circostante. Insaziabilmente aggressiva, non fa che imporre una crescente sottomissione. Si badi che la posta in gioco non è solamente quella, più visibile, dei «contenuti» (il rapporto politica/morale, il problema se il fine giustifichi i mezzi, e così via); l'etica aspira all'interiorizzazione del suo comando sovrano, non ammette altra razionalità al di fuori della propria. Quando Socrate afferma «lo credo di essere uno dei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che coltivi la vera arte politica e il solo tra quelli di oggi che la pratichi» (Gorgia, 521d), nelle sue parole si fa strada la vera identità di un'etica «armata», pronta a giustificare il proprio espansionismo in quanto ispirato a valori superiori. Il socratismo/ platonismo vuole cancellare la metis, la strategia come· «ragione»: esso è in guerra contro l'agire strategico, degradato a insieme di pratiche ostili alla conoscenza e alla Verità. Non sappiamo se questa operazione sia stata suggerita d� un istinto infallibile o da una spietata lucidità: comunque sia, l'etica aveva individuato il suo più temibile avversario nella razionalità «morbida», e non nell'eccesso del desiderio. Intuizione esatta di una correlazione inca17

tenata, del «noeud étroit du désir et de la Loi» (EP, 208). Procedendo lungo una via senza freni, il libertino è destinato a incontrare la sempre più tenace presenza dell'Ostacolo, fino ad autorizzare il sospetto che desiderio e legge derivino da una radice comune. In questo senso Lacan si riferisce frequentemente alla testimonianza di Sade. Dunque, non è l'irruzione di una pulsionalità barbarica a minacciare per davvero il dominio dell'etica: al contrario, quel timore costituisce la sua principale, inesausta fonte di legittimazione. Per quanto grave sia il disagio che esso impone, la Legge resta il baluardo irrinunciabile della Civiltà, il remedium all'indeterminatezza originaria della natura umana, il buon artificio che disciplina l'incostanza della natura:Wo Es war, soll Ich werden. In assenza del Super-io, il programma della «cultura» sarebbe inattuabile. Ciò che più importa all'etica, è che non si riconosca come legittimo uno spazio extra-morale, dotato di una razionalità specifica. Perciò essa non si stanca di aggredire tutti gli ambiti di ricerca in cui emerge una razionalità soft, legata alle categorie del tempo, della quantità, della forza, indirizzata a un'ontologia flessibile che non ammette l'efficacia delle Leggi ma solo (o principalmente) delle regole5. E poiché la psicoanalisi è uno di questi ambiti, l'etica ha immediatamente cercato di penetrarvi e di imporre il consueto programma di bonifica. In una certa misura, vi è riuscita: quando denuncia le tendenze di una psicanalisi «ortopedica», che prescrive le fasi e le modalità di un giusto sviluppo nell'individuo, che lo avvia o lo recupera alla «normalità», Lacan ammette la gravità della distorsione, che si cerca di imporre alla disciplina inaugurata da Freud, e che lo stesso Freud non è sempre riuscito a scongiurare. 18 La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l'altro

è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiave in catene. Fortissime e selvagge, le pulsioni sessuali in senso stretto rimangono pur sempre in agguato dietro le componenti pulsionali che sono diventate così servizievoli. Guai a liberarle! Il trono verrebbe rovesciato e la regina calpestata6 • A parlare, qui, è un pensatore «moralizzato». Ma, pur legittimando la «civiltà», Freud non si è astenuto dal metterne in luce l'insopprimibile disagio. Un disagio addizionale - per riprendere un termine di Marcuse- poiché la psicoanalisi non si limita a indagare la genesi del Superio come un'entità necessaria, ma ne esplora i paradossi: «ciò che ho chiamato questa figura oscena e feroce sotto cui si presenta l'istanza morale quando andiamo a cercarla nelle sue radici» (EP, 15). 3. La Cosa Torniamo dunque a chiederci - dopo aver posto la domanda in esergo- quale sia il contributo della psicoanalisi relativamente all'origine della morale (EP, 14). E se è vero che essa può favorire anzitutto l'exploration de sesparadoxes, accostiamo alle antinomie già enunciate quella del Bene Supremo: Ebbene, il passo compiuto da Freud, al livello del principio di piacere, è di mostrarci che non c'è Bene Supremo - che il Bene Supremo, che è das Ding, che è la madre, l'oggetto dell'incesto, è un bene proibito, e che non vi è altro bene. Tale è il fondamento, rovesciato in Freud, della legge morale (EP, 85). Queste righe meritano un commento accurato. Siamo di 19

fronte a uno dei concetti cruciali del Seminario VII: la Cosa, das Ding, distinta dall'oggetto, die Sache; e anche all'eventualità di fraintenderlo immediatamente, riducendolo alla sua esemplificazione edipica: la mère, l' object de l'inceste. Non sarà impossibile dissolvere tale equivoco, ma più arduo _sarà affrontarne un secondo, cioè la tentazione di una lettura in chiave soltanto differenziale del concetto. È nel quarto capitolo che Lacan confronta i due termini «qui disent la chose -das Ding et die Sache» (EP, 55). Die Sache è la cosa, prodotto dell'industria o dell'azione umana in quanto è governata dal linguaggio. Benché implicite in un primo tempo nella genesi di questa azione, le cose sono sempre alla superficie, sempre in grado di essere esplicitate. Nella misura in cui è soggiacente, implicita in ogni azione umana, l'attività di cui le cose sono il frutto appartiene all'ordine del preconscio, cioè di qualcosa che il nostro interesse può far salire alla coscienza, purché noi vi prestiamo sufficiente attenzione.-.. La parola si trova in posizione reciproca, in quanto s'articola, in quanto viene qui a spiegarsi con la cosa, in quanto un'azione, anch'essa dominata dal linguaggio, dunque dal comando, avrà staccato e fatto nascere quest'oggetto. Sache e Wort sono dunque strettamente legate, formano una coppia. Das Ding si situa altrove (EP, 58). La sobrietà con cui die Sache viene circoscritta si trasforma in un vortice definitorio, non appena si tratta di catturare das Ding. Le sue proprietà si accumulano; essa è l'Altro assoluto, l'oggetto perduto come tale (EP, 65), il fuori significato (hors-signifié) (EP, 67), la realtà muta (EP, 68), ciò che sta al di là del principio di piacere (EP, 124), ciò che è essenzialmente velato e dunque rappresentato sem20

pre da un'altra cosa (EP, 143), il vuoto al centro del reale (EP, 146), ciò che sta all'origine della catena significante (253), ecc. Questa lista di predicazioni parzialmente ricorsive contorna la Cosa nella sua insormontabile differenza. Ogni determinazione suggerisce un percorso interpretativo che finisce inevitabilmente con l'attraversare gli altri. Si potrà tentare una prima perlustrazione di alcune categorie, senza la pretesa di giungere al fondo del loro labirintico incrocio. D'altronde, sia sul piano concettuale sia su quello ontologico la Cosa è accessibile soltanto con «scelte parziali»: è in rapporto a Das Ding che l'individuo sceglie il suo particolare destino, e anche la sua malattia (EP, 68). Si sarà intuito che la Cosa è un vero e proprio focolaio di paradossi, l'oggetto paradossale per eccellenza: l'assolutamente Altro, «cet intérieur exclu qui... est ainsi exclu à l'intérieur» (EP, 122). A rigore, la Cosa è estranea a ogni «sentimento», ad alcunché di psicologico: è al di là della psiche, pur essendo ciò che non cessa di determinarla. In modo plastico, bisogna aggiungere: la Cosa non è il Motore immobile che suggerisce fini prestabiliti e ciclici all'universo del desiderio. Essa è l'apice e il punto di nau� fragio delle pulsioni, nel senso che rivela la loro costitutiva flessibilità. La si potrebbe definire un concetto-limite; come il Noumeno kantiano, la cui funzione per l'appunto è solo negativa, e consiste nel rammentare al fenomeno la sua essenziale finitudine. La Cosa non impartisce ordini al desiderio, solo gli ricorda il suo essere segreto anche a se stesso, il suo enigma perenne e costitutivo. Immaginiamo che l'universo aristotelico sia bruscamente privato del suo motore, che la suprema Causa finale si ritiri nel nulla: non per questo gli esseri desistono dal precipitarsi nello spazio turbinoso di quell'assenza. Anzi, alle forze che spingono in quella direzione- possiamo designarla tutt'al più con i deittici, così come non sappiamo nominare la Cosa se non col più elusivo di tutti i nomi- si 21

aggiunge con incomprensibile anelito la pulsione di sapere. Allora il soggetto percorrerà gli orli del suo universo squarciato; non riuscirà a oltrepassarli; ma, per uno di quei rovesciamenti impalpabili che derivano da misteriosi contatti tra i registri della psiche, improvvisamente i confini della sua isola gli appariranno come i confini del mare; la pienezza del suo essere gli sembrerà una cornice del vuoto, una macchia sulla superficie del Nulla. Se le metafore risultano insufficienti, ci si può richiamare al caso clinico7 o semplicemente all'aneddoto. La ' Cosa abita anche la sfera del quotidiano: per trovare un oggetto che la riveli - nell'ambiguo e reticente senso dell'aletheia, l'unico che d.as Ding ammetta - basta rivolgersi agli oggetti più semplici della nostra esperienza, come un vaso oppure una scatola di fiammiferi. Questi oggetti modesti non sono estranei al mistero della creazione, nella prospettiva del teologo come in quella dell'artista. Il vasaio prende un po' di materia e l'avvolge intorno a una forma assente: come il demiurgo della filosofia antica, egli lo crea ex nihilo, a partire da un buco, da un nulla (EP, 146). Dunque, in modo analogo alle grandi opere di architettura, il più semplice dei vasi è «un oggetto fatto per rappresentare l'esistenza del vuoto» (EP, 146). Le scatole di fiammiferi sono la materia di un aneddoto narrato da Lacan: parecchi anni prima, egli si era recato a Saint-Paul-de-Vence in visita all'amico Prévert e, nella sua abitazione, aveva scorto una collezione che di per sé non presentava un particolare interesse. Nondimeno quelle scatole di fiammiferi, tutte dello stesso tipo, erano disposte inmaniera assai piacevole; parzialmente infilate le une dentro le altre, davano vita a una striscia coerente, che correva lungo il bordo del camino, saliva per il muro, costeggiava le cimase e ridiscendeva lungo una porta. Ma qual era il motivo che rendeva la collezione così singolare? Io credo che lo choc, la novità dell'effetto rea22

lizzato da quell'insieme di scatole di fiammiferi vuote - questo punto è essenziale - era di far risaltare qualcosa a cui forse prestiamo troppa poca attenzione, cioè che una scatola di fiammiferi non è semplicemente un oggetto, ma che essa può, sotto la forma (Erscheinung) in cui veniva proposta nella sua molteplicità davvero imponente, essere una Cosa. [...] Il carattere completamente gratuito, proliferante e superfetatorio, quasi assurdo, di quella collezione, investiva in effetti la sua coseità di scatola di fiammiferi. Il collezionista trovava la sua ragione in quel modo di apprensione che non si rivolgeva tanto alla scatola quanto alla Cosa che sussiste in una scatola di fiammiferi (EP, 136). Questo breve apologo, dedicato a oggetti della quotidianità innocente, introduce il tema della sublimazione. Il Seminario sull'etica non poteva certo ignorare che un qualsiasi lettore di Freud è portato a collegare immediatamente la sfera dei valori morali e i processi di sublimazione. La cosiddetta «civiltà», di cui i valori fanno parte integrante, appare come un gigantesco prodotto della sublimazione, un'estensione dal singolo alla società intera del «sacrificio pulsionale». Lo stesso Freud si dichiara colpito dall'«analogia tra il processo di incivilimento e l'evoluzione libidica del singolo»8 , e aggiunge: «La sublimazione pulsionale è un segno che contraddistingue particolarmente il processo d'incivilimento; essa fa sì che alcune attività psichiche assai elevate - le attività scientifiche, artistiche, ideologiche - assumano una parte così importante nella vita civile»9 • In Freud il concetto di «sublimazione» resta peraltro problematico: ad esempio la definizione più nota, che focalizza «la capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un'altra meta che non è più sessuale, ma è psi23

chicamente imparentata con la prima»10 , viene parzialmente modificata nelle Nuove lezioni, dove il cambiamento riguarderebbe tanto la meta quanto l'oggetto della pulsione. Tuttavia Lacan scavalca perentoriamente oscillazioni di questo genere (il che non significa che esse siano trascurate 0 sottovalutate) al fine di giungere a una definizione del tutto inedita, almeno sul piano terminologico: E la formula più generale che vi dò della sublimazione è questa - essa eleva un oggetto... alla dignità della Cosa (EP, 133). Potrebbe sorgere qui l'impressione di un netto distacco rispetto alla tematica freudiana, con uno slittamento dal registro pulsionale, energetico, a quello «smaterializzato» o filosofico. Ma sarebbe un'impressione errata: le definizioni più innovative, in Lacan, mirano generalmente a ritrovare una densità problematica che la tradizione e l'«ortodossia» hanno diluito fino a renderla impercepibile. Verifichiamo subito l'aggancio della Cosa alle pulsioni: La sublimazione, che offre al Trieb un soddisfacimento diverso dalla sua meta - sempre definita come la sua meta naturale - è precisamente ciò che rivela la natura propria del Trieb in quanto esso non s'identifica semplicemente con l'istinto, ma è in rapporto con das Ding come tale, con la Cosa in quanto essa si distingue dall'oggetto (EP, 133). Ecco che veniamo attratti in cerchi sempre più ampi: se l'oggetto della pulsione è un oggetto «impossibile», noumenico, nominabile solo per sostituzione - se «il problema della Cosa resta sospeso a ciò che vi è di aperto, di mancante, di beante, al centro del nostro desiderio» (EP, 102) -, quanta credibilità si deve ancora concedere alle 24

prospettive di un'educazione, di una maturazione, di un adattamento alla realtà? Quello che la tradizione umanistica europea presenta come un progresso, sia pure ottenuto a prezzo di un sacrificio (ma di che cosa, se non del cieco egoismo pulsionale?), appare nella prospettiva psicoanalitica come un tragico cedimento. Come una rinuncia all'autenticità del desiderio, come la prima grande menzogna-protonpseudos - che sta alla base dellamorale e della civiltà. L'etica è la promessa del Bene Supremo, raggiungibile tramite l'adesione a valori pubblici, civili. E questo ritratto vale più che mai per l'etica laicizzata, costruita sulla base di un consenso razionale. Senza dubbio, il Bene Supremo potrà venire inteso come un ideale regolativo (in senso kantiano): nondimeno esso esiste, ed è il criterio sul quale commisurare il comportamento empirico dei soggetti. O, se non esiste, esso è valido - il suo essere è l' essere del valore, per quanto Heidegger inorridisse di fronte a questo sintagma della modernità. Il Bene è la meta su cui intelletti onesti, orientati chiaramente verso l'agire comunicativo, possono idealmente convenire. Relativamente a tutto ciò, l'impostazione freudiana è rivoluzionaria perché (lo abbiamo già ricordato) asserisce che «non c'è Bene supremo, benché non vi sia altro bene» (EP, 85). La meta a cui si dirigono universalmente i soggetti non è un oggetto a cui la razionalità riesce ad avvicinarsi - magari per approssimazioni successive: la meta delle pulsioni è das Ding, come causa pathomenon, la causa della passione umana più fondamentale (EP, 116). Non c'è progresso rispetto a tale meta: das Ding, in quanto l'uomo, per seguire il cammino del suo piacere, deve letteralmente farne il giro (EP, 114). Non esistono avvicinamenti progressivi, ma solo l'infini25

to delle possibili elaborazioni, e l'infinità iterativa di inesauste allusioni. È dunque questa la «menzogna originaria» da cui nasce l'etica: che esiste il Bene (rimozione del primo paradosso), che se non esiste il Bene, disponiamo di una razionalità in grado di amministrare l'economia dei beni (negazione del secondo paradosso). Quanto alla psicoanalisi, essa si trova a svolgere anche filosoficamente l'inevitabile ruolo di una genealogia della morale: essa rivela di quanta paradossalità sia intessuta la veste dell'etica, avanza il sospetto che ilproton pseCìdos sia una difesa contro l'intollerabile ammissione della Cosa. Ma, infine, se la psicoanalisi è pensiero extra-morale - se è un'indagine sulla sofferenza dell'uomo, sul modo di alleviarla almeno parzialmente, se in ciò è «umanistica» - e se dunque non può rinunciare a proporre un'arte del vivere, dei precetti o delle regole, che cosa potrà chiedere ai soggetti se non di obbedire (divenendone consapevoli) alla loro paradossale natura? 4. La fedeltà al desiderio L'etica dell'analisi - «perché ce n 'è una» (EP, 19) - si configura in tre ideali: l'amore, l'autenticità, la non-dipendenza. Lacan li presenta rapidamente nell'apertura del Seminario, senza peraltro rinunciare ad alcune precisazioni. Con il termine amore non si indica l'esperienza «compiuta» o «completa» di un certo moralismo ottimista, né si dichiara legittima la genitalizzazione del desiderio: la psicoanalisi non è l'incarnazione di un amourmédecin (EP, 17). Quanto all'autenticità, essa è un ideale quasi implicito nell'analisi come «tecnica di smascheramento» (EP, 18). La psicoanalisi non è una scienza positiva delle virtù, una ragione pratica: semmai essa dischiude delle vie, lungo le quali si auspica che la virtù possa fiorire (EP, 19). Ma il suo compito è anzitutto decostrutti26

vo nei confronti dell'identità del soggetto: occorre rispondere «alla domanda di non soffrire - perlomeno, senza comprendere - nella speranza che, mediante il comprendere, si libererà il soggetto non solo dalla sua ignoranza, ma dalla sua stessa sofferenza» (EP, 16-7). Per quanto riguarda infine l'ideale della non-dipendenza («o, più esattamente, una profilassi della dipendenza», EP, 19), acquistano rilievo tutte le riserve della posizione freudiana nei confronti dell'educazione, dell'analisi come ortopedia. Se c'è una differenza tra l'etica classica (ad esempio, quella aristotelica) e l'etica psicoanalitica, essa sta nel fatto che la prima è una «scienza del carattere», riguarda la formazione del carattere, la dinamica delle abitudini, mentre la seconda implica necessariamente «la cancellazione, la messa in ombra, il ridimensionamento, se non addirittura l'assenza... dell'abitudine, buona o cattiva che sia» (EP, 19). In quanto appartiene all'ambito della ragione soft, la psicoanalisi mira a sciogliere il soggetto dalle sue rigidità, facendo appello al regime dell'inconscio e del desiderio: e «l'essenza dell'inconscio s'iscrive in un registro differente da quello su cui, nell'Etica, Aristotele pone l'accento con un gioco di parole, E1'.toç/ij-&oç» (EP, 19). Bisogna attendere le ultime pagine del Seminario VII per ritrovare un'enunciazione in positivo dell'etica freudiana: in un immaginario Giorno del Giudizio, l'unica domanda che ci verrebbe rivolta da un tribunale «analitico» sarebbe questa: «Avete agito in conformità con il desiderio che abita dentro di voi?» (EP, 362). Io propongo che la sola cosa di cui si possa essere colpevoli, almeno nella prospettiva analitica, è di aver ceduto sul proprio desiderio (EP, 368). In tale formula si compendia tutto l'insegnamento lacaniano sull'etica. Può sconcertare il fatto che un'enuncia27

zione così radicale, così problematica e densa, compaia solo nelle ultime pagine, quasi a impedire lo scatenarsi di una tempesta interpretativa. In realtà, la tempesta si è già scatenata nei capitoli precedenti, e particolarmente in quelli che costituiscono l'eccezionale commento all'Antigone di Sofocle. Essi sono una vera e propria introduzione alla formula conclusiva: è vero che non esentano il lettore da un ulteriore sforzo di chiarificazione o di sintesi, non foss'altro che per il loro schema analogico. Il testo tragico è una metafora dell'esperienza analitica: ma in che senso si deve intendere la loro somiglianza? D'altronde: le metafore non sono forse interpretazioni da interpretare? Accostiamoci dunque a un'opera cui la psicoanalisi dovrebbe, secondo Lacan, un'attenzione almeno pari a quella rivolta da sempre all'Edipo re: perché nel desiderio di Antigone- oltre che in quello del suo genitore mitico-la verità sulla nostra natura «ama nascondersi» (qn'.,au; XQUJt'tEcrOm <pLAi:). Ma è lecito parlare di natura in rapporto al desiderio? Prima di considerare i punti salienti del commento lacaniano a Sofocle, è opportuno valutare le ambiguità connesse all'uso di questo termine e tentare qualche delucidazione preventiva. Di una cosa si può essere certi: che in Lacan non vi è una concezione «naturalistica» del desiderio, quale si è presentata, ad esempio, nel pensiero libertino del XVIII secolo11 o come si è riproposta recentemente nella «sinistra freudiana» (da Marcuse a Deleuze-Guattari): che il desiderio sia di per sé trasgressivo, o rivoluzionario, è una tesi incompatibile con tutta l'argomentazione del Seminario VII. Il suo presupposto sarebbe necessariamente che c'è un Bene supremo, e che si tratta soltanto di trasferirlo dal luogo della causa finale a quello della causa efficiente, o per usare un linguaggio approssimativamente marxiano, nel luogo della produzione. Il desiderio è buono (benché possa venire «snaturato», deviato, 28

schiacciato, ripiegato su di sé dal funzionamento della macchina sociale): niente di più anti-freudianO. Basti pensare alla diagnosi amara, crudamente pessimista, della natura umana nel Disagio della civiltà: l'uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d'amore, capace al massimo di difendersi quando è attacc;ata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?12 È questa la risposta all'interrogativo sulla (eventuale) natura del desiderio? Si tratta semplicemente di aggiungere i nomi di Freud e di Lacan alla tradizione del pessimismo antropologico? Per quanto ci riguarda, riteniamo che tale etichetta sia gravemente mistificatoria e non esitiamo ad attribuirne la coniazione alla prospettiva etica. Nella corrente del cosiddetto «pessimismo antropologico» vanno a mescolarsi due atteggiamenti, quello per cui l'uomo è una creatura malvagia e quello secondo cui l'uomo è un étre fléxible (Montesquieu). Non crediamo sia legittimo confondere la condanna - morale - della natura umana, il giudizio implacabile sulla sua corruzione (quale si riscontra in Tertulliano, Agostino o Lutero), con la diagnosi dei teorici della metis (da Machiavelli, a Hobbes, a Freud). Il loro giudizio è altrettanto spietato, ma occorre saperlo interpretare: significa, a un primo livello, il ri29

fiuto dell'ottimismo morale. L'uomo non può essere una creatura buona per il semplice motivo che è una creatura di desiderio-': così egli non può amare il suo prossimo; perché vi riconosce un essere spinto dalle sue stesse passioni 13• Ma ciò non implica che la natura umana vada irrigidita nel contrario degli ideali a cui dovrebbe tendere. In tal modo la natura sarebbe nuovamente ridotta e semplificata, mentre la morale verrebbe artificializzata all'estremo. Il Me-ti. Libro delle svolte di Brecht presenta una riflessione intitolata «Dell'occuparsi di morale»: Ci sono poche preoccupazioni, disse Me-ti, che danneggino la morale di un uomo tanto quanto l'occuparsi di morale. Sento dire: Bisogna amare la verità, bisogna mantenere le promesse fatte, bisogna lottare per il bene. Ma gli alberi non dicono: Bisogna essere verdi, bisogna lasciar cadere verticalmente i frutti al suolo, bisogna frusciare con le foglie quando ci passa il vento14• Nulla vieta -di scorgere nel testo di Brecht, considerato isolatamente, la rivendicazione di un'etica «naturalistica» in contrapposizione all'artificialità del «dover essere». Sovrapponendo però alle prime righe il già ricordato ammonimento di Nietzsche- «il credere nella morale non è ancora una prova di moralità»-, riceviamo l'impressione che Brecht stia suggerendo un'altra, e più complessa operazione:'che egli stia dubitando della possibilità di un ingresso autonomo nella morale, della possibilità di porre il problema dell'etica separatamente rispetto ad altre sfere della riflessione. Forse, dal riferimento a entità naturali, per le quali non ha senso il «si deve», va derivata l'opportunità di indagare la realtà a cui s'intendono prescrivere le leggi. «Pensare bene è il primo principio della morale» (Pascal). Pensare bene, e non «volere bene»: la buona conoscenza deve precedere la buona intenzio30

ne, l'etica non può rinunciare ad un fondamento cognitivo. Non resta che rammentare quale sia il contributo di conoscenza offerto dalla psicoanalisi: che l'uomo ha una natura desiderante, pulsionale, che le pulsioni sono forze definite dalla plasticità, e dunque che la natura umana è flessibile. Non c'è natura umana, se per «natura» si intende un regime di Leggi; viceversa, è naturale per l'uomo assecondare o estremizzare la propria elasticità. Che le pulsioni siano plastiche, non significa che si possa assegnare loro una forma, e una meta, in modo interamente arbitrario, artificiale, in-fondato. Proprio perché è radicalmente conflittuale, il mondo dei soggetti umani vede addolcirsi il profilo rapinoso del desiderio: sono le stesse passioni - come insegna Hobbes nel Leviatano - a chiedere il passaggio a una condizione nella quale non debba più valere il loro impeto distruttivo. Riluttante a sottomettersi ad una legge, la natura umana ammette la verità di regole come questa: Ogni scelta portata agli estremi finisce con l'autopunirsi, perché espone l'individuo ai pericoli che una tecnica di vita adottata in maniera esclusiva reca inevitabilmente con sé, proprio per la sua inadeguatezza 15 • Dovrebbe ormai essere acquisito secondo quale significato flessibile la psicoanalisi - analogamente agli altri saperi della metis - parla di una «natura». Essa non postula un fondamento metafisico; ma neppure si sente di escluderlo dai possibili destini del soggetto. La rigidità di un'essenza morale - di un imperativo categorico, da Kant a Sade - è una scelta sempre a disposizione: i due estremi, egualmente anelastici, di questo arco di possibilità, sono il dispotismo della Legge e la «dieta unilaterale» delle pulsioni. Eccoci così costretti a ritornare su una formula insufficientemente chiarita, la fedeltà al proprio desiderio. E al personaggio che ne simboleggia l'interpreta31

zione tragica: ci stiamo riferendo, è evidente, ad Antigone. 5. Il desideriq puro, o la seconda morte Che cos'è il tragico? A tale interrogativo Lacan s'impegna senza dubbio a rispondere, visto che la quarta sezione del Seminario reca come titolo «L'essenza della tragedia». Il particolare interesse di questo genere testuale viene giustificato più di una volta, ad esempio richiamando le somiglianze tra la struttura dell'etica tragica e quella della psicoanalisi (EP, 300). L'affermazione lascia almeno in un primo momento sconcertati: e se è vero, come ci rammenta Coleridg' e, che nessuna analogia cammina su tutte e quattrQ le gambe, siamo subito indotti a chiederci quali siano quelle che non camminano in tale analogia. Maggiormente accessibile è un'altra considerazione, secondo cui né la psicoanalisi né la tragedia svolgono una funzione pedagogico-morale. Si è già detto come l'insegnamento psicoanalitico sia riluttante nei confronti di ogni ortopedia; lo stesso vale per lo spirito tragico- benché gli studiosi del mondo classico non abbiano necessariamente torto nel sostener . e che la tragedia svolgeva importanti funzioni educative. Si deve soltanto imparare a disgiungere l'educazione dall'etica: Eccoci ora in dovere d'entrare nel testo di Antigone per cercarvi qualcosa di diverso da una lezione di morale (EP, 292). ... la lezione della tragedia, nella sua essenza, non è per nulla morale nel senso comune della parola (EP, 373). La tragedia non dà lezioni di morale. Forse essa insegna qualcosa a proposito dello strategico? E perché no, considerando il ruolo cruciale che in essa svolge la nozione di 32

«errore» e la sensibilità estremamente acuta nei riguardi del tempo? D'altronde, i due problemi sono intimamente collegati, poiché la maggior parte degli errori strategici riguardano non l'azione in sé, ma la sua collocazione in una sequenza temporale, il ritardo con cui si decide di compierla. Emblematico è il comportamento di Creonte, quando, in seguito alle minacciose profezie di Tiresia, con un mutamento improvviso depone il suo orgoglio e chiede consiglio al Coro: «In quel momento, è chiaro che se egli si fosse subito recato alla tomba prima di rendere gli onori funebri al cadavere, il peggio avrebbe potuto essere evitato» (EP, 309). Vedremo però che il rapporto «errore tragico/strategia» è più complesso. Ora dobbiamo introdurci nel testo dell'Antigone, o meglio dobbiamo attraversare la storia delle interpretazioni che rendono impossibile una visione «innocente» dell'opera. È inevitabile, ad esempio, prendere in esame la concezione hegeliana che vede l'Antigone alla luce del conflitto tra due diversi tipi di diritto, la legge della polis rappresentata da Creonte e i principi affettivi e religiosi della famiglia, impersonati da Antigone. Lacan osserva con tono garbatamente scandalizzato che per Hegel al conflitto dei discorsi segue la loro conciliazione (ma si può parlare di conciliazione nel finale dell'opera?, EP, 292). Forse questa obiezione fa torto a Hegel, non considerando l'eventualità di un «superamento» delle opposte unilateralità quantomeno dal punto di vista dello spettatore. L'obiezione importante però è un'altra: non è vero che nell'Antigone si scontrano due principi opposti nel senso di due rivendicazioni universali (il «giuspositivismo» di Creonte e il «giusnaturalismo» dellafiglia di Edipo). Un'eventuale somiglianza tra i contendenti andrà cercata in una diversa direzione, e dopo aver chiarito che Antigone non rappresenta alcun principio universale: anzi, ella è la «presentificazione di un'individualità assoluta» (EP, 32 3 )16• 33

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