Il piccolo Hans - anno XVI - n. 63 - autunno 1989

McDougall (1903) a Miner (1903), da Meumann (1894) a Ruckmick (1927), da Wallin (1911) a Werner (1919), da Schultze (1908) a Ghyka (1938), da Combarieu (1910) a Patterson (1916), daWundt (1886) a Sears (1902)2 . Anche i lavori più recenti, e più specifici, non mancano di sconcertare, sia per la quantità che per l'enorme moltiplicazione dei punti di vista. Mi pare cosa interessante, e utile, procedere ad una selezione e ad una classificazione delle teorie più significative, prima di procedere a più personali riflessioni in merito (più precisamente: psicoanalitiche). Dividerò pertanto le teorie del ritmo in sette categorie, a seconda della tesi di fondo sostenuta. 1. Il ritmo strettamente connesso al metro È una posizione alquanto ambigua, poiché, pur intendendo rompere con una secolare tradizione che vuole distinti ritmo e metro, una volta identificato il ritmo col metro, si apre un rigido percorso difficile da tenere con coerenza (come se non bastassero le smentite nei fatti). Di Girolamo (1976) è il più ortodosso rappresentante di questa categoria. Muovendo da una posizione ch'egli stesso definisce «neoformalistica», stabilisce un'equazione fra metricità e poeticità. Postula la presenza nel verso di un modello metrico-ritmico di base, non assimilabile alla sillaba e all'accento: seguendo Halle e Keyser (1966), egli parla allora di «posizione». Ma ecco subito presentarsi il vecchio sotto i panni del nuovo: egli è costretto a distinguere un «modello metrico» indicante il numero di «posizioni», invariante, di ogni verso, e un «modello ritmico», per altro meramente consistente nella distribuzione degli ictus entro la forma metrica3 • Ramous (1984) accoglie sostanzialmente la teorizzazione di Di Girolamo, ma se ne stacca su un punto, invocan-. do il leggendario detto jakobsoniano secondo cui la poe68

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