Il piccolo Hans - anno XVI - n. 63 - autunno 1989

zione così radicale, così problematica e densa, compaia solo nelle ultime pagine, quasi a impedire lo scatenarsi di una tempesta interpretativa. In realtà, la tempesta si è già scatenata nei capitoli precedenti, e particolarmente in quelli che costituiscono l'eccezionale commento all'Antigone di Sofocle. Essi sono una vera e propria introduzione alla formula conclusiva: è vero che non esentano il lettore da un ulteriore sforzo di chiarificazione o di sintesi, non foss'altro che per il loro schema analogico. Il testo tragico è una metafora dell'esperienza analitica: ma in che senso si deve intendere la loro somiglianza? D'altronde: le metafore non sono forse interpretazioni da interpretare? Accostiamoci dunque a un'opera cui la psicoanalisi dovrebbe, secondo Lacan, un'attenzione almeno pari a quella rivolta da sempre all'Edipo re: perché nel desiderio di Antigone- oltre che in quello del suo genitore mitico-la verità sulla nostra natura «ama nascondersi» (qn'.,au; XQUJt'tEcrOm <pLAi:). Ma è lecito parlare di natura in rapporto al desiderio? Prima di considerare i punti salienti del commento lacaniano a Sofocle, è opportuno valutare le ambiguità connesse all'uso di questo termine e tentare qualche delucidazione preventiva. Di una cosa si può essere certi: che in Lacan non vi è una concezione «naturalistica» del desiderio, quale si è presentata, ad esempio, nel pensiero libertino del XVIII secolo11 o come si è riproposta recentemente nella «sinistra freudiana» (da Marcuse a Deleuze-Guattari): che il desiderio sia di per sé trasgressivo, o rivoluzionario, è una tesi incompatibile con tutta l'argomentazione del Seminario VII. Il suo presupposto sarebbe necessariamente che c'è un Bene supremo, e che si tratta soltanto di trasferirlo dal luogo della causa finale a quello della causa efficiente, o per usare un linguaggio approssimativamente marxiano, nel luogo della produzione. Il desiderio è buono (benché possa venire «snaturato», deviato, 28

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