Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

Il piccolo Hans r.ivista di analisi materialistica 58 estate 1988 Virginia Finzi Ghisi 5 L'uccello che canta e il "caleidoscopio del cielo" Paola Colaiacomo 7 Milton contro l'antico Ermanno Krumm 23 L'Oscuro Interprete Giovanni Cacciavillani 59 Il pensiero del tesoro e Vigny Tommaso Pomilio 79 Pisani-Dossi. La vita dei nomi Giuliano Gramigna 94 La pace della sera NOTES MAGICO Alba Marino 106 Perché? Incontro e scontro con Sibilla Aleramo Mario Spinella 116 Carlo Emilio Gadda tentato dal sublime Nicoletta Morello 130 I maestri di Linneo geopaleontologo Romolo Rossi 153 Una tavola di Mendelejeff per la psiche LETTURE Carlo Formenti 168 Gregory Bateson: epistemologia ed etica Jan Baetens 186 Microlettura di "L'Arcano XIII" di "Macabré'' MINUTE Giulio Barsanti 199 Storie naturali

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Giulio Barsanti, Giovanni Cacciavillani, Paola Colaiacomo, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Carlo Formenti, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Alba Marino, Nicoletta Morello, Tommaso Pomilio, Romolo Rossi, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1987 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Tipolitografia Meina, Carugate (Milano)

L )uccelloche canta e ti rcaletdoscopio del cielo)) Il paradiso perduto ha lasciato le sue tracce nel luogo della fobia. Lo sbarramento che ne impedisce l'accesso, la presenza dell'animale, ma anche tutto il rapporto che solo attraverso il «luogo della fobia» l'uomo intrattiene con la natura. È nel luogo della fobia, così abbiamo chiamato «la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico» all'età di quattro anni, che awiene per noi ciò che per Lacari awiene con il linguaggio: si struttura l'inconscio. Si struttura come un linguaggio per Lacan, e l'arcobaleno esiste nel momento in cui l'uomo lo dice, e gli animali lo ignorano. Rivela le tracce del lavoro compiuto dalla natura, ora oscurata, per noi: e appaiono nei sogni della notte i colori, le macchie, le strisce, gli ocelli a segnare di tratti animali la psiche umana. È quasi sera nella casa sul lago. Per un momento una luce argentea rende fosforescenti e distingue i viola dei rododendri, i rossi delle azalee, il viola-arancio degli aceri, e sono gli uccelli a incominciare a cantare proprio in quel momento, diverso in tutte le stagioni, a marcare il cambio della luce. L'uomo ha perduto il suo paradiso da sempre e la nevrosi ha bisogno di dimenticarlo come la perversione di pietrificarlo. Ma attraverso le fobie inawertite ma tenaci che ce ne tengono lontani, affiora il ricordo del luogo della fobia, dove 5

- - la fobia non è disconosciuta, dove la terra trema sotto gli zoccoli del cavallo di Hans, dove è possibile costruire una casa, una città, come si scrive un romanzo, dove i simboli non appartengono al mondo del pensiero del linguaggio e della scrittura, ma alla sfera del bricolage, dell'artigianato, del mettere insieme, artificialmente, come è artificiale la selezione naturale, del paradiso perduto che ci circonda i resti che ci costituiscono. Virginia Pinzi Ghisi 6

Milton contro l'antico $cendi dal cielo, Urania, se con questo nome E giusto invocarti, tu la cui voce divina Inseguendo, oltre il colle olimpio io mi libro, Oltre il volo di ala pegasèa. Il significato, non il nome invoco: poiché tu Nè sei una delle nove Muse, nè sulla cima Del vecchio Olimpo dimori, ma, nata in cielo, Prima che le colline apparissero o fonte fluisse, Conversasti con l'eterna Saggezza A te sorella, e con lei giocasti Dinnanzi al Padre Onnipotente, compiaciuto Del tuo canto celestiale. Da te guidato verso l'alto Nel cielo dei cieli ho ardito presentarmi, Ospite terreno, e inalare aria empirea Che tu mi addolcivi; con pari sicurezza giù guidandomi Restituiscimi al mio nativo elemento: Ché da questo volante destriero privo di redini (come già Bellerofonte, sebbene da sfera più bassa) Scavalcato, io non cada sulla pianura Alea E lì non vaghi errando abbandonato. Una metà resta ancora non cantata, ma di confine più stretto, Nella visibile sfera diurna; Ritto sulla terra, non rapito oltre il polo, Più sicuro io canto con voce mortale immutata, Non fatta roca né sorda, sebbene caduto nei giorni cattivi. Nei giorni cattivi sebbene caduto, e delle lingue cattive; Nella tenebra e circondato tutt'attorno dai pericoli, E dalla solitudine; eppure non solo, finché tu Ogni notte visiti i miei sogni, o quando il mattino Imporpora l'oriente: governa tu ancora il mio canto, Urania, e trova ascoltatori capaci, pur se pochi. Ma conduci lontano la barbara dissonanza Di Bacco e della sua turba, stirpe Di quell'orda selvatica che dilaniò il bardo tracio 7

A Rodope, dove boschi e rocce ebbero orecchi All'estasi, fino a che il clamore selvaggio non coprì E arpa e voce; né poté la Musa difendere Suo figlio. Così tu non mancare, a chi ti im p lora: Perché tu sei celeste, quella un vano sogno. Un movimento verso il basso, antisublime, sostiene la protasi del VII libro del Paradiso perduto. Il poeta invoca dalla musa celeste la discesa dal cielo empireo: fin lassù l'ha seguita, attirato dalla sua voce divina above the flight of Pegasean wing. Ma ora chiede la perdita dell'ispirazione, la liberazione dall'estasi: che la musa lo riconduca giù, lo restituisca all'elemento nativo. Alla terra. Lì il canto sarà fermo: standing. Tutto contenuto nella sfera diurna, sempre visibile, ché dell'alternanza di luce e d'ombra è fatto il giorno terreno, il solo che lui conosca. Ancora, forse, quando il canto incomincia l'estasi è in atto. I soar, mi libro, dice il poeta da un presente indefinito, assolutamente irrelato, per sintassi di racconto, all'altro presente che dal centro di questo introibo gli risponde: «ritto sulla terra più sicuro io canto». In mezzo, silenziosamente, nell'ambito di quella più generale storia della Caduta che è il tema del racconto epico, un'altra «caduta» si è consumata. Possiamo divertirci a immaginare il Bardo Miltonico, impaurito all'impennata di Pegaso come già il suo precursore trecentesco Chaucer dal volo dell'aquila, che supplica di esser fatto scendere dall'alato destriero; e non c'è dubbio che ai vv. 25-26, con la doppia sottolineatura chiasmatica che li marca-though fallen on evil days, I On evi! days though fallen - la sua preghiera è stata esaudita. È avvenuta la caduta: dalla luce costante dell'empireo allo stretto cerchio della luce e del buio terreni, dalla voce «divina» a quella «mortale». Proprio a metà del canto -Half yet remains unsung-il modo sublime è stato abbandonato. La sua componente tecnicamen8

te più indispensabile, quel «rapimento estatico» che, secondo il trattatista antico, dovrebbe «dominare interamente l'anima dell'uditore» (I, 4), ora il poeta, uditore della musa, esplicitamente rifiuta. Dall'alto vuole esser ricondotto giù, verso il basso. Da guida, la musa deve farsi semplicemente custode. Angelo custode. Quella solitary way che Adamo ed Eva intraprendono alla fine del poema, il poeta la incontra a metà, quando ancora metà del cammino è da compiere. Nel canto egli è solo, immerso nell'oscurità, e stretto da ogni parte da pericoli. Eppure si sente sicuro, più sicuro. Non ci è dato assistere alla caduta: siamo al di qua, o al di là di essa. C'è uno stacco segnato dal punto fermo dopo forlom, dopo l'abbandono di Bellerofonte da parte degli dei, e poi il canto riprende come da un suo ritrovato centro di gravità. Dal suo centro geometrico. Ma esattamente il punto in cui quel centro si segna non viene a rappresentazione. Per il poeta non c'è nulla che equivalga al «she plucked, she eat» (IX, v. 781) di Eva, all'infuori della sospensione sul vuoto insostenibile di quella parola: forlom. La stessa che abbatterà ogni residua resistenza di Adamo: come vivere, dopo la perdita di Eva, in these wild woods forlom (IX, v. 910)? La stessa che, dirà Keats, «come un campanello», mi riporta «da te» - dall'usignuolo - « al mio io solo». Ora il movimento di Keats qui Milton già l'anticipa, ma con più forza: per il poeta romantico quella dell'usignuolo è voce «immortale». In essa - in such an ecstasy - egli vorrebbe confondersi; morire in essa. Così il suo canto salirebbe sempre più in alto; sarebbe lui, il poeta, «l'uccello immortale». Ed è dall'apice di quell'estasi «oltre il volo di ala pegasea», che rintocca per lui la parola-campanello, forlom, e lo riconduce su se stesso, sulla propria sorda mortalità. Nel mondo nebuloso delle visioni ambigue, dell'incertezza tra la veglia e il sonno: dal quale la musica è "fuggita". Sulla mortalità della voce invece Milton vuol poggiare il suo canto. Lì farlo cadere 9

perché duri. Caduta infatti c'è stata, ma non nell'errore, non nell'erranza dell'eroe mitico Bellerofonte, che qui Milton fa mediatore del passaggio dal canto divino a quello semplicemente mortale. Al suo nome l'antichità ha legato due immagini principali. Quella, soprattutto omerica (Il., VI), dell'eroe vittorioso che sventa l'insidia mortale delle lettere di cui è egli stesso latore - inconsapevole precursore di Amleto in viaggio verso l'Inghilterra - e quella, soprattutto ovidiana, dell'eroe posteriore che in un accesso di ùbris presume di dare la scalata all'Olimpo per verificare gli antichi quesiti oracolari: «la miglior cosa è non esser nati», e «ci sono davvero gli dei?».2 Ma l'alato destriero se lo scrolla di dosso per tornarsene da solo all'Olimpo, mentre Bellerofonte precipita sulla pianura Alea, dove vagherà fino alla morte avvolto nel suo errore. Attraverso il riferimento al mito classico, la «voce» miltonica realizza qui la propria identificazione con l'antico, ma anche la propria disambiguazione rispetto ad esso. Se ancora possiamo riconoscere nel Milton scrittore e polemista puritano l'ombra dell'eroe che si salva nonostante e attraverso le lettere, ché nemmeno a lui esse sono «portatrici di morte» ({}uµocp{}6ga), come dopo la restaurazione della monarchia ben avrebbero potuto essere, d'altra parte abbandonando per tempo l'«ala pegasea» egli arriverà non che a verificare l'esistenza degli dei, addirittura a giustificarne le «vie agli uomini». Virgilio apriva il suo settimo libro nel presentimento di cose «più grandi» a venire - maius opus moveo - mentre l'epica moderna e cristiana, giunta esattamente allo stesso punto del suo cammino, dichiara di voler scendere verso il basso. Scartato il «no middle flight» dell'inizio, il canto esce dall'orizzonte del «non esser nati», del µri cpuvm edipico come elevazione del desiderio, cui lo ricondurrebbe il mito. Disdegna l'effetto di sublime che gli potrebbe derivare dal­ ]'evocazione di un impossibile carico di una tanto illustre 10

tradizione - quel «pensiero aggiunto» che, secondo il trattatista antico, «va al di là dei limiti della persuasione» (XV, 10), e dunque trascina, rapisce, gli animi degli ascoltatori - per aprirsi alla .sicurezza di un presente del quale realizzazione somma, e già tutta disponibile, è la morte: More safe I sing with morta! voice. Così il mito non è negato perché «falso» rispetto alla verità della Scrittura, l'accesso ad esso non è sbarrato dal suo esser feign'd. Il mito antico non è bellezza inarrivabile cui guardare con nostalgia, perché sempre già perduta. Ora, addentrandosi nella sua seconda, «non cantata» metà, per poter proseguire il canto deve liberarsi del mito. Lasciarlo cadere come cosa inservibile. In Longino l'imitazione è una via al sublime, perché «dal genio degli antichi si sprigionano degli effluvi [...] che penetrano l'anima dei loro rivali» (XIII, 2). Essa «non è un furto»: Platone, per esempio, lottò con tutte le sue forze (navi:ì.-&vµtj')) contro Omero, «come un giovane atleta nell'agone». Anche Bellerofonte è sconfitto dalla voce mortale «immutevole» del Bardo Miltonico, ma il poeta moderno, che probabilmente non conosceva nemmeno il trattato antico, trova un modo originale per uscire dall'agone imitativo, che pure altrove aveva ingaggiato con tutte le sue forze. Egli semplicemente oblitera il nome di Bellerofonte cancellandone la figura, ossia la valenza mitica. Così privato della sua immagine, quel nome viene ricondotto nella zona neutra del significato, alla quale il poeta aveva preliminarmente implorato l'accesso dalla sua Musa. Il Nome mitico diventa nome comune, sgravato delle connotazioni incapsulate nella storia cui allude. Nel discorso, decade quasi al rango di aggettivo, di epiteto esornativo; l'immagine di cui è portatore può esser tranquillamente ripresa e poi cancellata con una semplice negazione grammaticale: da quella salita verso l'alto, si è potuti infatti ridiscendere senza danno. Si può usarne, e poi accantonarla. Il mito non serve più, nemmeno 11

contrappositivamente, per spiegare un'origine: delle lettere, del canto. Per questo non avrebbe più senso darsi la pena di dichiararlo «falso». Solo dalla prospettiva della Caduta, appare il Nome e diventa possibile il pensiero di una lingua pura, paradisiaca. La nostalgia di essa. Questo particolare effetto di sublime - sublime del desiderio e della lontananza di qualcosa che pure ci pare di intravedere e di star per cogliere - Milton aveva ricercato e ottenuto soprattutto nel libro IV, quando la visione della piena fruizione edenica era stata filtrata dallo sguardo negatore e separatore di Satana, il diabolus. E forse per questo i commentatori moderni che pongono al centro della loro esegesi il problema di come possa la lingua caduta dire un mondo non caduto, poggiano la loro analisi su quel libro. Perché lì è Milton stesso a far sentire, oltre il canto, sempre un altro canto «esperio»: che si ritrae nel momento in cui la mano si tende verso di esso. Ma ora non è più tempo di visioni: ora che il poeta ha ottenuto la grazia della sua caduta, gli appare il carattere paradossalmente referenziale della lingua edenica come lingua fatta di puri Nomi. L'imperfezione di quella lingua innocente, che il salto -irrappre- . sentabile - nell'oscurità dovrà correggere: liberando il Nome dall'angoscia della naturalità ad esso immanente. Dall'oppressione dell'immagine che lo appesantisce. E il nome mitico è il primo, all'incipit del libro V II, a trovarsi così affrancato. In questa riduzione dell'antico a mondo di nomi comuni, Milton è già neo-classico: il suo non è l'antico in continuità col quale operava il poeta rinascimentale, tanto da credere di poterlo addirittura far «rinascere», di poterne dare la riproduzione indistinguibile, come avevano sognato gli umanisti italiani e ancora, in una fase della sua attività, Michelangelo. E non è nemmeno, l'antico di Milton in questa seconda metà del poema, quella pseudomorfosi, o reintegrazione di temi e motivi classici e cri12

stiani in un'unica sintesi figurativa ed emotiva, di cui scrive Panofski a proposito di Poussin. Egli si trova piuttosto dalla parte di Winckelmann, quando questi attacca l'uso di immagini classiche da parte del Pollajolo.3 O del progetto baconiano nel De Sapientia Veterum di far rientrare la sapientia degli antichi nel mondo moderno come una nomenclatura: Metide o il consiglio, Il cielo o le origini, Orfeo o la filosofia, ecc. Non si tratta di allegorizzare l'antico, ma di nominare, costruire, ordinare il sapere moderno attraverso un procedimento di derubricazione del Nome mitico a nome comune. E così è anche per Milton. Come no. me comune il Nome mitico entra nel discorso, e vi è analizzato secondo le leggi di questo. Non contiene più in se stesso una microstoria del mondo. Non ne è la cifra, né la figura. Non ne nasconde il segreto, ché di segreto non c'è anzi nulla, piuttosto ne espone i lineamenti visibili, «diurni». Essendo divenuto comune, il nome dell'eroe non svolge più nel mito una funzione insostituibile. Può invece scambiarsi con altri nomi, come sarà nella fluida mitologia blakiana, che perciò risulta oscura, dato che non vi è possibile legare in maniera univoca il nome alla funzione. In questo dissolvere il proprio del nome mitico, Blake mislegge autorevolmente Milton.4 Il nuovo sublime che il VII libro del Paradise Lost inaugura comporta l'abbandono dell'antico inteso come riserva di figure; anche, paradossalmente, di quell'antico che è la Bibbia. Puttenham nella sua Art of English Poesie (1589) aveva definito la figura retorica della topographia come «contraffazione di luogo», a counterfeit place; come «paesaggio pittorico», lantskip. Una topographia in questo senso era stato l'Eden del IV libro; un'icona dell'immagine originaria, assoluta rispetto ad ogni altra. Ma già lì, nel giardino, la voce di Dio aveva staccato Eva dalla contemplazione della propria immagine riflessa nell'acqua, ingiungendole di seguirla - seguire una voce - dove non 13

un'immagine avrebbe incontrato a fermarla: where no shadow stays I Thy coming (470-1). E sarebbe stato, questo luogo senza ombre, il «dolce abbraccio» di Adamo. Poter stare davvero fuori dell'immagine sarebbe poter star fuori di quel riflesso che è il nome proprio: quanto ad Eva non è concesso, ora l'iconoclasta Milton richiede per sé. Per il suo canto ancora non cantato. Con la sua caduta dal «cielo dei cieli», con il declassamento di Urania da ispiratrice a custode, il canto questo premio ha guadagnato: è uscito dalla zona d'ombra dominata dal nome, ed è approdato in quella visibile, tutta diurna, del significato. Da che «inseguiva» una voce, ora si è fatto esso stesso voce, «voce mortale immutata». La caduta ha comportato una purificazione, che è anche discesa nella mortalità. Nel segno di questa contraddizione, la Bibbia è abbandonata. La «voce» deve proseguire da sola, nell'oscurità; la sorte l'ha ormai divisa dal suo tema. Cadendo, si è purificata dal Nome. Non insegue più l'antico - sua Musa - ma espone direttamente se stessa: significato e intenzionalità. Ben diverso il destino di Adamo ed Eva, che il distacco della «voce» rende personaggi, abbassando la loro storia da Significato Universale a tema tragico. Facendo dei loro Nomi nomi comuni, intercambiabili. Tanto che, come la protasi al IX libro, quello della Caduta, ben chiarirà, un lungo lavoro di selezione tematica ha portato a quei nomi: essi non si sono imposti per forza propria. Ed anche per questa via la Bibbia è abbandonata. Essa non è più il Libro, ma un libro. È Burke il primo, in un passo famoso dell'Inchiesta, a collegare il «sublime» di Milton alla sua «oscurità». Nel capitolo intitolato "Obscurity" (II, 3), egli cita l'incontro di Morte e Peccato nel II libro del Paradise Lost (666-73), e scrive: 14 In questa descrizione, tutto è oscuro, incerto, confuso, terribile e sublime al massimo grado.

Dopo di lui Coleridge riprende gli stessi versi del poema come quelli che, più di altri, sarebbero capaci di comunicarci a sublime feeling of the unimaginable. L'«oscuro», come fonte del sentimento del sublime, diventa per lui !'«inimmaginabile»: ciò che non contiene, e non sopporta, immagine. Ma che ancora dall'immagine dipende, se come ciò-che-non-può essere-immaginato è indicato. Tanto che il pensiero è chiarito in rapporto all'immagine in pittura. All'immagine dunque in senso tecnico, materiale. Molti sono i pittori, scrive Coleridge, che hanno voluto rappresentare sulla tela quell'incontro, ma il risultato non è stato mai soddisfacente: invece di eccitare la mente a un grado superiore di attività, quelle opere hanno l'effetto di ridurla alla «più totale passività», il che dimostrerebbe «il limite ristretto in cui si muove la pittura in paragone alla potenza sconfinata della poesia». Ma Coleridge, romantico, ha operato quella riduzione dell'energia linguistica a energia interiore che lega la parola alla memoria, e che pone perciò sempre, prima della parola e della memoria, un primum inafferrabile. In quanto nomina l'immagine interiore e la fa esistere, la lingua della poesia è tornata per lui nell'orizzonte del Nome, della perdita e della nostalgia di esso. Ma, per Coleridge come per gli altri romantici, «solo» metapoeticamente, o in seconda battuta: «ciò che il poeta vuole imprimere», suona il passo nella sua integrità, è «la sostituzione di un sentimento sublime dell'inimmaginabile al posto di una semplice immagine». In quanto attività sostitutiva, la poesia si lascia per sempre dietro un paradiso perduto, un Nome impronunciabile. Sospendendo il name come supporto al meaning, o aprendosi allo spazio che è tra essi, la «voce» miltonica trova la propria sicurezza nella mortalità; nell'esser mortale, eppure esente da mutamento: «Più sicuro io canto con voce mortale immutata». Non più la figura allegorica dell'uomo con la falce, la morte qui è un assoluto inimma15

ginabile, visto c�e le è tolto l'attributo, che più sembra esserle connaturato, di forza che tutto travolge e involge in una serie infinita di mutamenti. Il pensiero della metamorfosi che dopo tutto è il morire, è l'estremo baluardo che leviamo contro la morte. È ciò che ce la rende ancora immaginabile. E come riserva di immagini del morire le Metam01fosi di Ovidio avevano costituito il tesoro della cultura rinascimentale. Ma ora qui Milton conduce la mortalità della «voce» fuori della metamorfosi e il proprio canto fuori della zona delle Metamorfosi. Né ha a che vedere, quell'immutabilità, con il topos dell'immortalità poetica oltre la morte. Ché la «voce» discende e riposa sicura proprio sulla mortalità: nell'esser mortale trova riparo alla forza distruttiva del mutamento. Alla nequizia del change, il cui alito mefitico Satana inala deliziato un istante dopo la Caduta. With delight he snuffed the smell Il Ofmortai change on earth (X, 272-3). La «voce» è insieme mortale e immutevole: quest'ossimoro è pensabile solo all'interno di un progetto che va contro la natura, la quale condannando tutte le cose viventi a morire, le condanna al disfacimento, e dunque alla trasformazione, e dunque alla continuazione della vita. Frustrare il piano della Creazione, decreare -uncreate1'opera divina rifiutandosi alla generazione: così Eva vorrebbe sconfiggere la morte, conseguenza del peccato. Così gabbarla del suo bottino di generazioni future. Childless thou art, childless remain (X, 989) è il consiglio che dà ad Adamo: estremo gesto di ribellione all'oppressione della vita che continuerà dopo di loro. E quanto a lei non è dato ottenere, perché la decretata punizione deve compiersi, ora Milton; da quel puritano ed eretico che era, lo concede alla «voce» poetica. Egli che era convinto che l'anima morisse col corpoS, ora quest'eresia di un morire assoluto e definitivo la invera. Il sospiro di quell'all of me then shall die (X, 792), che ad Adamo è negato, si trasforma ora nella vittoria suprema della «voce». Che affondando nella 16

propria mortalità si oscura, così come le guance di Eva «si erano tinte di pallore» (X, 1009), tanto i suoi pensieri avevano avuto commercio con la morte. Solo che in quella darkness è per la «voce» anche sicurezza, rifugio. Sulla propria mortalità essa indugia; trova in quella possibilità infinita d'indugio - di canto - la promessa dell'immutabilità. Mentre Eva non può sostare nel suo pallore. Oscurata, la «voce» prende distanza dal teina. Si fa altro dalle immagini, dai Nomi: che sono solo natura, che la Caduta non libera. La «voce» ha avuto invece una propria «caduta», l'abbiamo detto, all'aprirsi della seconda metà del canto. Ed ora essa coincide senza bisogno d'intermediazioni col meaning, ossia con se stessa. Utopia di un mondo totalmente conoscibile, di una lingua tutta e solo «degli uomini»: iconoclasta, perché non più assoggettata all'imposizione del Nome divino, eppure non ancora schiava delle «cose»: perché estranea a quel progetto del renaming of things che di lì a pochi anni la Royal Society esporrà come proprio punto qualificante. Lingua davvero di un eretico: che trova in se stessa la propria ragion d'essere. Che fa della propria ragione la Ragione delle cose. Davvero «pochi» potranno essere gli ascoltatori capaci di accoglierla. Eppure, questa ripresa da parte di Milton del tema biblicò della Creazione e della Caduta possiamo già leggerla come l'apertura di un'indagine antropologica che tornerà infinite volte nel secolo successivo, e penso ovviamente a Rousseau, penso al Dr. Johnson, a tracciare, su diversi registri, il quadro delle origini della storia umana. Né credo si debba sentire contraddizione fra la scoperta che il dato d'immutabilità della lingua si radica proprio nel suo esser tutta mortale, «oscura» - qualcosa che rimane fermo attraverso il flusso delle trasformazioni, come un punto di giunzione che connette l'individuo alla specie - e la consapevolezza della storicità delle lingue che già la scienza linguistica rinascimentale aveva acqui17

sito. Tutto il lavoro filologico di Lorenzo Valla era culminato nel riconoscimento che pers- ino il latino, la lingua perfetta, la lingua della ragione, aveva vissuto un suo lungo ciclo di trasformazioni. Era stato esposto al cambiamento. A un millenario processo di morte e di rinascita. E certamente il Milton classicista e poliglotta ben conosceva questo sfondo. Senonché proprio lo sviluppo di quella coscienza storica che porta a vedere nella lingua un sistema espressivo di significati individuali, ha bisogno di assumere a proprio fondamento quel radicamento nella mortalità come costante immutabile, come dato costitutivo della lingua, nel quale la«voce» del Bardo Miltonico trova ora la ragione delle proprie«sicurezze». L'esser mortale della«voce», infatti, nulla ha a che vedere con l'atto del morire: questo è il tratto decreante che la distingue dalla natura, che è muta. Non immortale, pure la«voce» non può interrompersi, morire. Nulla dice questo in maniera più definitiva dell'invocazione apotropaica del nome di Orfeo, che, dopo quello di Bellerofonte, emerge come in una coda a sigillare questa protasi tra due nomi a specchio. A prima vista si tratta di pura ridondanza: con la richiesta di trovare ascoltatori «capaci», l'invocazione alla musa è tecnicamente compiuta. Non si può scendere di più nel dettaglio e chiedere ancora. Invece, c'è come una ripresa dall'inizio, e capiamo che tutto il tempo, mentre l'abbiamo ascoltata, la«vocemortale» ci ha coperto un altro suono che essa sola udiva, uria«barbara dissonanza» che ora chiede le venga allontanata: Rifiutata l'estasi empirea, verso l'alto, nell'abbandono del nome di Bellerofonte, è ora quella verso il basso, bacchica o orfica, a venire negata. C'è un sublime del perdersi per rarefazione e combustione, dal quale la «voce» si ritrae al suono della parola-campanello, forlorn, e c'è un sublime della caduta, dell'abbandono e dell'appesantimento giù, nella terra, nell'inorganico, dal quale pure la «voce» fugge. Tanto più fugge. La corrispondenza è perfet18

tamente mantenuta: se il Bardo fondava la propria sicurezza sulla propria stazione eretta quaggiù sulla terra, sul non esser rapt above the pale, è per aver avuto ears to rapture che creature senzienti ed insenzienti sono state penetrate dalla dissonanza fino ad essere sommerse da un'unica ondata di «selvaggio clamore». L'ambigua congiunzione temporale, till, opera la confusione di Orfeo con Dioniso: nella ferocia che scatena, il canto di Orfeo si rivela parente stretto del corteggio bacchico che lo segue. Questo è forse il passaggio più difficile per la «voce» poetica: scartare il nome di Orfeo. Rifiutare per se stessa l'immagine di Orfeo cantore. Pure è questa la distanza che apre quando si nega all'estasi, e fa di woods and rocks le potenze auditrici, destinatarie della rapture voluta dal dio. Vagamente circolante in tutto il passo, il nome ovidiano di Orfeo si condensa ora nella chiusa, pur senza dichiararsi apertamente. Sentiamo solo del «bardo tracio», e dell'innominato figlio dell'anch'essa innominata musa Calliope. A lei il poeta aveva già rubato, per regalarla ad Urania, l'apostrofe oraziana -Descende caelo (...) Calliope (Carm. III, 4) - a ulteriore riprova di come i nomi mitici sian fatti comuni e resi intercambiabili, privati del proprio che li distingue. Sicché, tra la musa celeste e cristiana e quella antica e frutto di finzione, ogni differenza è, per l'appunto, «vana». Non diversamente, nell'atto di avviarsi verso il peccato e la morte, Eva sarà detta tutt'insieme «simile a Pale, a Pomona, a Cerere» (IX, 393-4), ma senza più attenuazioni o precisazioni sulla «falsità» di quei nomi divini. Forse portato sull'onda di quel significato -safe, safety - il nome non dichiarato di Orfeo alla fine trapela, Eurydicenque suam iam tutus respicit Orpheus, aveva scritto Ovidio (XI, 66). Orfeo al sicuro, tutus, quando, ormai morto, è sceso definitivamente nel regno delle ombre. Laggiù può ben pascersi gli occhi della «sua» Euridice, ma intanto il canto .è cessato. Così l'ha fissato la morte, 19

nel mito: mentre il serpente che gli si avventava contro è rimasto pietrificato a fauci spalancate, egli, sottoterra, è immobilizzato da un guardare - respicere - che l'incatena. È miracolosamente scampato alla degradazione della metamorfosi, tuttavia, ora che è «sicuro», non può più cantare. Il Bardo Miltonico non ha bisogno di entrare nel regno dei morti per essere sicuro di sfuggire alla metamorfosi; la «voce» non sarà costretta a tacere, come quella di Orfeo. Essendo «mortale», ossia dei mortali, essa non può cessare. Perciò è più sicura. Nemmeno ha bisogno, quella «voce», di mettersi in competizione con la natura, di desiderare di dominarla, o di esserne dominata, come sarà per Keats, il cui canto è guidato dall'immagine di Orfeo. Keats rifiuta l'estasi bacchica, alla poesia non vuole accedere charioted by Bacchus and his pards, tuttavia, se l'usignuolo tace, nebuloso è il risveglio che si produce - Do I wake or sleep? -, se continua all'infinito il suo canto, l'estasi si appropria del corpo senziente e lo priva dell'udito, riducendolo alla condizione del grumo sordo di terra: a sod. Cosicché sempre il canto è fuori, e sempre al poeta minaccia l'insensibilità, o la dubbia sensibilità, della natura. Di Woods and rocks animati di un'esistenza demonica, illusoria. Più audacemente la «voce» miltonica sta in un'altra natura; essa è ferma su un limite, che però non può essere varcato e che dunque è negato nella sua essenza di limite. È mortale, ma senza fine, perché non può mutare, distogliersi da se stessa. Immobilità che nulla ha a che spartire con la paralisi che coglie le creature al suono della lira d'Orfeo, né col loro furore. Nell'immagine di Orfeo ancora è immerso l'arcangelo Raffaele, cui è dato sospendere . il corso del sole: held by thy voice (VII, 100),· come gli riconoscerà Adamo. Ma per se stessa, la «voce» non può più utilizzare quell'immagine. Così il nome di Orfeo rimane non pronunciato, come quello che conduce nell'estasi, fuori del «significato», nel 20

grido solamente vocalico delle creature. Paola Colaiacomo NOTE 1 Traduco da: John Milton, Paradise Lost, Norton Critica! Edition ed. by S. Elledge, W.W. Norton & Company, New York-London 1975. Descend from heav'n Urania, by that name If rightly thou art called, whose voice divine Following, above th'Olympian hill I soar, Above the flight of Pegasean wing. The meaning, not the name I call: for thou Nor of the muses nine, nor on the top Of old Olympus dwell'st, but heav'nly born, Before the hills appeared, or fountain flowed, Thou with eterna! Wisdom didst converse, Wisdom thy sister, and with her didst play In presence of th'Almighty Father, pleased With thy celestial song. Up led by thee Into the heav'n of heav'ns I bave presumed, An earthly guest and drawn empyreal air, Thy temp'ring; with like safety guided down Return me to my native element: Lest from this flying steed unreined (as once Bellerophon though from a lower dirne) Dismounted, on th' Aleian field I fall Erroneous there to wander and forlorn. Half yet remains unsung, but narrower bound Within the visible diurna! sphere; Standing on earth, not rapt above the pole, More safe I sing with morta! voice, unchanged To hoarse or mute, though fall'n on evil days, On evil days though fall'n, and evil tongues; In darkness and with dangers compassed round, And solitude; yet not alone, while thou Visit'st my slumbers nightly, or when morn Purples the east: still govern thou my song, Urania, and fit audience find, though few. But drive far off the barbarous dissonance. Of Bacchus and his revelers, the race Of that wild rout that tore the Thracian bard In Rhodope, where woods and rocks had ears 21

To rapture, till the savage clamor drowned Both harp and voice; nor could the Muse defend Her son. So fai! not thou, who thee implores: For thou art heav'nly, she an empty dream. 2 Cfr. C. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano, il Saggiatore, 1980 (I 963), pt. II, p. 88. 3 Cfr. E. Panofsky, «Il Padre Tempo», in: Studi di iconologia, Torino, Einaudi, 1975, pp. 89-90. Per il rapporto Milton-Poussin si veda il saggio di Mario Praz «Milton e Poussin» in: Gusto neoclassico, Milano, Rizzoli, 1974 (I 940). 4 Cfr. il saggio di S. D'Ottavi «Aspetti metapoetici della nominazione in Blake», in: AA.VV., William Blake mito e linguaggio, a c. di G. Franci, Edizioni Studio Tesi, 1983. 5 Cfr. De Doctrina Christiana, I, XIII. 22

L'Oscuro Interprete Noi non abbiamo alcuna ragione di diffidare del nostro mondo, ché non è esso contro di noi. E se ha terrori, sono nostri terrori; se ha abissi, appartengono a noi questi abissi... R.M. Rilke, a Kappus, 12,9,1904 . La nostra lunga lettura di Hopkins, comparsa in più occasioni sulla rivista1 , ha sottolineato una condizione particolare della straordinaria esperienza poetica di Hopkins, una condizione che nel testo si afferma come tono di voce, come «quel timbro». È su questo modo di dire «io», su questa «grana della voce» che vogliamo tornare, in parte ripigliando cose dette qua e là nei precedenti interventi, in parte cercando di ampliare il discorso. Si tratta di cogliere una strategia che sembra risuonare in forme varie e particolari in tutto il novecento, una strategia che ha in Hopkins, insieme a pochi altri- Baudelaire, Dickinson, Pessoa, per esempio - un grande rilievo, e un grande dispiegamento, in quel punto nodale che è il costituirsi del «moderno» poetico. Non siamo qui all'Hopkins «lucido pioniere» (Jakobson)2 del parallelismo, e coestimatore (insieme a Baudelaire) della bellezza e del valore proprio delle parole, ma. al grande poeta stratega, al poeta che nella sua ultima produzione ha impiegato una vera strategia delle forme d'enunciazione. È intorno a questi modi del testo di dire «io» che cercheremo di disegnare la nostra mappa. La posizione di partenza è espressa fin dall'inizio (1876) nella prima sezione del «The Wreck of the Deutschland» con parole che quasi, quasi, potrebbero 23

suonare così, fuori dalla poesia: tu, o Dio, mi hai creato con il tuo tocco (l'immagine evocata è quella michelangiolesca della cappella Sistina) e ora di nuovo il tuo indice mi sfiora. È questa spinta nuova (seconda al gesto creatore iniziale) che ora mi induce a mia volta alla creazione di un'opera nella quale risuona il terrore che io ho di te, e la forza del tuo urto, poiché il richiamo che io avverto è più forte di me, e io acconsento -I did say yes. Il mistero che è intorno a te, come un forza (stress) che carica (instress), mi conduce all'opera che non scaturisce dalla felicità (bliss) ma è condotta oltre ciò che può essere detto dalla lingua (past telling oftongue) grazie al tuo lampo e al tuo nome. Con suono d'incudine forgia nel mio cuore il tuo volere (thy will): dominalo all'improvviso d'un colpo (at a crash) come hai fatto con Paolo e Agostino. È questo volere che io condurrò sull'opera. Il dialogo traslato del Wreck dà la posizione di Hopkins che con la poesia risponde al richiamo, dicendo «io» e dicendo «sì», e si fa carico di dire, di dare parola alla gloria e alla bellezza di Dio. Dio lo istituisce come osservatore perché possa essere mostrata la maestà di cui ha caricato il mondo: istituisce questo beholder in un sovraluogo che gli fa visibile la scena del mondo e lui stesso, mentre a Lui, Dio, dà contenuto figurativo. Infatti l'«io» che osserva coglie nell'esteriorità del mondo gli inscape, le forme degli oggetti del mondo risuonanti in lui, in un tracciato che va dalle forme a priori dell'«io» al punto di massima interiorità della natura (uomo incluso) che è appunto Dio stesso. Così Dio offre a Hopkins lo specchio che il romanticismo non ha avuto: lo specchio capace di esprimere l'ine$primibile, di mantenere la forza dell'emozione nella descrizione, al cuore stesso della sensazione. Hopkins può dire con Wittgenstein3 che nella sua posizione, quando non ci si studia di esprimere l'inesprimibile, niente va perduto. E perché Hopkins dovrebbe studiarsi di esprimere l'inesprimibile? La sua parola si elettrizza 24

nell'istantaneo convogliarsi, sulla pagina, di una «presenza reale» di Dio: è il miracolo dell'Incarnazione, del Verbum. Grazie all'Incarnazione, è ancora nell '«io» che si manifesta questa presenza, nell'«io» installato nel suo sovra-luogo, in quella specie di «quarta» dimensione che dovrebbe essere il suo osservatorio, installato lì dove prende la parola, prende il suo «sì», e ne fa poesia. Nel passaggio da Dio all'«io» abbiamo il punto di culmine e insieme il punto critico che converte il luogo «glorioso» dei primi sonetti nel luogo «terribile» degli ultimi. È sufficiente che l'energia (stress) divina non attraversi simultaneamente il mondo, la parola e il poeta che ogni cosa si raggela, e il richiamo miracoloso tace. La poesia allora è investita dal sentimento di una tragedia, dal grido di un dialogo interiore che si espone con parole che potremmo trovare sulla bocca di Lear, Macbeth, o Hamlet. In una cornice di veglia e di solitudine la mente ingaggia la sua battaglia con l'angelo di Dio: nel mondo oscurato e smembrato si introduce una divaricazione insormontabile, una disgiunzione che spartisce ogni cosa. Pensieri contro pensieri, cuori che stridono contro se stessi: nella solitudine chi dice «io»? Il discorso continua ma ha vie impervie, non esplorate, sospese in alto sopra l'abisso, in luoghi dove la resistenza non regge a lungo la vertigine da funambolo. La mente allora si per-· de e l'«io» si espone a tutto il tormento della propria condizione. Così dove Dio si è ritirato, chi dice «io» è un mostro, un freak. Il poeta si guarda, si parla riflesso in un cucchiaio, chiuso in se stesso con il mostro e il suo fool. Ciò che vede è una figura da cui si ritira con orrore: la sua figura di uomo che ha urlato nella notte, segnato dalla violenza della Furia. Questo «io» viene, nei sonetti «terribili», come su un palcoscenico di morte a mostrare la lontanan25

za del Dio glorioso, e la caduta di chi in Lui aveva preso la parola, l'abisso in cui cadendo ha ricevuto la ferita della moderna lancia che, come il re p·escatore della Waste Land, lo rende sterile, incapace di procedere, di udire nuovamente lo stillante richiamo di un'ispirazione. Nel passaggio da Dio all'«io» si misura l'altezza della caduta, poiché fin dall'inizio l'impresa di Hopkins si era organizzata come un ponte gettato, sulla natura e sul linguaggio, dalla volontà poetica, dal «sì» dell'energia poetante, suscitata e guidata nel corpo glorioso di Cristo. Quell'«io» che si era ricollegato alle grandi radici del pensiero occidentale: Parmenide, Platone, i Santi Padri della Chiesa e poi in particolare Duns Scoto, quell'«io» ora a metà strada si trova, solo, a dover dire e allora nella vertigine ricorre alla voce dei grandi profeti biblici: Geremia e Giobbe. Egli vede sul proprio volto riflessa l'opera scomposta della morte, vede intorno, come Geremia, il mondo rifiorire e se stesso ridotto a infecondo eunuco del tempo. Siamo nella posizione «terribile», siamo alla voce, sola, sul campo di battaglia dove Dio e la morte si scontrano: qui, al fuoco (proprio alla messa a fuoco) di questa posizione, ecco la voce dialogante, il grido che fa appello. Prosegue il dialogo, si alza un controcanto, un tracciato parallelo che sdoppia e sostiene la voce solitaria. È un effetto a eco che funziona come quei raddoppiamenti sintattici di cui Jakobson dice che fanno pensare alla visione di un binocolo, dove la sovrapposizione delle immagini dà all'insieme consistenza e profondità. Il sovra-luogo da cui il beholder doveva vedere la maestà di Dio e se stesso, si è mutato in uno spazio dove Dio e la sua visione sono sospesi, ma dove il dialogo «terribile» 26

dell'«io» con se stesso trova consistenza. Il sistema duale affianca alla voce dell'«io» il suo controgrido come un segnale contrastante e parallelo che sortisce l'effetto di mantenere il dialogo distanziato, aperto su livelli separati. Così questa controvoce squilla come una tromba del giudizio, non ad annunciare l'avvento di Cristo, ma a colpire il sistema erettile del poeta, a sferzarne il sistema nervoso, riattivando il volere, il «sì». In questa stereofonia le parole vengono a innervarsi, a colpire il centro di energia disponibile che chiama all'opera. Gli squillanti richiami delimitano il campo dei lamenti dell'«io», danno sonorità e tono alla sua voce, aprono lo spazio in rilievo dentro cui risuona un timbro nuovo. Dunque qualcosa dall'altra parte di questa voce grida e fa appello, pone un termine, un confine alla solitudine del · lamento, ribaltandolo nello spazio dialogante del testo. L'abisso che separa Dio dall'«io» è l'orrido, il sublime su cui non solo Hopkins entra nel libro inaugurale della poesia moderna. Ce lo conferma il saggio di Auerbach «Les-fleurs duMal di Baudelaire e il sublime», dove l'orrore dell'«io», della sua miseria quotidiana, origina un nuovo sublime. «Quest'orrore rompe con la tradizionale dignità del sublime» mentre quella miseria compie direttamente «il salto nel sublime». Auerbach osserva anche: Baudelaire, a cui non riusciva facile venire a capo del proprio io interiore e mettersi al lavoro, era incline a esasperare la propria situazione e a mettere in mostra ciò che gli appariva, e non a torto, originale e irripetibile.4 Questo concentrarsi sui motivi determinati e peculiari dell'«io» ci ricorda la oddity di Hopkins, lo sguardo idiosincratico che esprime «l'orrore più tremendo e la più 27

profonda disperazione». L'io interiore di cui parla Auerbach, la triste miseria che salta direttamente nel sublime, assume in Hopkins un carattere particolare. Intanto sottolineiamo tutta l'importanza che Hopkins stesso dà a quanto c'è di originale e di irripetibile nel suo «io». In The Principle or Foundation, commenti sugli Esercizi Spirituali di S. Ignazio di Loyola, del 1880, si legge: Quando io contemplo il mio proprio essere, la coscienza e il sentimento di me, quel sapore di me, di un io e di un me al di sopra e dentro le cose, qualcosa che è più distintivo del sapore della birra o dell'allume, più distintivo del sapore della foglia di noce o dell'essenza di canfora ... nulla può spiegarlo, nulla gli assomiglia, eccetto il fatto che gli altri uomini provano il medesimo sentimento... indagando la natura io assaporo l'essere, ma in un'unica coppa, quella del mio stesso esserci.s Oppure ancora: Una parte di questo mondo di oggetti, di questo mondo-oggetto, è anche parte del proprio essere, come ad esempio del corpo, nel caso dell'uomo, con cui egli non solo sente ed agisce, ma anche si sente e con sé interagisce. Oppure: Io guardo attraverso l'occhio, la finestra e l'aria; l'occhio è il mio occhio, di me, e una parte di me... Un io consisterà dunque di un centro e di un'area circostante, di un punto di riferimento e di un campo di appartenenza.6 Si tratta di osservazioni di straordinaria lucidità e modernità, dove alla funzione soggettiva è data una centrali28

tà strutturante la percezione del corpo e del mondo, una centralità in quanto forma a priori dell'«io» che certo organizza il materiale figurativo, ma soprattutto distingue e organizza le immagini discrete degli oggetti, cui corrisponde, a eco, la rappresentazione mentale e quella verbale, come avevamo visto già nei diari giovanili. A quanto dicevamo prima si collega la forte consapevolezza di uno sdoppiamento sempre presente fra un'istanza che osserva e un'istanza che è osservata, quest'ultima distinta ma avvicinata al mondo nella sua esteriorità, oltre che al corpo. Siamo, per altra via, nella medesima condizione rappresentata nei sonetti «terribili», qua come là un'istanza fronteggia l'altra e limitandola, mostrandone la differenza, la istituisce. La prossimità del mondo esterno e del corpo, rivela la radicalità dell'osservazione, del beholder hopkinsiano, mentre la distinzione dell'«io» e del «me», della coscienza e del suo sentimento, riportandoci al salto, all'abisso del dialogo monologante in atto negli ultimi sonetti, ci ricorda, non solo lo sdoppiamento di una voce nella sua controvoce (effetto a cannocchiale), ma ci fa pensare anche - e questo non l'abbiamo ancora detto - alla massima divaricazione fra le due voci. L'una rimanda alle alte - se pur tragiche - note delle lamentazioni bibliche, a quei luoghi di massima codificazione; e l'altra riporta al tono basso, quotidiano, e disperato (già indicato da Auerbach in Baudelaire) dell'«io» che deve assumere nel presente il proprio posto d'enunciazione. Il modo con cui si arriva al timbro, alla «grana» della voce in Hopkins ci interessa tanto più perché, dicevamo, ci mostra un percorso esemplare per tutto il novecento. Innanzi tutto c'è un tratto che in Baudelaire troviamo solo trasversalmente, in maniera indiretta o invertita, e che invece in Hopkins struttura direttamente la voce. L'io interiore, la triste miseria che salta nel sublime 29

(Auerbach), in Hopkins assume rilievo particolare perché egli fu padre gesuita, cattolico credente nell'Incarnazione, e nella caduta dal Paradiso Terrestre. Al punto che noi possiamo dire che alle porte del moderno Hopkins è così grande poeta anche perché cristiano cattolico, cioè perché la sua opera affonda le radici nel mito cristiano, nel cuore del suo dogma, e nel motore della sua tradizione consegnata dalla Bibbia. Ora, prima di fare un'escursione attraverso questa importante ascendenza, cioè prima di fermarci a misurare tutta l'altezza delle codificazioni bibliche presenti nei Salmi, e nelle sue voci recitanti in prima persona, dobbiamo ancora prendere in considerazione un'ascendenza meno remota: il libro fondamentale delle meditazioni del gesuita, Gli Esercizi Spirituali, di Loyola. E sulla sponda opposta dell'esperienza religiosa, la grande lezione contemporanea della mistica. «lo» povero e «io» del volo L'idea del fondatore dell'ordine gesuita di organizzare con un lavorometodico la meditazione e la vita non è certo mistica, ma anzi le si oppone per la concretezza delle rappresentazioni ordinate in una casistica. Ogni raffigurazione si presenta individuata in questo corpo, e Hopkins si rifà direttamente a Duns Scoto e alla sua teoria della haecceitas. Ciò che ne risulta, per ciò che interessa noi, è un'organizzazione del mondo, della sfera del sensibile e del rappresentabile, in un sistema discontinuo fatto di separazioni incessanti (il discernimento) perfettamente utilizzabili in una tecnica o in una lingua. A fronte di questo mondo sensibile il soggetto è povero, mantenuto e strutturato dentro l'organizzazione data. Non è quindi direttamente da questa fonte che Hopkins può avere tirato quel suo par30

ticolare assaporare il tratto distintivo dell'«io». Anzi semmai su questo fronte possiamo riconoscere, all'opposto, certe accentuazioni del primo Hopkins tendenti alla pura celebrazione della gloria di Dio come spetta­ . colo, come rappresentazione che non comporterebbe il manifestarsi di una soggettività marcata. E ancora su questo fronte ritroviamo l'intermittenza e l'inconsistenza di quell'«io» dei sonetti «terribili» che non riesce a stabilizzarsi su di sé quanto basta per ricevere la scossa di una ispirazione, per udire quei richiami cui pur tenderebbe l'«io», se potesse uscire dall'inerzia in cui è chiuso. Questa componente della voce, questo modo svagato e intermittente di dirsi del soggetto, è così fissato da Barthes nelle pagine dedicate a Loyola: È che, come nella fantasticheria allo hashish di cui Baudelaire descrive l'effetto di volta in volta riducente o dilatante, l'io ignaziano, quando immagina secondo le vie del fantasma, non è una persona; aneddoticamente, Ignazio può sì, di tanto in tanto, assegnargli un posto sulla scena; ma fantasmaticamente la sua situazione è fluida, dispersa; l'esercitante (supponendo che sia il soggetto della meditazione) non scompare ma si sposta nella cosa, come il fumatore di hashish assorbito per intero nel fumo della sua pipa e che «si fuma»: non resta che il verbo a sostenere e giustificare la scena.7 È ancora Baudelaire, con il suo spleen e i suoi fl.émeur che ritorna qui su un versante del soggetto nevrotico, discontinuo e colpito da choc - e questo vale tanto per il poeta che per il suo hypocrite lecteur. Per Hopkins sappiamo già quanto valga il discontinuo per esempio nella definizione della bellezza complessa. 31

Tuttavia per Hopkins questo soggetto che potremmo dire povero (mi risparmio di chiamarlo «debole») è solo una delle posizioni, una delle voci in campo nel dialogare dei sonetti «terribili». Per Hopkins l'approccio povero, da choc, non basta, nel senso che non esaurisce la varietà delle funzioni in campo, non entra nelle pieghe, nelle sfumature della voce che dice «io». Il fatto è che, trattandosi di una voce doppia, duplicata, al polo divagante e leggero del fumatore di hashish si oppone un polo resistente che, se vogliamo restare nel clima dei Paradisi Artificiali, si radicalizza nel mangiatore d'oppio. Baudelaire ci presenta questa figura forte e tirannica prendendola da De Quincey. Di lei, con un po' di disagio, e di orrore affascinato, veniamo a sapere che è la figura sdoppiata di un Oscuro Interprete. Qui Hopkins come De Quincey potrebbe esclamarsi: Notre Père, qui etes aux cieux!... moi, votre serviteur, et ce noir fantòme dont j'ai fait, ce jour de Pentecòte, mon serviteur pour une heure, nous vous apportons nos hommages réunis... 8 Baudelaire segue De Quincey citandolo: ora siamo invitati alla prova decisiva, se vogliamo verificare la natura di questo essere singolare veliamoci il capo a memoria di un dolore inguaribile, di un'afflizione infantile da cui non ci siamo mai liberati, ed ecco che anche il nero fantasma avrà velato il suo capo. Sapremo così d'essere in faccia a qualcosa di noi, che talvolta noi stessi non conosciamo, e che ci ha sorpreso. 32 Cette épreuve est décisive. Vous savez maintenant que l'apparition n'est que votre propre reflet, et qu'en adressant au fantòme l'expression de vos secrets sentiments, vous en faites le miroir symbolique où se réfléchit à la clarté du jour ce qui autrement serait caché à jamais.9

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