Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

nell'istantaneo convogliarsi, sulla pagina, di una «presenza reale» di Dio: è il miracolo dell'Incarnazione, del Verbum. Grazie all'Incarnazione, è ancora nell '«io» che si manifesta questa presenza, nell'«io» installato nel suo sovra-luogo, in quella specie di «quarta» dimensione che dovrebbe essere il suo osservatorio, installato lì dove prende la parola, prende il suo «sì», e ne fa poesia. Nel passaggio da Dio all'«io» abbiamo il punto di culmine e insieme il punto critico che converte il luogo «glorioso» dei primi sonetti nel luogo «terribile» degli ultimi. È sufficiente che l'energia (stress) divina non attraversi simultaneamente il mondo, la parola e il poeta che ogni cosa si raggela, e il richiamo miracoloso tace. La poesia allora è investita dal sentimento di una tragedia, dal grido di un dialogo interiore che si espone con parole che potremmo trovare sulla bocca di Lear, Macbeth, o Hamlet. In una cornice di veglia e di solitudine la mente ingaggia la sua battaglia con l'angelo di Dio: nel mondo oscurato e smembrato si introduce una divaricazione insormontabile, una disgiunzione che spartisce ogni cosa. Pensieri contro pensieri, cuori che stridono contro se stessi: nella solitudine chi dice «io»? Il discorso continua ma ha vie impervie, non esplorate, sospese in alto sopra l'abisso, in luoghi dove la resistenza non regge a lungo la vertigine da funambolo. La mente allora si per-· de e l'«io» si espone a tutto il tormento della propria condizione. Così dove Dio si è ritirato, chi dice «io» è un mostro, un freak. Il poeta si guarda, si parla riflesso in un cucchiaio, chiuso in se stesso con il mostro e il suo fool. Ciò che vede è una figura da cui si ritira con orrore: la sua figura di uomo che ha urlato nella notte, segnato dalla violenza della Furia. Questo «io» viene, nei sonetti «terribili», come su un palcoscenico di morte a mostrare la lontanan25

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