Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

za del Dio glorioso, e la caduta di chi in Lui aveva preso la parola, l'abisso in cui cadendo ha ricevuto la ferita della moderna lancia che, come il re p·escatore della Waste Land, lo rende sterile, incapace di procedere, di udire nuovamente lo stillante richiamo di un'ispirazione. Nel passaggio da Dio all'«io» si misura l'altezza della caduta, poiché fin dall'inizio l'impresa di Hopkins si era organizzata come un ponte gettato, sulla natura e sul linguaggio, dalla volontà poetica, dal «sì» dell'energia poetante, suscitata e guidata nel corpo glorioso di Cristo. Quell'«io» che si era ricollegato alle grandi radici del pensiero occidentale: Parmenide, Platone, i Santi Padri della Chiesa e poi in particolare Duns Scoto, quell'«io» ora a metà strada si trova, solo, a dover dire e allora nella vertigine ricorre alla voce dei grandi profeti biblici: Geremia e Giobbe. Egli vede sul proprio volto riflessa l'opera scomposta della morte, vede intorno, come Geremia, il mondo rifiorire e se stesso ridotto a infecondo eunuco del tempo. Siamo nella posizione «terribile», siamo alla voce, sola, sul campo di battaglia dove Dio e la morte si scontrano: qui, al fuoco (proprio alla messa a fuoco) di questa posizione, ecco la voce dialogante, il grido che fa appello. Prosegue il dialogo, si alza un controcanto, un tracciato parallelo che sdoppia e sostiene la voce solitaria. È un effetto a eco che funziona come quei raddoppiamenti sintattici di cui Jakobson dice che fanno pensare alla visione di un binocolo, dove la sovrapposizione delle immagini dà all'insieme consistenza e profondità. Il sovra-luogo da cui il beholder doveva vedere la maestà di Dio e se stesso, si è mutato in uno spazio dove Dio e la sua visione sono sospesi, ma dove il dialogo «terribile» 26

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