Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

la propria stessa apparizione, direi. Del resto, il sublime non è una struttura, ma un effetto. Possiamo poi chiamarlo come ci piace, come del resto è avvenuto nel tempo e continua ad avvenire: il terribile, il patetico, il perturbante, l'estraneo-familiare, l'unico. Rilevare le tracce di tale effetto promuove, nella lettura, una articolazione più precisa e illuminante degli elementi che accompagnano e sostengono l'effetto medesimo. Ciò si fa evidente in un testo di narrativa come Araby («Arabia»), racconto dei Dubliners di Joyce. Penso che l'attimo topico, l'attimo di comparsa, vi si leghi addirittura a una breve sequenza fonemica, il nome Araby, il bazaar Araby, fantasma di desiderio del ragazzo che racconta-valido non tanto in sé ma in quanto richiami metonimicamente la ragazza, «la sorella di Mangan», la prima ad accennarvi; il finale di frustrazione e angoscia non avrebbe significato senza questo presupposto di carica libidica. Voglio sottolineare che, come avviene in un altro testo dei Dubliners, The dead («I morti») per il significantechiave della «neve», addirittura modulato in variazioni («falling softly... softly falling...»), l'effetto di sublime va a situarsi in un segno di cinque lettere, piuttosto che in altri luoghi che sarebbero meglio deputati, secondo retorica o logica, a manifestarlo: ad esempio, la piccola epifania - proprio nel significato specifico che l'etichetta ha nella poetica di Joyce - della «bianca curva del collo», dell'«orlo bianco della sottana» che definiscono la ragazza sotto la luce del lampione; o lo struggimento addirittura fisico che coglie il narratore: «o amore... amore...»; ancora meglio, l'insorgere di «strane preghiere e lodi» incomprensibili a chi le formula, nel crepuscolo del sabato sera, per le vie della città. In effetti, la struttura del racconto questi momenti li riconduce tutti, in maniera più o meno esplicita, a quel 101

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