Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

mosfera benefica di abbandono, o magari anche la punta di un'inquietudine indefinibile. Essa significa, certamente, tutto questo - e altro - ma lo significa concentrandolo in qualche cosa di distinto, in un soggetto vorrei dire, che emerge proprio in quanto sia legato inseparabilmente con le parole che lo articolano. Così, il sintagma della formula vale come concetto globale, come significante unico - come un «essere-della-seraper-la-quiete». Un soggetto è stato posto in essere, che entra nella corrente pulsionale. Ma quale rapporto intercorre fra la frase «la pace della sera», che instaura il soggetto, e l'altro soggetto che la pronuncia, o la riceve? Questo rapporto partecipa della natura contraddittoria almeno in apparenza, . propria ad alcunché di inatteso che però adempie un'aspettativa. Mi appoggio, come sarà chiaro al lettore, a una pagina estratta dal seminario di Jacques Lacan sulle psicosi, dove appunto la paix du soir è introdotta a proposito del caso Schreber. lo vorrei servirmene per un altro fine, per mostrare appunto qualche cosa circa il sublime, ma senza rompere del tutto il legame con quelle pagine. La «pace della sera» è pronunciata - e risuona. Lasciamo da parte per il momento chi sia a pronunciarla. Forse la voce che l'assume non è tanto lontana dal distico di Valéry («qui se connait quand elle sonne / n'ètre plus la voix de personne...») Essa ha una natura endofasica, voglio dire che risuona come una voce di dentro, proprio mentre ci sorprende come qualcosa d'inatteso, venuto da fuori. È qui che prende tutto il suo valore, ci piomba addosso in una formulazione irrecusabile, che ci lascia incerti se appartenga al dentro o al fuori, a noi o all'altro. Il fatto è che un soggetto si para davanti, ancorato a quella sequenza verbale: «la pace della sera». «Che cosa significa» si chiede Lacan «questo essere di linguaggio 96

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