Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

con le prime ombre. E se il «donne-moi la main» segnala l'attesa, è con l'ultimo verso del sonetto, con la clausola dell'ultimo verso che qualche cosa compare nel reale, venendo cifrato da una forma: «entend la douce nuit qui marche» è proprio il significante inatteso, e saturatore, di cui si supporta, secondo una certa ipotesi, il sublime. E contrario, quasi, lo dimostra Hannonie du soir, dove quell'emergere è ritardato dall'affollarsi delle determinazioni, ossia delle immagini: fiore, incensiere, violino, sole, cuore, nulla, repositorio - tanfo ritardato che, probabilmente, non avverrà mai. Non insisto in questa direzione, anche perché sarà abbastanza chiaro che vado cercando qualcosa del sublime non a livello filosofico, neppure di stretta testualità letteraria, ma supponendo un certo nodo fra immaginario, soggetto, parola. Per questo continuo a ostinarmi sulla natura di essere di linguaggio, di soggetto da attribuire alla formula «la pace della sera», in qualche modo bonne à tout faire, e che comunque, si capisce benissimo anche questo, adopero come strumento, grimaldello per aprire, e svolgere, un certo discorso. La «pace della sera», !'«arcobaleno»... Andiamo avanti in questo ordine di fenomeni naturali, anche perché, verso la fine del seminario già citato, Lacan aggancia l'arcobaleno per proclamarlo un'apparenza che si disperderebbe come il pulviscolo luminoso che lo costituisce, senza il supporto di una formulazione verbale: appunto arc-enciel, arcobaleno o, al limite, una espressione olofrastica: c'est cela, è questo. Secondo la retorica quotidiana, cui tutti conveniamo tranquillamente, l'arcobaleno tiene del sublime, ci condensa davanti agli occhi l'enigma fragile e impenetrabile della natura, la seduzione del suo velo di Maia, e si può continuare su questa via, a buon mercato. Ma, osserva Lacan, un animale non presterebbe nessu99

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