Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

momento in cui espongono tutta l'angoscia per l'assenza di Dio, perso in una lontananza incolmabile. Abbiamo in questi termini disegnata una situazione che, con Auerbach, chiameremo il moderno spazio del sublime. Nel luogo di caduta attuale dell'«io» hopkinsiano, precipitato dall'alto della metafora regale, e dell'invocazione eristica, c'è una nicchia, una prigione dentro cui si patisce l'essere senza scampo, la pena dell'essere se stesso, poiché - ogni possibile e comunque irreperibile uscita è murata. James Joyce descrive questo orrore: «ogni lordura del mondo, ogni letame, si raccoglie lì... lì ogni dannato è l'inferno di se stesso.» Tutti i sensi sono tormentati e soprattutto la mente.32 Hopkins dice qualcosa di molto simile: «intendo che i dannati sono così/ come sono io... ma con maggior dolore» (45). Di fronte al riconoscimento di questa atroce verità, soltanto la poesia può salvare: «il rapimento unico di un'ispirazione», che il poeta intende, come Dio, sempre assente, ma che comunque nel mondo invernale del poeta traccia ancora, con «la sua onda, lo slancio e la carola», le poesie che leggiamo e di cui parliamo. Certo la grande bellezza manieristica e fiammeggiante dei grandi sonetti del primo periodo è scomparsa, ma al suo posto una pacata e struggente ricerca del sublime interviene per addomesticare con l'arte il terribile, come dice Nietzsche. Così per questa via gli ultimi sonetti pur abitando in segreto la grande malattia dei manieristi escono allo scoperto nella rara purezza della loro riuscita con un nuovo ritmo, una nuova lingua, un nuovo «io». La malattia dei manieristi: essi credono di essere impigliati nel labirinto animale, mentre spesso vi si sono da lungo tempo sottratti... Attraverso di lei scorgiamo un vuoto pauroso, ma in questo vuoto forse qualcosa ci guarda, scialbo, saturni55

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