Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

ca di un movimento tardivo, di una ripetizione autopunitiva: l'interminabile circolarità mistica del voler dire l'indicibile si spegne in un tracciato interrotto, spaccato in una profonda caduta al termine della quale soltanto, l'«io» attuale del testo trova la sua voce. Hopkins raccoglie l'ultimo movimento di una ripetizione illustre che dall'«io» dei Salmi ha il suo culmine nell'ultimo Adamo che grida dalla croce: "Mio Dio perché mi hai abbandonato?" Questo è il grido che come un'ossessione accende lo spleen dei sonetti «terribili», ma si tratta di una ripetizione di cui chi dice «io» è il più infimo prestaluogo, il punto più basso della catena. L'immaginario della caduta, con l'ascendenza edenica, e tutta la sua simbologia è presente come orrore d'altezza, come senso dell'abisso rovesciato, come altezza torreggiante. È il senso opprimente di rupi precipitose, di altezze incombenti: la mente ha montagne, paurose, impervie, mai esplorate (41), la notte è un monte che pesa sul poeta insonne (45). In questo fondo d'orrore è precipitato il discorso, è chiuso come in una prigione il testo che deve nascere, è soffocata la voce che deve dire «io». Ma è questo salto, questo vuoto che mantiene tutta l'escursione aperta davanti al lettore. L'«io» è ancora quello dei re, quello di Gesù, ed è anche quello del testo, che con lamento e pianto senza numero invia lettere morte a colui che vive lontano (45). Dietro l'«io» della desolazione, dove gli spasimi del dolore tormentano più temibili (41), dietro l'«io» che giacque miseramente lottando (40), si profila intera la catena genealogica, scorciata; si impone l'illustre ascendenza biblica, si mantiene la tensione mitica. È in questa escursione mantenuta, che va ricercata la grande novità del dire solitario degli ultimi sonetti, è da questa posizione straordinaria, dentro la fede cattolica, che i sonetti misurano tutta l'altezza della tradizione, nel 54

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