Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

slittamento va velocemente verso una grande dilatazione dei termini dell'«io», nel sonetto 51, per esempio, c'è il pensiero -thought-la mente - mind-l'anima-soul. La stessa ripartizione si ripete nel sonetto 47 dove però interviene anche il self. Quattro i livelli di rottura intrasistemica, quattro livelli di tensione nell'apparato dell'enunciazione, ma il punto critico non è dentro il sistema della lingua, ma nella rete d'ipercodificazione che in parte abbiamo messo in risalto a partire dalla Bibbia, e dagli effetti di rivitalizzazione mitologica. Per questo l'«io» dei sonetti «terribili» è come medusato di fronte alla tradizione di lunghissima data che lo piglia per acquisito. È come se la sua posizione, rispetto a se stesso, cioè rispetto alla sua presa di parola dentro il testo, fosse una posizione coatta, fortemente ripetitiva e tendenzialmente autopunitiva. Il fatto è che è lontano il tempo del primo Hopkins, il tempo dei sonetti gloriosi che in Dio avevano trovato lo specchio in cui riflettere congiunte natura, parole e energia del poeta poetante, avevano trovato un motore per colmare la distanza del significato su cui s'era scontrata la riflessione romantica; è lontano perché Dio si è discosto, lasciando ciò che aveva congiunto, separato. Per questo tutti i sonetti «terribili» sono attraversati da una mancanza da colmare con furia, da una solitudine che diventa mania. La natura è stretta nel disagio della civiltà, la parola risuona così raramente con il suo richiamo e il poeta non ha energia poetante, non è che un eunuco, cui è stato tolto lo specchio potente di Dio per un volgare cucchiaio in cui tutto si riflette deformato. La situazione d'enunciazione degli ultimi sonetti non è tanto quella euforica o assertiva del mistico volo che si autorizza di fronte alla visione di Dio, ma è quella disfori53

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