Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

tà strutturante la percezione del corpo e del mondo, una centralità in quanto forma a priori dell'«io» che certo organizza il materiale figurativo, ma soprattutto distingue e organizza le immagini discrete degli oggetti, cui corrisponde, a eco, la rappresentazione mentale e quella verbale, come avevamo visto già nei diari giovanili. A quanto dicevamo prima si collega la forte consapevolezza di uno sdoppiamento sempre presente fra un'istanza che osserva e un'istanza che è osservata, quest'ultima distinta ma avvicinata al mondo nella sua esteriorità, oltre che al corpo. Siamo, per altra via, nella medesima condizione rappresentata nei sonetti «terribili», qua come là un'istanza fronteggia l'altra e limitandola, mostrandone la differenza, la istituisce. La prossimità del mondo esterno e del corpo, rivela la radicalità dell'osservazione, del beholder hopkinsiano, mentre la distinzione dell'«io» e del «me», della coscienza e del suo sentimento, riportandoci al salto, all'abisso del dialogo monologante in atto negli ultimi sonetti, ci ricorda, non solo lo sdoppiamento di una voce nella sua controvoce (effetto a cannocchiale), ma ci fa pensare anche - e questo non l'abbiamo ancora detto - alla massima divaricazione fra le due voci. L'una rimanda alle alte - se pur tragiche - note delle lamentazioni bibliche, a quei luoghi di massima codificazione; e l'altra riporta al tono basso, quotidiano, e disperato (già indicato da Auerbach in Baudelaire) dell'«io» che deve assumere nel presente il proprio posto d'enunciazione. Il modo con cui si arriva al timbro, alla «grana» della voce in Hopkins ci interessa tanto più perché, dicevamo, ci mostra un percorso esemplare per tutto il novecento. Innanzi tutto c'è un tratto che in Baudelaire troviamo solo trasversalmente, in maniera indiretta o invertita, e che invece in Hopkins struttura direttamente la voce. L'io interiore, la triste miseria che salta nel sublime 29

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