Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

L'Oscuro Interprete Noi non abbiamo alcuna ragione di diffidare del nostro mondo, ché non è esso contro di noi. E se ha terrori, sono nostri terrori; se ha abissi, appartengono a noi questi abissi... R.M. Rilke, a Kappus, 12,9,1904 . La nostra lunga lettura di Hopkins, comparsa in più occasioni sulla rivista1 , ha sottolineato una condizione particolare della straordinaria esperienza poetica di Hopkins, una condizione che nel testo si afferma come tono di voce, come «quel timbro». È su questo modo di dire «io», su questa «grana della voce» che vogliamo tornare, in parte ripigliando cose dette qua e là nei precedenti interventi, in parte cercando di ampliare il discorso. Si tratta di cogliere una strategia che sembra risuonare in forme varie e particolari in tutto il novecento, una strategia che ha in Hopkins, insieme a pochi altri- Baudelaire, Dickinson, Pessoa, per esempio - un grande rilievo, e un grande dispiegamento, in quel punto nodale che è il costituirsi del «moderno» poetico. Non siamo qui all'Hopkins «lucido pioniere» (Jakobson)2 del parallelismo, e coestimatore (insieme a Baudelaire) della bellezza e del valore proprio delle parole, ma. al grande poeta stratega, al poeta che nella sua ultima produzione ha impiegato una vera strategia delle forme d'enunciazione. È intorno a questi modi del testo di dire «io» che cercheremo di disegnare la nostra mappa. La posizione di partenza è espressa fin dall'inizio (1876) nella prima sezione del «The Wreck of the Deutschland» con parole che quasi, quasi, potrebbero 23

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