Il piccolo Hans - anno XV - n. 58 - estate 1988

ticolare assaporare il tratto distintivo dell'«io». Anzi semmai su questo fronte possiamo riconoscere, all'opposto, certe accentuazioni del primo Hopkins tendenti alla pura celebrazione della gloria di Dio come spetta­ . colo, come rappresentazione che non comporterebbe il manifestarsi di una soggettività marcata. E ancora su questo fronte ritroviamo l'intermittenza e l'inconsistenza di quell'«io» dei sonetti «terribili» che non riesce a stabilizzarsi su di sé quanto basta per ricevere la scossa di una ispirazione, per udire quei richiami cui pur tenderebbe l'«io», se potesse uscire dall'inerzia in cui è chiuso. Questa componente della voce, questo modo svagato e intermittente di dirsi del soggetto, è così fissato da Barthes nelle pagine dedicate a Loyola: È che, come nella fantasticheria allo hashish di cui Baudelaire descrive l'effetto di volta in volta riducente o dilatante, l'io ignaziano, quando immagina secondo le vie del fantasma, non è una persona; aneddoticamente, Ignazio può sì, di tanto in tanto, assegnargli un posto sulla scena; ma fantasmaticamente la sua situazione è fluida, dispersa; l'esercitante (supponendo che sia il soggetto della meditazione) non scompare ma si sposta nella cosa, come il fumatore di hashish assorbito per intero nel fumo della sua pipa e che «si fuma»: non resta che il verbo a sostenere e giustificare la scena.7 È ancora Baudelaire, con il suo spleen e i suoi fl.émeur che ritorna qui su un versante del soggetto nevrotico, discontinuo e colpito da choc - e questo vale tanto per il poeta che per il suo hypocrite lecteur. Per Hopkins sappiamo già quanto valga il discontinuo per esempio nella definizione della bellezza complessa. 31

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