ticolare assaporare il tratto distintivo dell'«io». Anzi semmai su questo fronte possiamo riconoscere, all'opposto, certe accentuazioni del primo Hopkins tendenti alla pura celebrazione della gloria di Dio come spetta . colo, come rappresentazione che non comporterebbe il manifestarsi di una soggettività marcata. E ancora su questo fronte ritroviamo l'intermittenza e l'inconsistenza di quell'«io» dei sonetti «terribili» che non riesce a stabilizzarsi su di sé quanto basta per ricevere la scossa di una ispirazione, per udire quei richiami cui pur tenderebbe l'«io», se potesse uscire dall'inerzia in cui è chiuso. Questa componente della voce, questo modo svagato e intermittente di dirsi del soggetto, è così fissato da Barthes nelle pagine dedicate a Loyola: È che, come nella fantasticheria allo hashish di cui Baudelaire descrive l'effetto di volta in volta riducente o dilatante, l'io ignaziano, quando immagina secondo le vie del fantasma, non è una persona; aneddoticamente, Ignazio può sì, di tanto in tanto, assegnargli un posto sulla scena; ma fantasmaticamente la sua situazione è fluida, dispersa; l'esercitante (supponendo che sia il soggetto della meditazione) non scompare ma si sposta nella cosa, come il fumatore di hashish assorbito per intero nel fumo della sua pipa e che «si fuma»: non resta che il verbo a sostenere e giustificare la scena.7 È ancora Baudelaire, con il suo spleen e i suoi fl.émeur che ritorna qui su un versante del soggetto nevrotico, discontinuo e colpito da choc - e questo vale tanto per il poeta che per il suo hypocrite lecteur. Per Hopkins sappiamo già quanto valga il discontinuo per esempio nella definizione della bellezza complessa. 31
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