Il piccolo Hans - anno XIX - n. 75/76 - aut./inv. 1992-1993

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 75/76 autunno/inverno 1992-1993 Sergio Pinzi 5 Giordano Bruno e l'iter del soggetto da soggetto incestuoso di linguaggio a soggetto delle forme Alfonso Ingegno 11 Il perfetto e il furioso Valerio Marchetti 33 Retorica e secolarizzazione. Una spiegazione umanistica dell' "in principio" di Giovanni Giorgio Bàrberi Squarotti 59 Lo spaccio fallito Fulvio Papi 86 Bruno, o dell'infinita e vana nostalgia Alan Bass 105 Leonardo e Freud: la storia di una teoria errata Andrea Brunetti 151 La doppia Odissea Il vento e il remo Sergio Pinzi 165 Su carta e in bianco e nero: la nascita dell'uomo dal disegno (paravento a due ante e una cerniera) Antonio Porta 217 Poemetto con la madre Odilon Redon 222 Frammenti di una lettera Ernesto Treccani 227 Diario della memoria cancellata Indice 1992

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Giorgio Bàrberi Squarotti, Alan Bass, Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Andrea Brunetti, Davide Del Bello, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Alfonso Ingegno, Ermanno Krumm, Mariarosa Mancuso, Valerio Marchetti, Fulvio Papi, Antonio Porta, Odilon Redon, Mario Spinella, Ernesto Treccani, Italo Viola. redazione: Via Borgospesso 8, 20121 Milano, tel. (02) 794515 editore: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67 24100 Bergamo, tel. (035) 239104 abbonamento annuo 1992 (4 fascicoli): lire 60.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano fotocomposizione: News, Via Nino Bixio 6, 20129 Milano stampa: Grafitai, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

Giordano Bruno e l'iter del soggetto da soggetto incestuoso di linguaggio a soggetto delle forme Solo dal disgregarsi della chimera incestuosa, prende forma per il soggetto il regno della possibilità. Tra possibilità e necessità una serie continua di gradazioni. A un estremo colloco il nevrotico di guerra in tempo di pace per cui tutto è necessario. Questa posizione modella il suo rapporto al linguaggio e gli fa intendere un discorso ipotetico o i verbi al condizionale come espressioni di ignavia e di ipocrisia. Si potrebbe dire che egli si comporta come un soldato in guerra, conosce solo comandi. Ma la verità è che l'essere aperto da tutti i lati, per la sua esposizione al!'irradiazione del godimento paterno, alla possibilità dell'incesto, lo rende sensibile a ogni minima sfumatura che sembri appena diminuire l'assoluto del!'imperativo che lo vieta. Al quale aderisce come ne andasse in ogni momento della vita o della morte. All'altro estremo lo psicotico è tentato dal!'idea di possedere la chiave che apre tutte le porte e con cui si propone di riuscire, liberando se stesso, a liberare simultaneamente tutta l'umanità. In realtà il suo è il progetto di porre rimedio alla grande lacerazione che è l'origine dell'uomo, progetto in cui è presente l'identificazione al padre ma anche il ripristiS

no di una verginità materna e con questo l'acquisizione delle mancate teorie sessuali infantili. In mezzo sta tutta la sequela di impossibilità e di costrizioni in cui si affanna il nevrotico. Negandosi all'amore del coniuge e perseverando nella posizione di figlio, egli rinuncia alla libertà dell'amore per la difesa della parentela e declassa le proprie teorie sessuali nella litigiosità, che respinge il coito dei genitori, e nel malumore, che fa di lui il partner mascherato di uno di essi. Come ho già raccontato una volta, a un mio paziente capitò di sognare «un microscopio che era un telescopio». Un bambino che aveva vissuto i giorni della insurrezione di Budapest del 1956, e della successiva sanguinosa repressione, soffrì per anni di una nevrosi traumatica. Restava sveglio la notte, presso la finestra che dava sulla strada, per il timore che il cielo non cadesse sulla terra. Una bambina a Milano, che aveva colto in un lampo la visione del genitore che a letto teneva in una mano la mammella della madre, quando non stava sulla porta della loro camera da letto per assicurarsi che la mamma non fosse morta, restava alla finestra, incapace di dormire per il timore che il cielo si abbattesse sulla terra. Principio di ogni creazione e creatività è sollevare dal mondo la volta del cielo. Cielo e terra coinvolti, come mostra Leone Ebreo, in una grandiosa copulazione. Un microscopio che è un telescopio: il dislocamento della materia germinale che così si configura mi porta a pensare a Giordano Bruno che spostò nei cieli lo sgomento con cui a sua volta guardava alla violenza traumatica dell'atto sessuale preoccupato soprattutto di salvaguardare la distanza e l'integrità dei corpi celesti. La storia della parola «sgomento» in tutta l'Qpera del Nolano permette di scoprire come la teoria del cielo si radichi in una teoria della sessualità. Allo stesso modo è dallo «smarrimento del peregrino», dal suo stesso smarrimento di esule gettato quasi in una caduta senza fondo, è dal ricorrere della parola «smarrimento» nella 6

sua opera, che si arriva a capire il significato della scoperta bruniana dell'infinito. A «Che dilatazione è questa?» risponde in Bruno un'altra domanda: «Che margine è questa?». La ricerca dell'infinito che è la ricerca di una via d'uscita dalle angustie troppo umane, di convivenza, di familiarità e convivialità, di invischiamento materno e parentale, descritte nella Cena, culmina nella introduzione di un concetto di «dimensione», di «misura», che non prelude tanto all'imminente trionfo delle matematiche quanto alla definizione del luogo in cui awiene la costituzione di un soggetto per il quale non vi sia, rispetto al potere distruttivo del godimento, più «ragione di sgomento». Così uno psicoanalista deve imparare a essere «delineatore del campo della natura» e in questo campo permettere il ritrovamento di quel luogo d'origine del soggetto che, con Virginia Pinzi Ghisi, abbiamo chiamato il luogo della fobia. La natura per l'uomo non esiste, ci dice Lacan fin dalle prime pagine degli Ecrits, in nessun altro modo che come «relazione con l'altro uomo». Ciò lo costituisce come puro «effetto di linguaggio», scisso tra le sue proiezioni illusorie sulla ribalta del sociale e il segreto disfacimento corporeo nella prigione, la bruniana «arca infracidita», del reale. La visione lacaniana del soggetto, convalida una struttura paranoica al centro della quale viene ancora a trovarsi, ma non riconosciuto, quel padre primordiale il cui passepartout, di cui recano così chiara testimonianza i sogni di pazienti psicotici, è il godimento illimitato. Mancando la costruzione delle teorie sessuali infantili, fra cui per esempio il pene alla madre, ponendo al centro questo buco, il grande manque, vide centrai, i soggetti singoli si trovano, come ricordavo, condannati a incarnare uno stato di appetito e a condividere con la materia svuotata e passivizzata lo stato di "figlio de la privazione e simile all'ingordiggia irrefrenabile de la vogliente {emina", ingordigia che è il calco e la riproduzione del godimento del padre. Il manque lacaniano, unico vero "concetto fondamentale" del lacanismo, rivela la sua 7

natura alla luce della critica di Giordano Bruno alla nozione aristotelica di materia: alla base di una concezione della materia come prope nihil sta una concezione del sesso femminile come passività, mancanza e desiderio insaziabile. Nel dialogo De la causa, principio e uno Bruno ci offre invece una teoria del!'«essenza e potenza della materia» che la vede attiva e ricca di tutte le forme. Un artefice interno forma la materia e la figura da dentro. Mentre un cosiddetto «discorso della differenza», con l'imposizione di un sapere della vagina e della penetrazione genitale, scava l'abisso tra materia e forma, passività e attività, mantenendo il soggetto nella condizione infelice di prodotto di scarto del godimento che lo causa, la via indicata da Bruno ci permette di differenziare la nostra origine dalla nostra causa. Z:atto sessuale, la causa estrinseca che ci dà la vita è anche ciò che ci dà la morte in vita, l'orrore del morto che non fa che ritornare. Ma distinto dalla causa c'è un principio come intelletto artefice che «da l'intrinseco de la semina! materia risalda l'ossa, stende le cartilagini, incava le arterie, inspira i pori, intesse le fibre, ramifica gli nervi, e con mirabile magisterio dispone il tutto». Il principio distinto dalla causa affranca il soggetto dalla servitù sessuale connessa con la mortificazione familiare. Questo principio da biologico diventa «intellettuale», e teorico: l'intelletto universale è la teoria che cura e ripara le ferite del trauma. La causa invece da organica si fa verbale e viene a coincidere con l'autonomia e il primato del linguaggio, per Bruno col verbalismo accidioso e misogino dei peripatetici. Rispetto a questo dualismo, in cui la materia è senza forma quando non è inseminata dal linguaggio, e al relazionismo incarnato oggi dalla scuola lacaniana come in passato dal!'aristotelismo, Giordano Bruno ci guida invece a una prospettiva da cui il soggetto, che ha colto nella trasformazione delle erinni (la persecuzione sessuale a cui l'uomo è sottoposto nel vacillamento delle teorie sessuali infantili) in eumenidi (l' «unità e indifferenza de la costante natura ed es8

sere») il significato della tragedia della differenza dei sessi, «viene ad avere ragione absoluta e non respettiva», absoluta in quanto non relativa al confronto verbale in cui si estenua una relazione incestuosa, in esclusione di causa del!'animale e del!'arredo del mondo. Qualcosa di qualificabile come individuo viene al mondo solo allorché «non dice il mio essere e sustanza quello che proferisce lo che io fo e posso fare, vale a dire il mio essere passivamente e femminilmente vicino al niente, ma sì bene quel che dice lo che io sono, come io e absolutamente considerato». E in questa frase a parlare è la materia. Il soggetto del!'incesto è dunque quello che riconosce la natura sessuale della compenetrazione, di cui parla Lucrezio nei terribili versi che Giordano Bruno riprende per creare un collegamento tra questa intrusione {«la brama per cui tutto il corpo si strugge di trasferirsi nell'altro corpo: invano») e l'intrusione di un linguaggio che penetra e diventa inquisizione. Lanciando il missile del suo pensiero, lacerando i sette o nove cieli Giordano Bruno sostituisce, con lo stesso procedimento che abbiamo visto per il bambino nel luogo della fobia, alla comprensione del coito la forma del pensiero. Proprio nelle stesse pagine fa riferimento a Medea e a Fedra. In entrambe barriere erano cadute, per Medea l'istmo di Corinto, la proiezione territoriale sulla quale può trovarsi quella barriera che è mancata a Fedra. Dal!'incesto si esce solo con la rappresentazione, che è la prima uscita con cui il bambino risponde al!'angoscia della scena primaria, ponendo nella natura circostante la prima rappresentazione esterna del!'apparato psichico che è il «luogo della fobia» di cui si diceva, e una rappresentazione mancata awia al frenetico rapporto del perverso al disegno. Mentre lo psicotico conosce tutta la gravità del frutto del godimento del padre e gli riesce almeno la rappresentazione di questa terribilità, nel perverso il tratto per quanto ripetuto è inconcludente, non arriva alla rappresentazione giacché il perverso aderisce alla realtà dell'ingravidamento della ma9

dre. Il rifiuto delle teorie sessuali infantili corrisponde per Bruno al crollo della «religione egizia»: cessa ogni potere di rappresentazione, il silenzio del deserto subentra al fitto comunicarsi della divinità nelle lucertole, nei serpenti, nelle cipolle e fin nelle statue inanimate che venivano fatte parlare e governavano le fortune, le malattie e le gioie degli uomini. Il crollo lascia solo la stravaganza di segni incomprensibili. Attraverso la religione egizia Bruno viene a dirci che la forma non è la superficie delle cose ma «il più intimo» di esse. La soggettività, la qualità di soggetto, giunge allora a trovarsi dislocata presso le cose: intelletto universale, anima del mondo, dio nelle cose, a essere soggetto è la materia del mondo, natura piena di tutte le forme, sottratte alla condizione di privazione, all'abisso di appetito genitale cui le riduce l'appello attribuito alla vagina (os vulvae nunquam dicit: sufficit). Il ca_mmino che porta dal «fastidito» al «furioso» è lo stesso che, attraverso una analisi, allontana il soggetto dal terreno del!'incesto cui l'assegnano infallibilmente, ben oltre i fatti accertabili, i segni della scontentezza, lo spirito di persecuzione, la pressione dell'ira e dello stress, la smania di contrapposizione verbale. Al deperire di questi segni, una sorta di furore intellettuale, che fa sì che un soggetto ceda su tutto tranne che sulla teoria che lo costituisce, scaccia ed elimina il furor incestuoso. Dal fastidito al furioso, il soggetto tendenzialmente incestuoso del linguaggio cede il passo a un soggetto delle forme che è Uno in quanto «moltimodo, moltiforme, moltifigurato». Sergio Finzi 10

Il perfetto e il furioso Leggendo i Contradicentium medicorum libri di Cardano (solo i due primi furono pubblicati vivente l'autore), ci si accorge che per il medico milanese ha ancora un sapore di attualità la discussione sulla possibilità o meno che si dia un temperamento perfetto1 . Tale discussione trovava la sua origine prima in alcuni testi di Galeno, ed era proseguita nella filosofia e medicina arabe almeno a partire dal Canone di Avicenna. Cardano sviluppa la tesi secondo cui le incongruenze che era dato di registrare nei testi di Galeno dovessero essere ricondotte alla sua oscillazione tra il carattere paradigmatico ed euristico del concetto, una sorta di modello ideale secondo cui orientare la ricerca, e la possibilità del realizzarsi concreto di un temperamento perfetto nell'uomo; aveva così buon gioco nel sottolineare le difficoltà a cui erano andati incontro nella trattazione del problema tanto un Avicenna quanto un Averroè, per tacere di altri autori. Interesse più diretto presenta tuttavia per noi il testo da cui verosimilmente egli aveva preso le mosse e cioè il Conciliator di Pietro d'Abano. Quest'ultimo autore non esitava tra l'altro a suggerire, nella sua ampia disamina della questione, un collegamento tra la dottrina di un 11

temperamento perfetto ed il verificarsi di alcuni miracoli del Cristo, giungendo a tentare per questa via una spiegazione delle sue proprietà straordinarie. Si presentavano in tal modo due problemi, che erano destinati ad essere discussi all'interno di una tradizione sia medica che filosofica lungo tutto l'arco del medioevo. In primo luogo, era dato chiedersi se la perfezione delle due nature del Cristo non rischiasse per questa via di ridursi al piano, eccezionale ma pur sempre umano, del profeta e del "legislatore"; in secondo luogo, la presenza in lui di elementi malinconici, la sua tristitia invincibile in momenti salienti e drammatici della sua esperienza terrena e della sua stessa morte apparivano in contrasto insanabile con l'idea di un temperamento perfetto e di un mirabile equilibrio tra gli umori. In ogni caso, le proposizioni di Pietro d'Abano relative a questo insieme di problemi, nonostante la prudenza dell'autore, saranno tra quelle censurate da un Symphorien Champier, i cui giudizi accompagnano sovente le edizioni cinquecentesche del Conciliator. Un testo dunque, quest'ultimo - sia notato per inciso - dotato ancora a quel tempo di una sua attualità. La dottrina di Galeno è destinata a ricomparire nel De incantationibus di Pomponazzi, e ad alimentare la critica di Campanella a quest'opera, e, sul finire del secolo, doveva ancora essere discussa nelle pagine del medico spagnolo Juan Huarte de San Juan, il cui Examen de ingenios para las ciencias (1575) doveva conoscere un successo europeo2. Huarte, dopo aver demolito questa dottrina sul piano scientifico, la ripresentava a sorpresa come valida per il suo augusto sovrano, padrone assoluto di quella che gli appariva come la più ardua tra le arti umane, e cioè la politica. In ogni caso, in Huarte il concetto implicava una perfezione fisica che facesse da supporto alle più alte virtù morali ed intellettuali. Ma torniamo a Cardano, per confrontarci nuovamente 12

non solo con le difficoltà intrinseche all'idea cui si è accennato, ma anche con i due problemi sopra ricordati e relativi entrambi alla figura del Cristo. Cardano si esprimeva dapprima negativamente sull'ipotesi che potesse darsi nella realtà l'optima temperies, e polemizzava contro i sostenitori di questa; tanto più sorprende quindi il fatto che concludesse la sua discussione pronunciandosi a sorpresa a favore della possibilità di essa, pur facendo rientrare prudentemente tale possibilità in una sfera religiosa e profetica da cui veniva esclusa per definizione la competenza del medico. L'atteggiamento di Cardano indica a mio avviso una situazione di crisi e di mutamento in cui viene a trovarsi tale concetto scientifico, ma esprime contemporaneamente la riluttanza a rinunciare a qualcosa che sembra poter gettare una sua luce su fenomeni della massima importanza e che in parte, credo, potrebbero riguardarlo direttamente. È qui, in altri termini, che si rende legittimo proseguire il discorso riferendosi in modo esplicito alla sua persona. È noto che Cardano considerava se stesso come una figura chiamata a svolgere un ruolo di rilievo assoluto nell'economia della storia ed in particolare nel campo del sapere, un ruolo che mirava contemporaneamente alla globalità dello scibile ed alla trasformazione delle condizioni di vita degli uomini attraverso la modificazione del regno della natura. Una missione, questa- sia osservato per inciso - che forse per la prima volta non aveva a che fare con una finalità religiosa concepita come suo scopo primario, pur non rinunciando alla sua universalità. Ci si domanda allora se questa funzione di protagonista assoluto intrattenesse qualche relazione con l'individuo Cardano, con quella che era la sua determinatezza empirica oltre che psichica e fisica. Nella celebre Autobiografia, tutta una serie di affermazioni che paiono in apparenza scisse e slegate tra loro viene ad acquisire un significato preciso attraverso la possi13

bilità che esse offrono di istituire un fitto tessuto di riferimenti con le altre opere. Cardano può in tal modo procedere a quella che appare un'apologia di se stesso, e porre in primo piano la rivendicazione della propria rettitudine intellettuale, morale e religiosa nel momento stesso in cui viene sviluppando in modo parallelo, attraverso il ricorso a tecniche di raro virtuosismo, una sotterranea rivendicazione di tutto ciò che ne aveva fatto ai suoi occhi un individuo palesemente al di fuori della norma, posto al di sopra degli altri mortali, non chiuso nei loro limiti né etici né conoscitivi. Tra continui silenzi, reticenze ed omissioni, egli si mostra preoccupato di distinguere ciò che è naturale in lui da ciò che possiede plausibilmente una causa superiore, ma agli occhi di chi abbia presenti le altre sue opere il rapporto tra quello che è il suo sapere e la sua vicenda biografica acquista un significato ben diverso, mai espresso esplicitamente nel corso del De vita propria. Cardano era stato colui che. aveva tentato l'impresa più alta che fosse dato di concepire, colui che era giunto ad individuare i confini estremi entro cui poteva svilupparsi l'esperienza dell'uomo. Così il concetto di una protezione che gli era stata largita dall'alto veniva a fare tutt'uno con alcune sue doti peculiari, qui fatte balenare nella loro autentica natura: basti pensare alla sua capacità di prevedere eventi, sempre sul punto di sconfinare nel dono della profezia; alla sua eloquenza ed in genere alle sue facoltà superiori; alla subtilitas, e cioè all'acutezza del tutto particolare dei sensi, negata nell'Autobiografia, ma affermata apertamente in opere precedenti e in modo esattamente corrispondente a quanto accade per la possibilità di operare miracula, respinta adesso in modo esplicito ma pur concessa, aveva affermato in altri testi Cardano, a colui che abbia attinto il vertice stesso della natura e si sia collocato al limite tra naturale e sovrannaturale. Tra i silenzi e le velate allusioni dell'Autobiografia, da un lato, e le affermazioni esplici14

te degli altri libri, individuiamo una figura di homo perfectus che non si realizza tanto nell'equilibrio tra corporeo e spirituale, quanto nel fatto che sia il primo che il secondo aspetto, non essendo riconducibili nella loro peculiarità al terreno comune agli altri uomini, istituiscono tra loro una serie di relazioni del tutto eccezionali che fanno appunto di Cardano qualcosa di irripetibile nel tessuto della storia. Di qui il fatto che l'intreccio tra vita ed opera, tra spirito e corpo, non possa essere interamente trasparente neppure a colui che tale intreccio vive in prima persona, mentre il concetto di homo perfectus sembra abbandonare il piano di un modello ideale dalle precarie possibilità di realizzazione, per trasferirsi piuttosto su un terreno nel quale si cerca di individuare un'esperienza unica nella storia attraverso i fattori fondamentali che l'hanno resa possibile. Malinconia e perfezione possono così trovare in questa prospettiva un equilibrio impensato, poiché l'evento biografico tende costantemente a proiettare il dato fisico, organico, in un tessuto di relazioni più ampie, che è suscettibile di dargli un significato più vasto, sebbene non sembri mai in grado di esaurirne il senso ultimo. Si vuol dire in altri termini che quella oscillazione tra malinconia e perfezione - che già si era presentata come un dato problematico in relazione alla figura del Cristo nel testo di Pietro d'Abano - tende qui ad assumere caratteri che implicano la possibilità dello slittamento di un termine nell'altro, più sulla base di una esperienza personale concretamente diversificata, che sulla base di una riflessione organica intorno a due concetti medici chiaramente definiti secondo i loro connotati tradizionali. Sia fisicamente che intellettualmente, i privilegi dell'uomo Cardano si adattano ad una idea di perfezione che ha a che fare con una zona d'ombra che si proietta sulla sua stessa vita quotidiana. In effetti gli eventi inattesi, le dure prove subite, l'intervento di ciò che di eccezionale e 15

miracoloso si è prodotto nella sua esistenza ne fanno un uomo che più che vivere sembra per così dire essere "vissuto" da qualcosa di più alto di lui: tutto questo agisce come un invito a ricercare un significato globale della sua vita che si ponga al di là di questa cortina di eventi che lo coinvolge, e che permetta di dare ad essa una sua compiutezza. Sarà allora l'impresa che egli ha condotto a buon fine come sapiente a costituire il filo che permetterà di collegare tra loro le sfere diverse della sua esistenza. Ad un aspetto sovrarazionale corrisponde quindi un aspetto razionale; i due momenti appaiono intrecciati tra loro in modo indissolubile: poiché Cardano è colui che ha saputo elevarsi al di sopra degli altri uomini, ed accedere alla zona di confine da cui è possibile gettare lo sguardo nella sfera dell'intelligibile, egli potrà porsi come guida nei confronti degli altri uomini, comunicare loro una conoscenza della natura che, nonostante tutti i suoi limiti, conserverà il carattere dell'eccezionalità. Le sue opere saranno lo specchio di una mens che trova in esse la sua immortalità e segneranno quindi la gloria dell'individuo Cardano. Sulla base del fatto che sia Bruno che Cardano, sia pure in modi diversissimi, si presentano quali mediatori tra sensibile ed intelligibile, tra umano e divino, si rende possibile istituire un parallelo tra le due figure, che, qui, ha solo lo scopo ben delimitato di poter aggiungere qualcosa alla storia dell'homo perfectus ed alla sua relazione con il malinconico. Diverrà così inevitabile, come già appare chiaro, chiamare direttamente in causa la figura del Cristo o, in altri termini, la discussione teologica sul rapporto che il Cristo, homo perfectus per eccellenza, intrattiene con il grado di perfezione che è dato all'uomo di conseguire. Certo, Bruno, a differenza di Cardano, presenta se stesso in modo esplicito quale mediatore tra l'uomo e la divinità, e la sua riforma investe esattamente quei campi che 16

Cardano tendeva a lasciare al di fuori del raggio della sua azione, privilegiando l'opera di trasformazione della natura operata attraverso gli strumenti del sapere, per ragioni che non sono marginali nell'economia del suo pensiero. Soprattutto, la novità radicale del Bruno è costituita dal fatto che la sua mediazione si presenta in modo esplicito come antitetica ed alternativa a quella fatta propria dal Cristo, considerata come falsa e volutamente ingannatrice, frutto di un'impostura le cui modalità ne hanno assicurato il perpetuarsi attraverso i secoli. Occorre infatti appena ricordare come per Bruno la riforma cosmologica da lui attuata sulla scia di Copernico riapra la possibilità di una conoscenza e di una contemplazione del divino che, per quanto è possibile, dischiuda al filosofo il «paradiso» in Terra, in quanto egli torna ad essere capace di perseguire infinitamente con la sua contemplazione la divinità infinita, secondo l'impresa del tutto eccezionale che viene illustrata negli Eroici furori (1585). Siamo in apparenza molto lontani da Cardano e dal suo particolare «uomo perfetto», eppure non sembra inutile riconsiderare - nella prospettiva che si è cercato di delineare - due testi bruniani che hanno particolare importanza nella sua opera, e che sono tra i pochi in cui egli viene contrapponendo in modo esplicito quella che possiamo chiamare la sua missione alla missione propria del Cristo. Il primo testo ci rinvia alla Cena de le Ceneri. Bruno, ci viene detto, è colui che al pari di Epicuro è asceso attraverso le pretese sfere celesti, per scoprire che esse non esistono, ma sono solo il frutto della fantasia umana e che al loro posto si apre quello spazio infinito, ricetto di mondi innumerevoli simili al nostro, che è sede adeguata della divinità, e che coincide con i caeli caelorum della tradizione biblica. Qualcosa che può ricordare dunque (sebbene rigorosamente lontano, se non antitetico) il portarsi dell'intelletto di Cardano a quello che è il limite cosmico tra 17

sensibile ed intelligibile, per figgere lo sguardo là dove l'occhio dell'uomo non aveva potuto sinora arrivare. In modo collegato alla sua posizione cosmologica ancora tradizionale, alla sua adesione convinta ad un universo finito e geocentrico, Cardano crede nella realtà di tale limite, ed il portarsi ad esso è per lui congiunto alla credenza in influssi superiori oltre che in specifiche dottrine astrologiche; per Bruno, al contrario, proprio riuscire ad annullare tale limite significa liberare gli uomini, come già aveva fatto Epicuro, dal terrore della morte e degli dei, nel caso specifico liberarli dal timore che incute loro il Dio dei cristiani. Questo passo della Cena de le Ceneri va tuttavia collegato ad un altro testo del Bruno, più importante ai fini del nostro discorso, un testo che appartiene ad uno dei poemi latini, il De immenso (1591), anzi -particolare che non va trascurato - all'esordio stesso del poema, il capitolo primo del primo libro3 • Prima di soffermarci sul suo contenuto, varrà la pena di ricordare due elementi importanti. Già nella epistola dedicatoria dell'opera, Bruno ha parlato di se stesso come di colui che è mosso dei optimi praedestinante gratia4, ove l'idea della missione compiuta da chi si pone come l'interprete della «rivelazione» autentica di cui Copernico è segno e strumento viene tradotta nel linguaggio delle dispute teologiche del suo tempo proprio per segnarne, con maggior efficacia, tutta la distanza. È sempre in nome di tale missione che egli può parlare di sé, nei versi di questo stesso primo capitolo del primo libro, come di colui che è «Dux, Lex, Lux, Vates, Pater, Autor, Iterque», ove sarà appena necessario ricordare la contrapposizione agli attributi tradizionalmente assegnati al Cristo, che è appunto via, verità, luce, autore della grazia ecc.5 Veniamo allora al testo cui si faceva cenno. Qui Bruno oppone ormai la contemplazione del divino, cui è possibile giungere attraverso l'infinità dell'universo, alla pretesa 18

conoscenza di esso che si avrebbe mediante l'incarnazione del Verbo ed il sacramento eucaristico. Ma cosa ci viene detto in concreto? Bruno invita gli uomini a non ricercare lo splendore, il diffondersi ed il comunicarsi della divinità in un individuo «siro», cioè della Palestina, o greco o romano; esorta a non illudersi di trovarla in un cibo o in una bevanda, secondo trasparenti allusioni all'Eucarestia, o in qualche altra materia ancora più ignobile, ed incita a non dare corpo ai nostri sogni ed ai nostri fantasmi, che sono le premesse stesse di tali illusioni funeste. Egli esorta piuttosto a ricercare il divino là dove solo può essere ritrovato, e cioè nella reggia augusta in cui ha sede l'onnipotente, nello spazio immenso dell'etere, nella potenza infinita di quella materia che fa tutto e si fa tutto (naturae geminae omnia facientis et omnia fientis). Solo per questa via sarà possibile risalire dall'effetto eterno, immenso ed innumerabile della prima causa, a questa prima causa stessa, alla maestà e bontà infinita della divinità, la cui gloria è cantata, secondo le parole dei Salmi, da mondi innumerevoli. L'universo, la natura sono dunque l'immagine, il grande e vivo simulacro «omniforme» del Dio «omniforme». Soltanto sulla base di questa contemplazione sarà possibile fare proprie le parole di Ermete Trismegisto, e chiamare l'uomo magnum miraculum. Queste parole non definiscono dunque la condizione umana in quanto tale, ma una condizione del tutto particolare; ed in effetti solo chi tenta di trapassare in Dio, ci dice il Bruno, diviene egli stesso quasi come Dio, chi tenta di farsi tutto come Dio diviene a suo modo il tutto. Egli mira certo ad un oggetto che non ha fine, ad un limite che è destinato a non essere mai raggiunto, ma tale ricerca conserva il suo significato perché anch'essa non ha fine, attinge sempre un limite che è destinato ad essere continuamente superato. Si tratta di un testo capitale per definire il senso dell'opera bruniana, ma ciò che a noi più interessa in questo 19

momento è che la contemplazione di cui si parla - questo ricercare la divinità nello spazio immenso, nella duplice natura che fa tutto e si fa tutto, anziché in un uomo, in un cibo, in una bevanda o in qualcosa di peggiore - venga definita come contemplazione: « ... non levem ac futilem atqui gravissimam perfectoque homine dignissimam». Si tratta dunque della contemplazione che compete per eccellenza ad un uomo perfetto, e per questa via finiamo per ritrovare il nostro problema in un contesto che è certo mutato, ma che dovrebbe permetterci di aggiungere qualcosa a quello che sommariamente abbiamo già ricordato a proposito di Cardano. Sembra qui inevitabile, infatti, confrontare l'esperienza cui accenna il Bruno non solo con la tradizione medico-filosofica di cui si è parlato, ma anche, più direttamente, con la tradizione teologica, dato che il Cristo è ormai chiamato in causa in modo esplicito quale termine naturale di confronto. Non resterà in seguito che sondare la possibilità di istituire una relazione tra la perfezione di cui qui si parla ed i caratteri della malinconia. Cardano, abbiamo visto, affermava nei Contradicentium medicorum libri che la possibilità dell'esistenza di un uomo perfetto non può essere decisa su un piano meramente medico e naturale; rinviava così con prudenza, ma in modo ambiguo, ad un terreno teologico che di fatto cercava di eludere. Bruno, al contrario, si confronta esplicitamente con una tradizione teologica a cui reagisce in modo radicale, ma che per certi aspetti finisce per condizionarlo in misura determinante. Intendo riferirmi in particolare all'opera di Cusano, e proprio al suo testo più celebre, il De docta ignorantia, destinato ad introdurci a quell'esperienza filosofica che il Bruno riepiloga (come abbiamo appena visto) nel De immenso, e che aveva trovato la sua espressione più alta nelle pagine degli Eroici furori. La perfezione umana, dice Cusano nella Docta ignorantia, deve essere valutata in ciò che la nostra natu20

ra ha di più alto, e cioè l'attività dell'intelletto. Dal punto di vista fisico, non si richiede, per raggiungere tale perfezione, qualcosa di particolare, ma è necessario soltanto, egli afferma, che il corpo sia strumento adattissimo alla natura intellettuale stessa, che esso le obbedisca e la serva senza opporre resistenza, produrre fatica oppure avversione nei confronti di tale attività. Ora, si ritiene che Gesù Cristo, che aveva in sé, già quando apparve nel mondo, tutti i tesori della scienza e della sapienza (sono, si ricordi, i doni dello Spirito Santo relativamente all'intelletto), abbia avuto anche, come attestano le Scritture, un corpo perfettissimo, estremamente adatto a quelli che sono i fini di una natura intellettuale. Siamo così tornati al nostro punto di partenza: un corpo perfetto, un intelletto perfetto, che vengono tuttavia posti in rapporto ormai con la duplice natura del Cristo, destinata come sempre a porre problemi al limite della insolubilità. Chiediamo lumi ancora una volta a Cusano, non rivolgendoci più a spunti particolari della sua riflessione, ma chiamando in causa, sia pure in modo inevitabilmente sommario, quella che è la struttura stessa della Docta ignorantia. Come è noto, nel primo libro dell'opera viene delineato il concetto di Dio come del «massimo assoluto», nel secondo quello dell'universo, del «massimo contratto», mentre nel terzo libro si teorizza la mediazione che il Cristo e solo il Cristo può operare tra i due primi termini, tra due opposti fra loro infinitamente distanti. Evidentemente, non è che Cusano sottovaluti la peculiarità dell'Incarnazione, il suo carattere di evento temporale, storico, su cui egli stesso si sofferma nel corso dell'opera, ma tenta di ricavarne la necessità portando la sua riflessione su un piano cosmico, facendo vedere da un lato come solo il Cristo potesse fungere da mediatore tra Dio e l'universo, dall'altro come nessuna creatura potesse sòstituirsi all'unico, insostituibile uomo-Dio nel ricondurre il creato al creatore. 21

In effetti, la distanza infinita esistente tra Dio ed universo, tra «massimo assoluto» e «massimo contratto», resterebbe tale, ai suoi occhi, se non si desse la possibilità di un massimo che sia nello stesso tempo assoluto e contratto, che sia quindi in grado di realizzare la coincidenza tra creatore e creazione perché egli stesso creatore e creatura. Se questa possibilità è destinata a prodursi, appare allora chiaro, data la distanza incolmabile esistente tra Dio e mondo, che ciò può essere dovuto ad un atto del tutto particolare operato dalla divinità. Il terzo libro della Docta ignorantia è rivolto appunto, come si diceva, alla soluzione del problema cristologico su un piano cosmico, soluzione intesa come coincidenza tra i due opposti, massimo assoluto e massimo contratto, Dio ed universo, e che si presenta dunque non come una sorta di appendice nei confronti degli altri due libri dell'opera, ma come ciò che è chiamato a darle un senso compiuto, ad esprimerne quello che è il vero significato. Resta per noi il problema di sapere perché solo il Cristo e non un semplice individuo - sia pure con caratteri del tutto eccezionali come poi avverrà per il Bruno - possa rendere operante tale coincidenza. Per Cusano l'uomo costituisce certo un essere privilegiato nella gerarchia del creato: è colui che nella sua qualità di microcosmo, e di punto medio tra tutte le cose, è in grado di portare all'attualità, anzi ad un'attualità più vera, quale quella dell'intelletto, i contenuti del sensibile. Tuttavia, nonostante tale prerogativa, anch'egli si presenta come legato ad un limite che appare insuperabile, e che non gli consentirà mai, quale che sia il livello di perfezione da lui raggiunto, di passare dal piano della semplice «contractio», ad uri livello superiore, perché sarà sempre possibile pensare ad un individuo che realizzi in forma più compiuta e perfetta, pur restando sempre nell'ambito del finito, il grado a cui si sia giunti. La possibilità che tale opera di mediazione si realizzi prevede dunque che attraverso la «contrac22

tio» si passi ad un ordine di natura superiore, e ciò può accadere solo grazie alla divinità, nel momento in cui essa decida di elevare a se stessa, di associare a se stessa l'umanità, non in un qualsiasi individuo, ma in quell'uomo che conducendo all'atto tutte le perfezioni del sensibile, portando al suo limite estremo la «contractio», si renda suscettibile di essere ricongiunto al Verbo, all'uguaglianza del Figlio col Padre. Ci troveremo allora di fronte a Colui che presenterà in se stesso la perfezione del massimo contratto. In modo inesplicabile ai nostri occhi, potrà compiersi l'operazione per eccellenza perfetta propria della divinità, quella grazie a cui la sua potenza infinita - che può conoscere un limite che solo essa ponga a se stessa - eleverà a sé un ente che racchiuda la pienezza di tutte le perfezioni dell'universo. Solo allora l'umanità potrà divenire contractio universalis e ricongiungersi così alla sua origine. In tal modo il Cristo, nella sua unità con il Verbo, viene a svolgere una funzione cosmica insostituibile, rappresenterà l'ineffabile coincidenza del massimo assoluto e del massimo contratto, del creatore e della creatura. Grazie alla sua mediazione, il tutto deriverà dal massimo assoluto, e ritornerà ad esso come al principio da cui è emanato, ed a quello che costituisce il fine stesso del suo processo di ascesa. Attraverso di lui, e solo attraverso di lui, tutte le cose sono unite grazie ad una mediazione cosmica che ha quale sua premessa, come si diceva, il porsi di una limitazione interna alla divinità, un limite che essa pone a se stessa. Si crea in tal modo una linea di confine tra umano e divino, coincidenti e insieme distinti, attraverso un concetto limite della contrazione che nel momento in cui viene assunta nella sfera dell'assoluto rischia di negare i presupposti stessi su cui è basata, di capovolgersi nel suo contrario e di dissolversi nella fonte da cui è emanata, rischia in altre parole di negarsi. È proprio questa, tuttavia, la traccia che può indicare il 23

percorso compiuto dal Bruno, a partire dalla metafisica del De la causa, per giungere sino alla suprema esperienza del mistero filosofico-religioso adombrato negli Eroici furori, esperienza che da quella metafisica trae gli elementi perché essa possa realizzarsi nell'uomo, o, per essere più precisi, nel filosofo «eroico» che solo può portarla a compimento, e cioè nel Bruno. Nella riflessione di questi, infatti, quella coincidenza tra creatore e creazione, divinità e natura, può trasferirsi all'interno stesso del creato grazie alla potenza infinita della materia, eguagliata a quella della divinità, ed alla conseguente infinità spaziale dell'universo che ne viene immediatamente dedotto quale conseguenza. Non risulta più allora impossibile delineare il parteciparsi del divino in forme che non ne pregiudichino la natura, poiché il cosmo può esserne considerato il riflesso adeguato sia pure in modo, per usare i termini del Bruno, finitamente infinito, infinito nella sua stessa molteplicità. Se dunque pur continua a sussistere con la natura una contrazione universale che resta infinitamente lontana dal creatore, tuttavia essa non si è mai staccata dalla sua fonte, in quanto costituisce una esplicazione necessaria della sua essenza, come mostra la coincidenza tra la potenza passiva della materia e quella della divinità. La riforma ontologica delle tesi di Cusano trova così la sua espressione nel De la causa, ma da essa scaturisce la possibilità di far leva sul fatto che la natura si presenta in tal modo come potenzialmente mediatrice tra Dio e l'uomo. Tocca dunque a questi di cercare di attualizzare in se stesso tale virtualità, facendo leva su due fattori in apparenza distinti: da un lato la potenzialità infinita propria del suo intelletto, riflesso nell'uomo di un fattore cosmico; dall'altro la possibilità di accedere ad una attualità finitamente infinita, trasferendo tale attualità dal campo cosmologico a quello della conoscenza umana. Sarà questo, in effetti, il significato degli Eroici furori. 24

L'attualizzazione che l'uomo è chiamato a compiere si presenta allora come adeguata nel senso che non conosce un limite superiore, è appunto finitamente infinita; essa fa leva sulla potenzialità infinita della natura per portare alla loro coincidenza gli opposti che sono alla sua origine e che si identificano con l'esistenza stessa del divino, senza che sia più necessario postulare misteriosi, incomprensibili incontri tra finito e infinito, uomo e Dio, incontri nati su un terreno prodotto dalla fantasia, e destinati a sfociare nelle forme più basse di idolatria. Per questa strada poteva ricostituirsi almeno come concetto limite l'idea di un massimo insieme assoluto e contratto che finisse per esprimere, pur persistendo la radicale alterità ontologica e gnoseologica dei due termini, il procedere infinito dell'uomo dall'uno all'altro, dalla natura a Dio. È questa, si diceva, l'esperienza che il Bruno vive negli Eroici furori, è questo il risultato di quella contemplazione attraverso cui l'uomo tende a rientrare nel divino facendosi tutto, e che veniva definita nel De immenso come la contemplazione degna per eccellenza homine perfecto. È appena necessario accennare al fatto che per questa via risulta più trasparente - basterebbe richiamare i punti specifici di dissenso con Cusano - come la figura del Bruno si ponga in alternativa a quella del Cristo e come la sua opera di "redenzione" sia destinata a cancellare la presunta redenzione operata dal secondo. Ma è tempo ormai di trarre alcune conclusioni da quanto siamo venuti dicendo. Accanto ad una tradizione medica che tende ad attirare nella sfera del naturale le prerogative dell'homo perfectus, salvo ad intendere in forme diverse l'ambito di tale sfera, sussiste dunque una tradizione filosofico-teologica, qui esemplificata per ovvi motivi attraverso l'opera di Cusano, che si identifica con la discussione secolare in atto all'interno della Scolastica, relativa tanto al rapporto tra natura umana e natura divina nel Cristo, quanto ai differenti gradi di perfezione di 25

cui poteva essere considerata suscettibile la prima considerata nella sua globalità. Il punto delicato che questa seconda tradizione era chiamata a definire riguardava il modo in cui nell'opera umana del Redentore si inseriva un elemento decisamente sovrannaturale. Il Cristo in quanto uomo possiede un'anima che non può trascendere tutti i limiti dell'anima e della conoscenza umane, d'altro lato è giocoforza annettere ad essa una serie di prerogative che le appartengono dall'inizio in quanto in Lui la natura umana si unisce al Verbo. È il problema spinoso e delicato della communicatio idiomatum, dei limiti entro cui può essere legittimo attribuire alla natura umana del Cristo le prerogative di quella divina e viceversa, un problema che si era acuito ed era divenuto drammatico proprio con l'affermarsi della Riforma ed il diffondersi di quelle controversie eucaristiche che indicavano per il Bruno il vero significato della Riforma stessa, e che sembrano porsi all'origine stessa della sua interpretazione del copernicanesimo. In questa sede tuttavia l'interrogativo che ci interessa è un altro e più delimitato, la domanda cioè se tale discussione teologica abbia potuto fornire indirettamente qualche suggerimento alla considerazione del Cristo come semplice uomo e quindi se abbia contribuito a ritenere possibile che altri uomini insieme a lui potessero godere di prerogative nello stesso tempo naturali ed eccezionali, ad esempio quella già ricordata per Cardano di operare miracoli. Ritengo utile chiedere lumi in proposito ad un altro autore, anch'egli celeberrimo, e precisamente al Suarez della Theologia, ricordando che nei Contradicentium medicorum libri Cardano attribuiva tale facoltà all'uomo perfetto e che il Bruno non aveva esitato a dichiarare che, solo se l'avesse voluto, non gli sarebbero mancate le forze per compieremiracoli uguali se non superiori a quelli del Cristo6. Ora, il Suarez, nel T. XIV, Disput. XXXI della sua 26

Theologia, si poneva appunto il problema dei miracoli del Cristo in relazione alla distinzione reale che permane all'interno dell'unione ipostatica tra la sua humanitas ed il Verbo divino. La discussione di Suarez possiede un suo interesse anche perché interviene su un problema ampiamente dibattuto nei suoi anni, e vi interviene in maniera polemica. Non è possibile in questa sede soffermarsi sulle tesi di coloro che prendono posizioni diverse dalle sue; in ogni caso per il Suarez l'umanità del Cristo non è semplicemente causa «morale» dei miracoli, cioè essa non assiste solo, per così dire, a quella che è l'esclusiva azione divina, ma è invece causa strumentale di essa e come tale appare dotata di una sua efficacia. Essere causa strumentale e contemporaneamente efficace implica che da parte della creatura - e creatura è anche il Cristo considerato nella sua umanità - sussista una disposizione (obedentialis activa la chiama Suarez) che di fatto rende indistinguibili azione divina e azione della creatura, anche se la seconda non può aver luogo evidentemente senza la prima. Per sostenere il valore della sua tesi, che andrebbe do� cumentata con opportune citazioni, Suarez non esita a sottrarre al Cristo come uomo ciò di cui non può evidentemente essere causa semplice assoluta ed efficace (ad es. la grazia); tuttavia, per affermare che egli è insieme causa strumentale ed efficace in altri campi, quali quello del miracolo, è costretto a spostare la sua attenzione sulle possibilità concesse alle creature in genere. Anch'esse, egli afferma contro l'opinione di molti altri teologi, purché posseggano quella dispositio activa obedentialis, possono di fatto essere causa efficace sebbene strumentale di eventi miracolosi. È indubbiamente significativo che la discussione di Suarez presenti oscillazioni ed incertezze nel momento in cui si tratta di stabilire se tale dispositio sia di origine naturale o soprannaturale; tuttavia, resta degno di attenzione il fatto che egli, nel distinguere tra i limiti propri all'anima del Cristo, come ad ogni altra ani27

ma umana, ed i privilegi che le venivano dalla sua unione con il Verbo, non manchi di sottolineare che la sua umanità compiva miracoli, sia pure solo «strumentalmente», sulla base di qualcosa che apparteneva alla sua natura, ma non era privilegio esclusivo di essa. Ci si chiede allora se, quando Cardano e Bruno- implicitamente il primo, esplicitamente il secondo-parlano di miracoli che essi stessi possono compiere, non si limitino solo ad allargare le potenzialità assegnate alla natura includendo in essa lo stesso intervento divino, ma vengano introducendo una nozione del miracolo che contempli tanto la generica accezione di evento fuori della norma quanto un'accezione più ristretta, che può trovare la sua giustificazione su un piano strettamente teologico, senza bisogno di ricorrere ad altri termini che non siano Dio e l'uomo, ma mettendo implicitamente in discussione le prerogative assegnate quale suo privilegio alla sola duplice natura .del Cristo. Ma è tempo di affrontare l'ultimo dei problemi che ci si erano imposti. In che termini si configura in Bruno il rapporto tra malinconia e perfezione dell'uomo? Per dare una risposta a questo interrogativo, cerchiamo di fissare dapprima quelli che sono i punti essenziali del problema in rapporto ai dati nuovi che sono emersi dall'analisi dell'opera del Bruno, tenendo conto di quanto si era detto a proposito di Cardano. Abbiamo parlato, a proposito di quest'ultimo, non solo di una possibile crisi dei tradizionali concetti medici di malinconia e perfezione, ma anche della possibilità che si istituissero tra loro dei rapporti inediti sulla base della relazione che veniva creandosi con una trama di eventi che definiva nel corso del tempo il significato ed il destino dell'uomo. In Bruno non solo malinconia e perfezione tornano a ricongiungersi, ma ancora una volta ciò accade in opposizione esplicita alla figura del Cristo, e qui dobbiamo rifarci ancora una volta al significato degli Eroici furori. 28

Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare, credo che acquisti rilevanza particolare il fatto che nel corso di tale opera vengano indicati come decisivi alcuni momenti autobiografici, così come per altri versi è forse da ricercare sul terreno dell'homo perfectus la chiave del comportamento ultimo del Bruno al termine del processo romano. Tornando al nostro problema, è nel corso degli Eroici furori che si rende trasparente il passaggio, decisivo per il significato dell'opera, dalla condizione del «malinconico» ad una condizione che, se pur conduce l'uomo al di fuori di se stesso, garantisce contemporaneamente la più alta realizzazione che gli sia dato di esperire in questa vita terrena. La condizione del «furioso» è in effetti quella di vivere una scissione che appare incolmabile non solo tra anima e corpo ma, soprattutto, all'interno dell'anima, tra ciò che piega e richiama questa verso il corporeo ed il sensibile, e ciò che alimenta in essa l'aspirazione alla contemplazione. L'opposizione tra i due contrari è destinata a rivelarsi così quale opposizione tra l'intelletto e l'amore, tra la capacità propria del «furioso» di tradurre ogni cosa in se stesso tramite la potenza intellettiva e la capacità propria dell'amore di trasformare il «furioso» in quello che è l'oggetto stesso della sua passione, capacità dunque di convertirlo in quest'ultimo. L'origine e lo sviluppo di questi due processi hanno in realtà la loro radice nei due opposti che nel cosmo realizzano la vita del tutto, e cioè nell'azione della divinità concepita come intelletto ed amore, contemplazione ed azione, potenza attiva e potenza passiva. A mano a mano che le due opposte facoltà del «furioso» procedono nella loro pur diversa ricerca, quest'ultima è destinata a rivelare il suo carattere inesauribile, onde essa si presenta in un primo tempo come l'acuirsi progressivo dell'opposizione originaria tra intelletto ed amore, e come l'apparente annullarsi degli sforzi dell'uno a causa dell'azione opposta 29

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