Il piccolo Hans - anno XII - n. 47 - lug./set. 1985

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 47 luglio/settembre 1985 Virginia Finzi Ghisi 5 Didascalie per un disegno della clinica psicoanalitica Giuliano Gramigna 15 Disegni ai margini (Stendhal, Sterne, Freud) Filippo M. Ferro 26 I volti della sofferenza Moreno Manghi 41 L'arte della perversione Giovanni Cacciavillani 70 Arte, trionfo, manìa Mario Spinella 90 Doré legge il _« Furioso » Ilya Prigogine 123 Le radici del tempo nella fisica Giovanni Anceschi 136 L'oggetto della raffigurazione Paolo Bollini 148 L'illusione di- Giotto NOTES MAGICO Guido Crepax 157 Diario di lavoro Ermanno Krumm 163 Baudelaire e l'acquarellista Maria Luisa Meneghetti 172 Le miniature trobadoriche - o il gioco delle identità Marco Senaldi 185 Famigerati: LouYs, Duchamp e l'anoressica

Il piccolo Hans rivista di analisi ·materialistica direttore responsabile: Sergio f'inzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Giovanni Anceschi, Paolo Bollini, Giovanni Cacciavillani, Guido Crepax, Filippo M. Ferro, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Piero Lavatelli, Moreno Manghi, Maria Luisa Meneghetti, Ilya Prigogine, Marco Senaldi, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Galleria Strasburgo 3, Milano, tel. 790517-795557 abbonamento annuo 1985: (4 fascicoli, lire 30.000, estero lire 45.000 e.e. postale 11639705 intestato a edizioni Dedalo spa, cas. post. 362, 70100 Bari Registrazione: n. 472 del 7-5-74 del Tribunale di Bari Fotocomposizione e stampa: Dedalo litostampa spa, Bari.

Il piccolo Hans Revue trimestrelle d'analyse matérialiste Directeur: Sergio Finzi Rédaction: C. CaUigaris, S. Finzi, V. Finzi Ghisi, G. Gramigna, E. Krumm, M. Spinella, I. Viola Abonement 1 an (1985): 4 numéros: lire 45.000 Edizioni Dedalo spa, casella postale 362, 70100 Bari

Didascalie per un disegno della clinica psicoanalitica Perché l'illustrazione? Ricordate Sussi e Biribissi, della cui storia mi sono servita in Il fondamento psicotico della nevrosi, nel « Piccolo Hans » n. 43/44, per illustrare la funzione della fobia rispetto all'identificazione e alla psicosi? Sussi, grassoccio e rotondo, e Biribissi, nero secco e sudicio, che attraverso varie vicissitudini diventano il primo « secco e allampanato », il secondo « più grosso di un pallone gonfiato », così che quando si incontrano, pur specchiandosi l'uno nell'altro, non si riconoscono più. Nella loro storia si era, nel frattempo, insinuato un gatto, ed è su questo elemento che potevo disegnare due schemi, con la presenza o l'assenza del gatto, a precisare l(l funzione antipsicotica che stavo delineando per la fobia. Ma adesso rivedo solo Sussi e Biribissi e se voglio ritrarli, inserendo l'illustrazione nella storia, posso farlo solo rappresentandoli nel momento del riconoscimento, o del falso riconoscimento, « ma sei tu, o sono io?», e allora ci vuole il dito di entrambi puntato verso l'altro, o diversamente il lettore non coglierebbe l'inversione. Allora quando Freud parlçz del sogno come di un'illustrazione, a margine dell'irrapresentabile, ci permette di intravedere qualcosa che nel sogno deve entrare e che lo sposta una volta per tutte dalla sua interpretabilità attraverso una 5

griglia prestabilita di simboli e dalla sua rappresentatività di un inconscio visto come un marasma di flussi. E ritorniamo così alla mia nozione di protesi. Chiarimenti sulla nozione di protesi. Quando Freud si riferisce a una « protesi » ciò a cui fa allusione, br�vemente, nel suo scritto, è a un supplemento, un'aggiunta frutto della tecnica, che serve, un paio di occhiali per il miope o il cannocchiale per vedere le stelle, a rinforzare una debolezza o a colmare una mancanza di potenzialità. Curiosamente, usa "protesi » in una direzione che non gli è congeniale e che, introdotta nel caso del piccolo Hans, non esiterebbe egli stesso a chiamare « filosofica », nel senso cioè che egli dà alla scuola filosofica di Wundt. Quando invece in questi anni ho cercato di definire la nozione e la funzione che nella clinica ho rilevato della protesi, vedo che la mia protesi non è un completamento, ma qualcosa che sta alla radice dell'identità e che, pur determinandosi in un.turbamento, mal si adatterebbe alla categoria del perturbante. L'illustrazione che ho immaginato di Sussi e Biribissi che s'incontrano alfine, esige due dita puntate che sono, per ciascuno, quello dell'altro, e la funzione di protesi, perché di un sostegno, di un artificio si tratta, ma di un artificio incarnato, mi allude a ciò che Lacan ha chiamato significante, ma non ci va a coincidere, perché l'altro in questione non è un significante, ma, in carne e ossa, l'intero Biribissi. Nel caso del piccolo Hans la protesi di Freud potrebbe apparire al termine, con il sogno dello stagnaio che, provvidenziale, potrebbe sostituire un popò, o un pipì, mancante. 6

La nostra protesi entra all'inizio, all'affacciarsi dell'angoscia che coinvolge per il piccolo Hans e per esteso per chi si affaccia a ciò che ho chiamato il « luogo della fobia», il dilemma terribile sull'animato e sull'inanimato. La protesi che viene dopo appartiene all'ortopedia e ha dei tratti naturalistici, la protesi che viene prima appartiene al design. Una sedia è animata o inanimata? Ha il fapipì o non ha il fapipì? e la mamma? E così che Vietar Hugo disegnando a margine dei suoi scritti, disegnando chiuso nella sua casa, mobili su mobili, vi inseriva, nello schienale di una sedia, la struttura di una grande H, l'iniziale del suo nome. Chiarimenti sul luo g o della fobia. Abbiamo chiamato il luogo della fobia « prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico». In Il fondamento psicotico della nevrosi ne ho illustrato la funzione, mancata, rispetto all'instaurarsi di una psicosi. E, facendo questo, ho preso implicitamente le distanze tra questa rappresentazione, e il simbolico. Questa rappresentazione infatti, benché mancata, o proprio perché mancata, si ripresenta continuamente nel discorso dello psicotico. E per discorso intendo, globalmente, tutto ciò che egli dice e fa, per rappresentare per sé e presso di me ciò che ha mancato. In questa rappresentazione, aggiungo, che lo psicotico agisce e il nevrotico ripete, avviene l'incontro rarissimo di due filoni che procedono in genere paralleli e quindi separati se non in un ipotetico, ma reale; punto all'infinito: il filone dei ricordi e il filone dei desideri. La cui separazione determina il fallimento, in un'analisi che non ne tenga conto, dell'interpretazione come spiegazione, che non rispetta 7

cioè il fatto che, come il sogno è al margine dell'irrapresentabile, così la scoperta dell'inconscio non è semplicemente la scoperta di un desiderio. Nella nostra vecchia pianta del Dazio, alla cui illustrazione in più tappe vi rimando, ecco che allora è da segnalare un movimento. Non è semplicemente una pianta, un disegno, ma vi sorge un rilievo. E un rilievo animato. Sul disegno del caso del piccolo Hans, ecco perché i due disegni A e B, appare il carro tirato dal cavallo. Nella reiterazione del luogo della fobia qualcosa spinge a un'operosità: un viaggio, costruire una casa. Essa determina, nella vita del nevrotico, e in quella dello psicotico più vistosamente, una specie di lavoro continuo che è analogo a quello del sogno. Ecco allora, di nuovo,la differenza segnalata da Pinzi in L'eclissi della fobia in psicoanalisi, tra fobie e fobia. Le fobie trattengono quando la fobia opera. Fobie come piccole illustrazioni a margine dell'illustrazione centrale con il risultato che spesso è quello di cancellare completamente, come un tratteggio o un ornamento troppo puntiglioso, l'illustrazione centrale. Per esempio, una persona che si rifiuta di uscire di casa o di attraversare la strada è come se impedisse la rappresen­ .. tazione del disegno completo del luogo dove si trova, impe­ . disse il profilarsi trasversale della barriera molle e, al di là, il luogo dell'Altro. Il fatto di non poter toccare una maniglia è come mettere in rilievo un particolare all'ossessione, è come fare un ricciolo tanto abbondante da nascondere l'architrave. Così una fobia degli animali occulta la loro presenza animatrice sul luogo della fobia testimonianza di un incontro con la natura possibile solo, come emerge dal seminario di Pinzi su Darwin (Viaggio di uno psicoanalista intorno a Darwin: le origini dell'angoscia), se le barriere coralline, viventi e molli all'esterno, consentono a quello che a torto è stato considerato lo studioso dell'evoluzione, di sele8

zionare per il proprio studio, l'interesse per i cirripedi. Però ci sono dei casi in cui non appaiono nemmeno questi segnali, questi ricami, questi piccoli design di ornamento. Ed è la volta che la felicità del particolare è rimpiazzata dalla facilità dell'idea, come è facile, semp{ice e salutare fare all'amore. Il carro e il cavallo scompaiono dalla pianta del dazio, e i sogni dell'analizzante ripetono l'illustrazione di una pianta vuota, non abitata, non animata, il design di una lavatrice ferma, perché l'illustrazione del funzionamento è inclusa, di una lampadina piena d'acqua, la desolazione dell'inanimato che presto, oltrepassate le assicurazioni di « facilità », riconducono prima del luogo della fobia, all'esplosione dell'angoscia. Mentre nella psicosi l'elemento che viene più in luce è il ritmo, sono gli zoccoli del cavallo, l'enfasi dell'animato, l'orrore della statua che realmente si anima, qui invece l'illustrazione manca di suono. Citazioni da « Anfione di Sasso)). Ecco perché Sergio Pinzi introduce il suo seminario Anfione di Sasso con una considerazione sul Mosè di Michelangelo, che non è visto, nello studio di Freud, come oggetto di un discorso sull'arte, ma può ora gettare luce sui movimenti, e sui rilievi, della topologia psichica. « Perché non parli? ». E, nella leggenda, un martello scalfisce una giuntura, un'articolazione. Perché la protesi che non si afferra è qui la voce. Il · Mosè dà voce all'angoscia che si articola sulla congiunzione, scrive Pinzi, « del duro e del molle, aporia del luogo della fobia, di un luogo caratterizzato da una barriera che però è molle». E ancora citando da Anfione di Sasso, « An9

che l'intero gruppo descritto da Freud nel Leonardo è una scultura, una scultura vivente. Leonardo, Mosè, Gradiva. La scultura solleva problemi inerenti al movimento, alla dialettica del morto e del vivente, del duro e del morbido, e sempre in rapporto alla Legge: la legittimità della discendenza nel Leonardo, le tavole della Legge nel Mosè, il matrimonio nella Gradiva. Mosè è sul punto di balzare in piedi e di lasciar cadere le santissime tavole, oppure ha già dominato la sua ira e salvato le tavole in bilico? ». Ecco come il problema del movimento, l'animato, si inserisce nell'inanimato, e lo fa attraverso la Legge, sulle tavole della Legge, come per Hans sulla pianta del recinto del Dazio. Solo che il carro trainato dal cavallo ci parla di fobia, mentre la « Statua, che è insieme il cadavere e il bambino, il cadavere perché fredda e inanimata, il bambino perché scolpita, formata, modellata, la statua è però anche il monumento eretto nel suo rapporto alla perversione». Due funzioni diverse della protesi. Nel luogo della fobia, e quindi nella nevrosi, la protesi s'incarna nell'animato, nella perversione è l'incarnazione di un vivente fuori di sé che evoca l'orrore del morto vivente. Quando di fronte al bambino riappare, quarant'anni dopo, un padre non abbastanza « morto », e scatta un'identificazione che sposta il perverso nella psicosi abbiamo il caso del bambino nel quale il perverso si specchia. impersonando il padre sul prato di San Giovanni Battista alla Creta (cfr. il capitolo « Scena e teoria della perversionè » nel volume Il mistero di Mister Meister di S. Pinzi, Dedalo 1983). Gradi differenti di identificazione, e diverse funzioni della protesi, che già individuammo precisando la distinzione clinica, il diverso. disegno, di nevrosi, perversione e psicosi. 10 « Ma benché pietra, io vivo, io spiro, e 'ntanto così tacendo io canto ».

Rapporto di illustrazione, protesi e generazione con la nozione di residuo. La voce di un altro ha attraversato la mia illustrazione registrata dalle virgolette. La funzione della citazione è analoga a quella della didascalia a un disegno. Che cosa resta di un movimento? Come rappresentare il gatto di Carroll che svanisce? Il « resto », il sorriso del gatto, è la smorfia che determina nella fisionomia le varianti di generazione in generazione. Non per niente mettevamo una nozione di residuo all'inizio del nostro insegnamento, del nostro disegno della clinica psicoanalitica. Ricordate l'Archeologia dell'Avanzante? o l'Arcano dell'accumulazione nell'inconscio? La rappresentazione dell'apparato psichico che abbiamo preso da Freud, e proprio parlando dell'apparato psichico Freud fa un altro accenno alla protesi per dire che l'apparato psichico è come un cannocchiale, ma poi si scusa e ci dice che ovviamente si tratta di una metafora, di un'impalcatura per reggere il suo discorso, si regge su un residuo, giacché qualcosa si è depositato in un tempo e in un modo che ricorda l'arcano dell'accumulazione del capitale. Ma questo grumo è interno, come le spiegazioni nella lavatrice, ed ecco un'altra illustrazione del discorso di Pinzi sulle qualità del duro e del molle: anche qui, o qui, il molle è l'interno dell'apparecchio, il vivente, la località psichica, e all'esterno il duro dell'impalcatura di cui Freud si scusava, la corteccia della lavatrice, il cuoio del cannocchiale, la pietra animata dall'interno, io vivo, io spiro, e 'ntanto così tacendo io canto. Anche la donna di pietra è insemi1tiata, è la statua appunto, che si gonfia, che cresce a dismisura, e qui la topologia isterica trova nell'essere incinta il suo tratto di perversione. Quando parlammo del « luogo della fobia » come del 11

punto di snodo e di origine, che si stacca dall'isteria d'angoscia, di tre connotazioni, della nevrosi che ne esce, della perversione che lo affianca, della psicosi che lo manca, e tuttavia tutte e tre lo rappresentano, parlammo, l'abbiamo ricordato poco fa, delle diverse modalità di identificazione sulle quali esse si reggono. Ebbene, una piccola parte di ciascuna è residuo per lo strutturarsi dell'altra. Possiamo dire per esempio che qualcosa della perversione concerne tutte e tre. Quando i fiorentini, come ci racconta Pinzi nel seminario che ci ha attraversato, tiravano sassi contro il David, grande, gigantesco, tutto bianco, così facendo, questo David veniva a rappresentare anche Golia, perché era tanto grande, e perché, evidentemente, i fiorentini gli tiravano sassi. Nella mia immaginaria illustrazione di Sussi e Biribissi, va bene, un dito scambievolmente puntato poteva rappresentare la metamorfosi avvenuta, il mutamento intercorso, ma restava pur sempre una commistione tra il grasso con il dito puntato e il magro con il dito puntato, giacché il nome, Sussi o Biribissi, all'inizio era stato connotato, per il magro di oggi, con la grassezza, e per il grasso di oggi, con la magrezza. Che tali spostamenti non siano da nulla lo vedremo in seguito, perché molto intorno al nome del padre e alla psicosi vi si articola. Del resto Carroll stesso (vedi L'oggetto della raffigurazione di Anceschi in questo numero) impedì di pubblicare l'illustrazione del mostro Boojum perché, diceva, se connotazione del suo apparire è lo svanire del suo scopritore dalla storia, il rappresentarlo in disegno nel libro comporterebbe la scomparsa del lettore. La didascalia sta per il margine dell'irrappresentabile, ciò che mi diceva un analizzante in difficoltà nel riferire un sogno: qualcosa tra la voce e la parola scritta. E dalla didascalia emergeva la dedica nascosta, all'analista che aveva scritto: « Lo scritto e l'a,-voce ». 12

Diciamo allora che didascalia, e dedica, rendono più familiare ciò che altrimenti avrebbe conseguenze terribili. Pena la scomparsa. Forse per questo Sterne, che tra l'altro, introduce tra le righe del Tristram Shandy, negli a-capo, proprio il disegnino a tutto nero di una mano con dito puntato, nel faticoso e duraturo, giacché gli occorrono parecchi volumi, venire alla luce dell'infante Tristram, al quale verrà dato per errore della domestica il nome più odiato dal padre, sente il bisogno di dedicare ripetutamente il suo libro a questo o a quello, e anche di sperimentare la Dedica Vergine, quella cioè in cui si può introdurre qualsiasi persona, a suo piacimento. E la storia di questa nascita, e di questa nominazione, non è continuamente riportata, come un respiro asmatico, all'istante di una generazione che fu, tragicamente, scambiata con la carica del meccanismo dell'orologio? Ma se tra Sussi e Biribissi s'infilava il gatto a redimer la questione, la funzione in Tristram Shandy dello zio Tobia non è meno importante. Di capitolo in capitolo, di interruzione in interruzione, la figura dello zio Tobia trova un suo spazio che a intermittenza riappare. Il nostro amico luogo della fobia, ed ecco zio Tobia, mentre Tristram cerca di nascere, di assumere un nome, e ancora di essere generato, costruire in fondo all'orto un luogo strano, fatto di fortificazioni mobili, di misurazioni, di sbarramenti, che permettono di individuare « dove » (dove l'aspirante consorte tremerà al pensiero di mettere un dito) zio Tobia è stato ferito. Ma questo di zio Tobia (e nel doppio senso del «dove» confluiscono filone dei ricordi e filone dei desideri, nel luogo della fobia, il disegno della mappa e il soprassalto della ferita), è uno degli hobby-horses degli uomini, gli hobbyhorses sapete, quei bastoni con teste di cavallo che usano i bambini ( « anzi, se tocchiamo questo argomento, signore, gli uomini più saggi di tutti i tempi, non eccettuando lo 13

stesso Salomone, non hanno forse avuto il proprio hobbyhorse: i cavalli da corsa, le monete e le conchiglie, i tamburi e le trombette, i violini, le tavolozze, i grilli e le farfalle? » }, gli « hobby-horses » che precedono la dedica in apertura e hanno il compito di illustrare (sei tu Sussi? sei tu Biribissi?) una, protesi e cavalli, denaro e tamburi, violini e farfalle, generazione, una nascita, più imparentata con « le tasse per l'ordinaria licenza », licenza per i nostri antecedenti, « ammontanti in tutto alla somma di diciotto scellini e quattro pence», ma su quest'altra didascalia, nostri antecedenti e funzione della dedica nella trasmissione, ci vedremo la prossima volta nel numero dedicato alla figura del maestro, con tasse, bastone e cavallo come sappiamo, che con l'oscura nostalgia di un grembo materno. Virginia Pinzi Ghisi 14

Disegni ai margini (Stendhal, Sterne, Freud) Dessin / dessein / destin: l'anfibologia felice fra disegno cioè immagine tracciata con linee e segni, e disegno in quanto progetto, intenzione, fa da ponte pure in italiano al terzo termine: destino senza il soccorso della quasi omofonia. Anche un destino si disegna, come dire che si sviluppa una certa linea nella quale s'equilibrano caso e necessità. Il disegno è ciò che, via via, appare. Nell'opporre Zeichen e Mal, Benjamin rimarca la relazione fra linea grafica e fondo - cui essa conferisce identità. Dunque, per il disegno,in quanto figura del costituirsi del soggetto, sarà sempre questione di nessi. Perfino quel prodotto particolare che viene definito « libro illustrato » parte da un problema di rapporto: rapporto fra disegni, dipinti, in generale immagini, che vi si intercalano, e testo scritto. Il più semplice, senza residui, è il nesso funzionale immediato: illustrativo o come preferirei dire, dimostrativo. Il disegno (comprendo sotto questo termine ogni forma di rappresentazione grafico-pittorica) illustra il libro, cioè somministra una traduzione visiva di ciò che il testo è supposto dire. In qualche modo interpreta il testo, e così si potrebbe anche parlare di un'ermeneutica visiva (o visibile). Gli esemplari più convincenti, in questo campo, sono fomiti dai romanzi d'avventura per ragazzi; penso come ad archetipi ai romanzi salgariani illustrati da Gamba o 15

Dalla Valle, ancora meglio alla serie dei Voyages extraordinaires di Verne, edizione Hetzel. Si tratta di dare visi ad eroi, come si dice, connotati alla pura vocalità dei nomi geografici. Ma il ragazzo-lettore è a sua volta un ermeneuta, spesso puntiglioso e intollerante. Per fortuna, questi illustratori procedono all'ingrosso, limitandosi saggiamente a definire blocchi di immaginario: essi non vogliono, in sostanza, dimostrare ciò che il testo racconta. Il rapporto rischia di diventare insopportabile quando l'illustratore si arroga un proprio discorso, sia pure servile, continuamente rincarato di tocchi, precisazioni, dimostrazioni. Ad ognuno scegliersi gli esempi: uno dei più clamorosi penso sia quello fornito dalle tavole di Gustave Doré per la «Commedia» (esattamente l'opposto di ciò che capita nel rapporto Blake-Dante). Infine il nodo testo/disegno si dissolve al limite, o almeno si fa ipotetico, nei libri che secondo una moda ancora viva - indotta spesso da motivazioni di mercato - accostano poesia o prosa a rappresentazioni grafiche che non si propongono nessuna finalità illustrativa, in genere nate al di fuori del testo che fiancheggiano. La congiunzione qui si fa in nome del concetto rischioso di aura? Le coincidenze felici sembrano piuttosto casuali. Il nesso riguarderà, se mai, il futuro, cioè s'ipotizzerà come punto d'incontro in un tempo logico che i due discorsi paralleli, e dunque congiungibili solo all'infinito, saranno chiamati a costituire. La validità di tale nesso discende dal « saranno», che non diventa mai un «sono». Volevo sgomberare in modo sommario il terreno, per dare un'occhiata alla zona intermedia fra questi due modi di connessione, che certo ho inurbanamente contratti e sterilizzati. Si danno fenomeni che non rientrano né sotto la rubrica del nesso illustrativo o ermeneutico, né sotto quella del nesso proiettato all'infinito. Penso ai grafi, disegni, schizzi immagini che fanno parte di alcune opere di 16

Freud, del Tristram Shandy di Sterne, dell'Henry Brulard stendhaliano, di quel librino bizzarro e un po' maligno che è Flatland di Abbott. Non sono i soli esempi citabili ma sono comunque esempi forti di ciò che intendo. Prendo la questione dall'estremità più semplice. I disegni, o sarebbe meglio dire gli schizzi o scarabocchi, di mano stendhaliana che imbottiscono la Vie de Henry Brulard hanno a che fare, si capisce, con il carattere di quest'opera. Basta dire che è un'opera autobiografica, sia pure sottoposta a tutte le deformazioni e a tutti gli spostamenti che il fatto stesso di essere stata scritta da Stendhal implica? Sono abbozzi di località, piante di abitazioni, mappe stradali, profili di oggetti o di elementi architettonici, ma anche simbolizzazioni grafiche che portano sui destini, le scelte, la successione cronologica etc. La prima, facile conclusione è che rappresentino altrettante pèzze d'appoggio che cauzionano o precisano i fatti narrati, non meno di un certificato di nascita o di matrimonio o di una fotografia. Ma per capire il nesso che li lega al fondo costituito dallo scorrimento della traccia mnestica (truccata) che è la scrittura dell'Henry Brulard, credo si debba porre mente alla struttura di tale fondo, come esso si tradisca nel mascherarsi, nei giochi degli anagrammi, dei depistaggi, delle sostituzioni letterali, insomma delle astuzie e puerilità stendhaliane - delle paure. Non c'è piacere più forte e autentico per Stendhal, che questa trepidazione che lo si scopra, e insieme che non si riesca a scoprirlo. Esso tocca a un turbamento così profondo ed essenziale, da rasentare la jouissance, esperienza che sta di là dal piacere. Quel « talent pour le dessin » di cui egli parlava, diventa una funzione dello scrittore. Se schizza place Grenette a Grenoble oppure la Corsia della Porta Nova a Milano, con la lettera H messa a segnare, come nelle foto documentarie di un delitto, il luogo dove stava lui stesso, Stendhal non intende magnificarsi in un « io c'ero! », autenticare il 17

ricordo per il lettore e/o per se stesso (sarebbe già un altro passo). Non è l'ambito della verità che entra in gioco, ma del desiderio e del piacere. « Ce que je sais parfaitement, ce sont les choses qui me font peine ou plaisir, que je désire ou que je hais ». Il disegno, eccolo convertito in destino. Esso presenta in forma di logogrifo, di paraffo, di sigla o formula personale, la sostanza reale della « vie de Henry Brulard ». Il disegno, beninteso, non risarcisce niente, non « sta al posto » di -. niente; ritrascrive la domanda con la quale si chiude il capitolo trentaseiesimo: « mais que dois-je donc désirer? » Uno scritto di Freud, Le bugie di due bambine, del 1913, gira intorno al legame fra colore (pittura), denaro, amore per il padre, disegno. Me ne servo per quell'ultimo tratto, che riguarda la piccola soperchieria di una ragazzina la quale, a scuola, _dovendo tracciare un cerchio a mano libera, ricorre invece, nascostamente, a un compasso - soperchieria subito scoperta. Non so quanto sia arbitrario partire di qui, ma forse non è importante saperlo. S'incontra la figura del cerchio, che è convenzionalmente il simbolo della perfezione geometrica, delle equidistanze infrangibili (nella bugia della bambina s'identificava con la perfezione patema...) Nella gerarchia sociale di Flatland o Flatlandia, paese a due dimensioni, i Cerchi o Circoli sono l'istanza massima, Preti « amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza », « causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che vien fatta da altri ». Il libro del reverendo Edwin A. Abbot, Flatland, a romance of many dimensions, uscito nel 1882 peraltro anonimo, non è certo dei più trafficati dal lettore, attualmente; a torto, perché rientra di diritto e con discreti risultati, in quella vena di pamphletismo matematico-simbolico, di caricatura giocata sui numeri della scienza o parascienza, dentro cui si alloga, per esempio, Swift non meno di Bu18

tler o di Carroll. Di Flatland uscì da noi una traduzione nel 1966, presso Adelphi, ed è a quella che faccio richiamo anche per l'apparato dei disegni, che credo non siano di mano dell'autore: ma trattandosi, nella quasi totalità, di disegni geometrici, la questione della « mano » perde rilevanza. Alla prima occhiata, questi disegni sembrano rientrare nella categoria delle « illustrazioni » in senso stretto, dei sussidi grafici che si aggiungono a un testo per chiarirlo e certificarlo. Sono mescolanze di poligoni, circoli, lunule, linee tratteggiate o continue, frecce direzionali, che vogliono rappresentare le procedure sensorie attraverso le quali gli abitanti del mondo bidimensionale di Flatland o del mondo unimensionale di Lineland, percepiscono i propri simili e in generale la realtà. Ma l'animus satirico che innerva il racconto di Abbott fa presto a mettere in crisi questo primo giudizio. In effetti, le figure qui raccolte non hanno una funzione dimostrativa. Che si tratti di figure geometriche è importante almeno nella misura in cui la geometria, come il disegno, si trova ad essere legata, non solo metaforicamente, ai modi della costituzione del soggetto. Le procedure privilegiate di riconoscimento reciproco, in Flatland, sono visive - il « tastarsi » è pratica insieme rozza e rischiosa, sdegnata dalla upper class. Ma appunto, parecchi dei grafici esibiti finiscono per assomigliare abbastanza all'apparato o modello ottico a specchi di cui si serve Lacan per significare i meccanismi dell'Ichideal e dell'Idealich, sia negli Ecrits sia nel Séminaire XI. Ma: vedere è non credere. Le macchinette abbottiane alludono a una geometria ilare e un po' demente, quantunque rigorosa; giocano a simulare un sapere. Il cerchio perfetto tracciato dalla bambina bugiarda dello scritto freudiano dichiara evidentemente un « saperci fare » - solo che è stato tracciato con il compasso, non a mano libera. 19

Quello che qui cade, intercorre, attiene alla verità e alla nevrosi. Ma anche le pseudogeometrie di Flatland raccontano una storia analoga: segni di una « pulsione di sapere », sono anche segni isterici. Le illustrazioni che chiamavo di « accompagnamento », rimandano a un sapere già stabilito, che viene convocato a favore di qualcuno. I disegni abbottiani non presuppongono nulla, fingono direttamente una mathesis mistificatoria, né somministrabile né apprendibile. Chi apprende che cosa? Il disegnino finale, en cul-de-lampe, iscrive in uno sbuffo di vapori che si disperdono il cartiglio: « L'edificio senza fondamento della mia visione si dissolve nell'aria, nell'aria sottile della stessa materia di cui son fatti i sogni ». Non pretendo che questa elencazione disegni (verbo quanto mai a proposito) una linea coerente di sviluppo, ma credo che metta in luce via via nessi di originalità crescente fra testo e immagine. Uno spoglio del Tristram Shandy a questo fine dà reperti non numerosi ma significativi. Alcuni usi sono, a rigore, ancora tipografici: piogge di asterischi, variazioni di corpi, maiuscole, spazi bianchi, intere pagine vuote intercalate; i capitoli XVIII e XIX dell'ottava parte mancano, ma un bianco ne evidenzia l'assenza. Un'altra pagina bianca al capitolo XXXVIII della parte sesta adempie a una funzione differente: somministrare carta al lettore che voglia schizzare, a suo gusto, la vedova Wadman - « please put your fancy in it » intima Sterne. Voltato appena foglio, ci si imbatte in cinque righe di ghirigori, quanto più capricciosi possibile, destinati a rappresentare il procedere della narrazione nei precedenti volumi. Siamo già fuori dagli stratagemmi tipografici; ancora di più con gli altri due inserti: il quadro nero che corrisponde al chiudersi degli occhi di Yorick morente; e il campione di carta marmorizzata che fa da paragone alla 20

� variegata struttura dello stesso libro che si intitola Tristram Shandy, in coda al XXXVI capitolo, parte terza. Per leggere correttamente l'uso di tali strumenti sterniani, bisogna non lasciarsi prendere dalle trappole dell'autore. Tutto si riduce ad una serie di trovate, giochi, battute spiritosi e sofisticati quanto si voglia, glossati o innestati al testo secondo capriccio, se non lo si veda come momento necessario di un sistema espressivo che è il sistema stesso della scrittura del Tristram Shandy. Sotto questo riguardo, il Tristram è il gemello, più ancora che la costola d'Adamo, del Finnegans Wake, «continuarration» parificatrice di qualsiasi eterità - scherzarade (la facies tipo-figurale del Finnegans andrebbe allora riconsiderata...). Il nesso di cui si parlava si è fatto stretto, e insieme tanto fluido, che sfido a scioglierlo senza arbitrio. La scrittura (nel significato tradizionale) del Tristram non dichiara affatto, come si potrebbe pensare, la propria impotenza da un certo punto in là; bensì la capacità di omologarsi ciò che non sarebbe suo. Le pagine marmorizzate, annerite o candide non vanno lette in verticale, che è la posizione propria della pittura, dell'illustrazione, ma in orizzontale, sito distintivo della scrittura. Nello stesso istante in cui corre lungo tale unità, il lettore percepisce la frattura; il nesso è ciò che ne sutura i lembi, senza abolirli. Il fascino del linguaggio narrativo di Sterne, che dura fino ad oggi, sta anche in ciò: nel dare visibilmente la struttura di tale integrazione. Quanto al caso Freud... Può sembrare un po' imbarazzante pensare a un libro di Freud come a un libro illustrato, a un « libro con figure ». Il rimando più speditivo, e distratto, è alla categoria delle opere scientifiche, dei manuali tecnici, nei quali grafici e schizzi aiutano a chiarirsi principi e procedure. Ma la psicoanalisi è una scienza parti21

colare, come particolari sono i modi della sua trasmissione: anzi, la problematicità di tali modi è un punto chiave del sapere stesso. Il rapporto disegno/testo vi si presenta dunque con una peculiarità e un rilievo incontestabili. Segno/disegno hanno a che fare con la clinica non meno che con la teoria psicoanalitica. Non voglio avviarmi in una direzione del discorso che porterebbe troppo lontano: già sulle colonne di questa rivista sono state offerte indicazioni da Virginia Pinzi Ghisi, nel n. 28 ad esempio, da Imre Hermann, nello stesso fascicolo, e poi da Sergio Pinzi nel volume Il mistero di Mister Meister. Mi contento di rimandare al rapporto con la perversione. In ogni caso è chiaro che ci si muove su un terreno che mobilita speciali convergenze ed effetti. Lungo la catena segno-disegno-destino emerge una serie di figure che riguardano l'analisi, il suo modo di sviluppo, la sua tecnica. Ho detto che nel filo del disegno qualche cosa si srotola. Il disegno fa ben di più che metaforizzare certi procedimenti, o certe reazioni psichiche. Esso non è separabile dall'idea di traccia, di luogo in cui la traccia deve apparire, di svolgimento, completamento o interruzione: ma così non si è fatto altro che enumerare alcune delle articolazioni fondamentali del campo psicoanalitico. Traccia, campo, destino sono, bene o male, i punti dai quali considerare il tipo di « illustrazione » - adopero per il momento il termine improprio - che troviamo in alcuni libri di Freud; se può sembrare che così sopravvaluto qualche aspetto di un uso meramente editoriale, non resta che correre il rischio, fino all'eventuale arbitrarietà. Passati in rivista, alcuni diagrammi intercalati alle pagine di opere quali L'interpretazione dei sogni (per esempio: quelli molto schematici che mostrano come l'apparato psichico riceva e registri le percezioni) o lo scritto Trasformazioni pulsionali particolarmente dell'erotismo anale (tavola delle interrelazioni feci-pene-bambino) sembrano muoversi da un livello abbastanza basso e semplice di significazio22

ne. Nella loro apparenza geometrizzante, potrebbero perfino venire avvicinati alle figure già considerate in Flatland. Con il disegno o mappa psichica che compare nel Progetto di una psicologia, là dove Freud analizza il caso di Emma, incapace di entrare in un negozio da sola, credo di poter dire che la tipologia cambi. Il disegno è per dir così personalizzato (di mano dello stesso Freud: assomiglia molto agli schizzi che costellano la corrispondenza con Fliess), e insieme determina ed occupa uno spazio narrativo, dove prende corpo fra conscio preconscio e inconscio, la storia di Emma. Per quanto sia arbitraria la pretesa (che del resto Freud ricusò sempre) di visualizzare una topologia dei processi primari, qui forse se ne può cogliere un abbozzo non troppo mistificatorio. Se da un lato un disegno come questo fa venire in mente certi schizzi stendhaliani del Brulard per la qualità di sigla o formula personale - come un tratto somatico incoercibile, un tic, un sintomo... - una lettura un po' meno superficiale ne coglie la netta diversità di funzione. Questa funzione ha radici - occorre ripeterlo? - nella specificità del sapere psicoanalitico, nel suo occorrere come teoria. Scarto quell'esempio di ilare divertimento didattico che è l'inserzione nell'Interpretazione dei sogni del cartellone da cantastorie preso in prestito a Ferenczi, anzi al giornale ungherese « Fidibusz », ad esplicitazione del simbolismo urinario, esempio che per l'assunto di questa nota ha rilevanza quasi nulla - e focalizzo invece i disegni che accompagnano il caso del piccolo Hans e la « rappresentazione grafica » della seconda topica, presente sia nell'Io e l'Es, sia nell'Introduzione alla psicoanalisi. Le piantine del deposito dell'ufficio delle imposte di consumo, con il cortile, il piano di carico etc, ben note ai lettori dell'analisi della « fobia di un bambino di cinque anni », sono la proiezione planimetrica di un momento del meccanismo fobico, un appunto grafico della scrittura so23

stitutiva del sintomo: designano, come ha detto molto bene Virginia Finzi Ghisi, il luogo della fobia - che non è naturalmente la strada di Vienna in cui abita Hans! Ma ancora più significativo si propone l'abbozzo della testa di cavallo che « ha una cosa nera sulla bocca ». Esso è, letteralmente, un simulacro, un eidolon - un fantasma all'interno del quale qualcosa si va elaborando. Ma che cosa? Credo che proprio qui si collochi quel nesso fra disegno e testo, che già ho cercato di individuare nei casi precedenti. La testa di cavallo rimanda a quella sorta di tubero dalle escrescenze sinistre (mi pare che Lacan l'abbia definito suppergiù in tal modo, comunque con una sorta di diffidenza, se non di disgusto...) che schizza, approssimativamente, i rapporti fra Io, Super-io ed Es. Non ho usato a caso l'aggettivo ;< sinistro ». Ci sarà un buon motivo del nostro disagio (non certo estetico!) davanti a questo disegno. Esso, nella lezione trentunesima (nuova serie) della Introduzione, è accompagnato da qualche riga cautelativa: « Desidero illustrarvi i rapporti strutturali della personalità che ho testé esposta in uno schizzo senza pretese... Oggi è certamente difficile dire fino a che punto il disegno sia esatto... » Nelle pagine de L'io e l'Es, si va oltre: « Si può abbozzare... una rappresentazione grafica che non ha la pretesa di fornire una particolare interpretazione, essendo intesa esclusivamente a facilitare l'esposizione... » Per una volta, non diamo retta a Freud: il disegno non funziona da puro appoggio alla comprensione dell'ascoltatore o del lettore, non è semplificazione grafica di un enuncia�o. Esso si esibisce, mi pare, come momento concreto, in atto, di una elaborazione teorica. Insomma: è la forma che si dà la teoria manifestandosi - in una lingua diversa, se si vuole, o meglio sarebbe dire: a un livello diverso. Ecco spiegate, forse, la bizzarra sensazione che il lettore prova imbattendosi in quella omelette o animella insi24

nuata nella composizione tipografica. Se prima si è parlato di sigle personali che iscrivono frammenti di realtà di desiderio; di simulazioni geometriche di sapere; di integrazione linguistica disegno/scrittura; a questo punto si potrà parlare di fenomeni di contatto peculiare con l'elaborazione teoretica: formulazioni visibili di teoria. Tutto riporta a diverse nozioni di nesso, che la concorrenza di disegno e scrittura mette in opera. Una pagina dell'Interpretazione è dedicata a quei sogni la cui chiarezza o indeterminazione non è che l'astuzia del lavoro onirico per manifestare i « pensieri del sogno»; nei quali, dunque, parte del materiale viene rappresentato nella forma stessa del sogno. Così, in un processo in qualche modo analogo, certe immagini nei libri freudiani disegnano, ossia designano un modo di formarsi del pensiero teorico che inventa la psicoanalisi. Per via assai sghemba e imprevista, arriva un'altra figurazione di Freud als Theoretiker. Giuliano Gramigna 25

I volti della sofferenza Quando tra il 1820 e il 1824 Géricault esegue i suoi dieci ritratti di folli « monomani » (se ne conservano cinque) 1 segna un momento essenziale nella raffigurazione degli « affetti », attualizzando l'antica dottrina dei « moti » e dei « caratteri » 2 e indicando alla scienza un campo naturale di rilievo delle espressioni concorde con la nascita della clinica. (tav. 1) Intendere i dipinti di Géricault è più agevole se si considera che committente ne è Georget, primario alla Salpetrière e sostenitore, nell'ambito della scuola di Esquirol del quale è stato allievo, di un metodo positivo anche in psichiatria 3 • Quale è il senso di tale passaggio e come è stato reso in immagini? Immaginiamo un dialogo tra Georget e Géricault. Il clinico novatore confida al pittore: « Pinel ed Esquirol hanno parlato di passioni, di sensi turbati. Ma nostro compito è riconoscere che questi quadri non sono solo il risultato di una storia alterata, di una 'alienazione', ma l'affiorare di un morbo, di una fisiologia alterata che si fa espressione alterata. L'espressione è così, un segno fisico, come gli altri che la semeiotica ha individuato, un segno come quelli descritti da Laennec per le affezioni del cuore e dei polmoni, o da Broussais per seguire l'andamento delle febbri ». L'invito del clinico risulta concorde alla prospettiva del 26

pittore. La dottrina cinquecentesca dei« moti», il repertorio fisionomico di Della Porta con la sua fortuna nella pittura secentesca, ma anche l'estetica neoclassica e protoromantica che seguono una morale nel filo di un evento, sono bruciati dallo sguardo naturale di Géricault, che è anche lo sguardo di Delacroix. Nella storia non si contemplano più né tesi etich � né agiografie né entusiasmi epici, come è stato per David e per Greuze, lo sguardo si posa tout court sui punti catastrofici che emergono violenti come le angosce laceranti della follia. Già negli studi per la « Zattera della Medusa» l'attenzione è rivolta alle pulsazioni della fisiologia, uniche a rendere la verità degli affetti estremi. Le sedute per ritrattare i « monomani», per cogliere nei loro lineamenti il processo nascosto che li anima, sono equivalenti alle sedute per appuntarsi gli spasmi dei corpi dei ghigliottinati. Gli eventi della storia non rivelano altra ragione se non lo spessore della fisiologia e vengono contemplati con l'attenzione« dal vero» che si affina nel teatro anatomico e nelle corsie della clinica. Le« fisiologie», sia pure di diversa tradizione ed estrazione, di Georget e di Géricault sono concordi nel proporre una rivoluzione nello sguardo, e quindi nell'intendere in modo inedito l'urgenza delle « passioni». Di tale« medicina delle passioni» (che ha molti referenti, dai Frank a Guislain a Descuret) si dovrà tenere conto quando si vorrà tracciare un profilo veridico della pittura dell'Ottocento, di quella storica in particolare. Gli artisti che hanno composto cicli barbarici e medievali, messo in scena i poemi di Dante di Tasso di Byron, e sollecitato esasperati esotismi hanno continuamente tenuto presente questo leitmotiv figurale degli affetti estremi, leitmotiv ovviamente corroborato dalla clinica della follia e dai suoi corredi illustrativi. (tav. 2) Se prendiamo l'esempio tratto da un rapporto di Santi 4, vediamo come retorica e clinica 27

degli affetti possano avere avuto, almeno per un attimo, eguale resa stilistica. Consideriamo ora l'altra linea del problema, sfogliamo l'album delle immagini che soccorrono la psichiatria nell'incontro con la follia, immagini che risultano necessarie al suo «sapere» e operare. Una prima notazione. Le trattazioni illuministiche, di fine '700, si pensi a Sementini, a Chiarugi, a Pinel non mostrano di avere bisogno di tavole per completare le osservazioni e le riflessioni cliniche. L'unica tavola che compare nel trattato di Chiarugi è un appunto di tecnica manicomiale con esempi di « contenzione » 5 • Eguale interesse ha il referto di Gualandi dal manicomio di Aversa 6 • Anche se la « sofferenza mentale » in queste riflessioni oscilla tra il corpo e l'anima e la sua storia, tuttavia l'idea dell'alterazione a restare dominante è quella meccanica. Tradurre in immagini la corrosione e lo stabilirsi di stati residui non pare rilevante. Significativo è il passaggio tra Philippe Pinel ed Esquirol. Le passioni acquisiscono una funzione preminente, saturano la dicotomia accennata, articolando corpo e anima e naturalmente fisiologia e storia. L'espressione del paziente, la sua facies, il suo habitus, divengono trasparenza di quella dinamica emotiva che è così importante riconoscere e ricostruire non solo ai fini di una classificazione ma soprattutto del « trattamento morale ». Le incisioni di Tardieu che corredano il trattato di Esquirol, 1838, (tav. 3) dichiarano con discrezione questa possibilità di raccordo tra fisiologia e storia e propongono una « visibilità » de�la malattia attraverso le espressioni. Alcune espressioni divengono paradigmatiche, caratterizzano le monomanie, tipizzano veri quadri clinici e l'incisore non scorda di collegare le figure al fondo isfituzionale che � lo spazio della loro ,rilevazione, campo del « savoir très specifique » 1 • Questo privilegiare l'immagine quale dato di incontro 28

clinico, di « Gefiihl », è ben presente nella coeva medicina tedesca ancora più incline a saldare in clima romantico sapere estetico e sapere della scienza. In questo senso si offrono i disegni di Fasi-Gessner 8 stabilendo una tradizione la quale si mantiene sino alle tarde incisioni che corredano il trattato di Leidesdorf 9 • Georget e Géricault radicalizzano l'indicazione di Esquirol e il peso naturale di questa intuizione dominerà la cultura d'Europa a livello figurale, proprio alimentando il tema romantico dell'artista turbato, si pensi a « Le désespéré » di Courbet, 1843, e alle derivazioni tedesche in Kaulbach, Feurbach sino a Bocklin 10• Prima però di seguire lo sviluppo naturalistico dell'immagine psichiatrica, bisogna riflettere su altri contributi notevoli, intenti a cogliere la struttura anatomo-fisiologica degli affetti. Anzitutto è da ricordare la ripresa, moderna e scientifica, della fisionomica che viene operata dalla frenologia. Per Gall, per Spurzheim, per Vimont, per Fossati, le ragioni delle passioni, di quelle normali e positive come di quelle patologiche e criminali, riposano nella morfologia del cranio e del cervello, secondo un criterio localizzatorio che peraltro influirà positivamente sullo sviluppo delle conoscenze deJla neuropsicologia e delle funzioni nervose superiori. Per questi autori le tavole risultano indispensabili per una conoscenza dei fenomeni che si ancora a una esplorazione dei dettagli anatomici. Molti, come Vimont, aggiungono un atlante al trattato 11• Anche nell'ambito della frenologia la proposta più originale si lega a un singolare rapporto tra scienza ed arte. Il figlio adottivo di Spurzheim, allievo dell'Accademia di Belle Arti, si dedica a volgere in immagini la dottrina frenologica 12 • E se· in questo testo molte sono le immagini statiche che non si discostano dalla consuetudine degli altri atlanti, innumerevoli sono gli elementi inediti. Già il ritratto di Spurzheim, che sigla la silloge, pone il medico tra i suoi 29

pazienti, quelli con lesioni organiche da un lato, quelli con deviazioni morali dall'altro, e indica un rapporto dialettico · tra due ambiti di patologia. Le alterazioni della morfologia, raffigurate quali stimmate o particolarità di lineamenti, (tav. 4) si collegano alle espressioni mimiche, epifenomeni delle emozioni e dei pensieri e indici dell'organizzazione del cervello. (In effetti nei trattati frenologici tardi l'attenzione cade più sulla fisiologia che non sull'anatomia dei centri nervosi). Il figlio adottivo di Spurzheim aggiunge così alla descrizione delle fisionomie una complessa drammatizzazione delle espressioni e dei caratteri, creando quadri illustrativi delle virtù e dei vizi, contemplando le scene della creatività e della« distruttività» (esemplari incisioni come« Bambini distruttori» e« Brigante italiano») (tav. 5 ) . Se merito della frenologia, con i suoi atlanti, è di riportare all'alveo della clinica la« fisionomica» e di fondare la morfologia dei dati clinici, è l'aspetto dinamico corrispondente alla fisiologia di Broussais 13 che deve essere reso tangibile all'osservazione e alla rappresentazione. Al riguardo Géricault offre un« dato limite» valendosi, ai limiti, del metodo. E tuttavia solo l'adozione di una tecnica nuova dà pieno conto di uno sguardo nuovo, e perché il naturalismo illumini con piena chiarezza la sua scena interviene la fotografia. I muscoli contratti, ancora percorsi da spasmi e fibrillazioni, che erano l'ossessione di Géricault, ritornano ad esse­ . re oggetto privilegiato per un neurologo rimasto del resto famoso per gli studi di patologia neuromuscolare: Duchenne 14. Duchenne conosce bene la resa degli affetti nel corso della storia dell'arte, cita con competenza dipinti e sculture, sembra convinto che il suo laboratorio elettrodiagnostico sia il naturale ampliamento di un atelier d'artista. Egli stimola gruppi muscolari o singoli muscoli o addirittura fasci di muscoH e costruisce come teoremi dei quadri mi30

miei, ne illustra la dinamica, ne illumina la genesi fisiologica. Fotograf,;t con cura, così nessun dettaglio va perduto. Sicuro delle sue ricostruzioni di modelli semplici, egli s'avventura nell'analisi e nella composizione di emozioni più complesse. Le istantanee vengono ripetute, si snodano in sequenze. E il laboratorio si trasforma in una scena, e Duchenne vi compare lui stesso, abile regista che veste e atteggia le modelle, e con gli stimoli di corrente, muove i volti al dolore e alla gioia, li anima di compunzione o di lubricità. L'artificio ambisce il prestigio del gran teatro, che non lascia intentata la stessa scena elisabettiana. Lady Macbeth con la tortuosa meccanica dei suoi sentimenti e con la precipitazione nella follia è protagonista di una indimenticabile sequenza. (tav. 6) Non a caso delle serie di Duchenne si ricorda Darwin nelle sue note sullo sviluppo psicofisico e i relativi modi di espressione, studio condotto con sottile intuizione parallela alle scoperte sulla biologia dell'evoluzione, trasferendo al campo degli affetti e delle passioni un inedito movimento 15• Le indicazioni a vedere nella genesi della sofferenza mentale turbe della fisiologia e ragioni di natura medicale, concretano negli studi clinici di Morel l'apertura al positivismo. Con Morel nelle riflessioni della psichiatria vengono anche comprese questioni d'ordine biologico e nel concetto di « degenerazione » si afferma una prospettiva evoluzionistica sui generis proprio perché ideologica e fatalistica. Nei suoi studi clinici, 1852, e poi nel trattato, 1860, Morel tuttavia, anziché orientare l'iconografia al naturalismo integrale permesso dalla tecnica fotografica, si mantiene fedele alla fissità iconica delle incisioni. Le tavole delineate da Thorelle per Morel (tav. 7) riprendono stranamente la tipologia della serie di Esquirol, mantenendo costanti anche le indicazioni dell'ambiente istituzionale. E tuttavia è ben presente nella commissione a Thorelle l'impegno a guardare alla tradizione frenologica, ampiamente presente 31

nell'atlante del 1857 curato da Morel a descrivere situazioni malformative e psichiatriche « organiche». Le incisioni si valgono delle stimmate frenologiche per definire un maggior realismo clinico, per connotare la follia di « deviazioni morbose », drammatizzando e tipizzando i ritratti come del resto ormai la pratica fotografica imponeva 1 •. Un crudo realismo che attesti la « degenerazione » continua non a caso nel trattato di Dagonet, 11 e poi sino agli studi clinici di Magnan 18 • Sia nell'iconografia di Dagonet sia in quella di Magnan le espressioni psicopatologiche sono presentate insieme a mostruosità e a manifestazioni organiche, in modo da accreditare insensib1lmente una convergenza tra due classi distinte di fenomeni. In Dagonet in una stessa tavola figurano il lipemaniaco, il megalomaniaco e un quadro di cretinismo gozzuto. Il seguito del positivismo continua questa tendenza a ridurre il dato psicopatologico alla malformazione, alla stimmate degenerativa, in una progressiva tendenza oggettivante e coartante della complessità delle alienazioni e dei loro affetti estremi. In tale prospettiva non è un caso che, anche in piena epoca di diffusione della fotografia, i positivisti, si pensi alla scuola di Lombroso, mantengano nel mettere in rilievo i segni delle « deviazioni morbose )) la stessa propensione all'incisione dimostrata da Morel. Sembra una scelta paradossale pensando a quanto rigore essi vogliano attenersi nella resa dei dati. Ma tutto ciò è poi ben comprensibile se si pensa all'uso « ideologico » che vien fatto di tale obiettività. L'imparzialità documentaria della fotografia risulterebbe non così convincente come la semplificazione del disegno. Ben diverso è lo sviluppo naturalistico che seguiamo in quella gran miniera di rilievi che è l'Iconographie de la Salpetrière. Nel vivaio neurogeno le cui figure si articolano nell'albero di Moreau de Tours, 1859, lo sguardo si posa e si esercita a distinguere, non secondo un'ipotesi precostuita come quella « degenerativa », secondo un metodo rigo32

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