Il piccolo Hans - anno XII - n. 47 - lug./set. 1985

tler o di Carroll. Di Flatland uscì da noi una traduzione nel 1966, presso Adelphi, ed è a quella che faccio richiamo anche per l'apparato dei disegni, che credo non siano di mano dell'autore: ma trattandosi, nella quasi totalità, di disegni geometrici, la questione della « mano » perde rilevanza. Alla prima occhiata, questi disegni sembrano rientrare nella categoria delle « illustrazioni » in senso stretto, dei sussidi grafici che si aggiungono a un testo per chiarirlo e certificarlo. Sono mescolanze di poligoni, circoli, lunule, linee tratteggiate o continue, frecce direzionali, che vogliono rappresentare le procedure sensorie attraverso le quali gli abitanti del mondo bidimensionale di Flatland o del mondo unimensionale di Lineland, percepiscono i propri simili e in generale la realtà. Ma l'animus satirico che innerva il racconto di Abbott fa presto a mettere in crisi questo primo giudizio. In effetti, le figure qui raccolte non hanno una funzione dimostrativa. Che si tratti di figure geometriche è importante almeno nella misura in cui la geometria, come il disegno, si trova ad essere legata, non solo metaforicamente, ai modi della costituzione del soggetto. Le procedure privilegiate di riconoscimento reciproco, in Flatland, sono visive - il « tastarsi » è pratica insieme rozza e rischiosa, sdegnata dalla upper class. Ma appunto, parecchi dei grafici esibiti finiscono per assomigliare abbastanza all'apparato o modello ottico a specchi di cui si serve Lacan per significare i meccanismi dell'Ichideal e dell'Idealich, sia negli Ecrits sia nel Séminaire XI. Ma: vedere è non credere. Le macchinette abbottiane alludono a una geometria ilare e un po' demente, quantunque rigorosa; giocano a simulare un sapere. Il cerchio perfetto tracciato dalla bambina bugiarda dello scritto freudiano dichiara evidentemente un « saperci fare » - solo che è stato tracciato con il compasso, non a mano libera. 19

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