La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

L. 10.000 n.5-6 I luglio-agosto 1995 LA TERRA VISTA DALLA LUNA Contiene: "suole di vento", rivis~adi e per i La violenza L'obiezione di coscienza I centri sociali Viaggi in I tali a Jack Frusciante e gli Alma Megretta --- MENSILEDIRETTODA GOFFREDOFOFI --- Aversa, città di confine un reportage fotografico di Angelo M. Turetta ~-h(~~

Interventi Franco Tatò A scopo di lucro Conversazione con Giancarlo Bosetti sull'industria editoriale pp. VIII-120, L. 18.000 Alberto Berretti Vittorio Zambardino Internet. Avviso ai naviganti pp. VIII-112, L. 16.000 Giovanna Zihcone U.S.A. con cautela Il sistema politico italiano e il moàello americano pp. 96, L. 16.000 Riviste Storica/1 Rivista quadrimestrale Coordinatore Marcello Verga pp. 216, L. 28.000 Meridiana/21 Melfi Rivista quadrimestrale Direttore Piero Bevilacqua pp. 290, L. 33.000 DONZELLI EDITORE ROMA Saggi Karl Polanyi Europa 1937 Guerre esterne e guerre civili Introduzione di Michele Cangiani pp. 96, L. 18.000 Narrativa Giovanni Orelli Il treno delle italiane pp. 128, L. 20.000 Paco Ignacio Taibo II La lontananza del tesoro Traduzione di Bianca Lazzaro pp. 344, L. 28.000 I centauri Lo Stato sociale in Italia Rapporto /ridiss-Cnr 1995 A cura di Enzo Barrocci pp. 550, L. 48.000 Biagio Salvemini L'innovazione precaria Spazi, mercati e società nel Mezzogiorno tra Sette e Ottocento pp. 200, L. 35.000 Libri di idee

LA TERRA VISTA DALLA LUNA Rivista d e I I ' i .n t e r v e n t o sociale ~ N. 5/6 luglio-agosto 1995 VOCI · Goffredo Fofi: Una rivista di e per i giovani (p.2), . · Alexander Langer. L'Europa muore o rinasce a Sarajevo (2), Predrag Matvejevic. Guerra e memoria (5); Antonio Cassese; a cura di V. VasicJanekovic: Cosa può essere la giu~tizia internazionale (7), Mimmo Càndito: Tre crisi: la guerra e l'Europa, l'Onu, gliUsa (11), · Marcello Benfante: L'uomo che arrestò Riina (26), Roberto Alajmo: La terra vista da Palermo (28), · Roberto Koch: Lezioni di giornalismo (30), Cyrus Cassels: La memoria di Hiroshima. Una poesia (52), Nicola Perrone: I sogni di un villaggio ideale (56), Andrea Berrini: La democrazia in.Africa (59). SUOLE DI VENTO/ GIOVANI '95 L'OBIEZIONE DI COSCIENZA Giulio Marcon: Obiezione di coscienza, disobbedienza civile (14), Piergiorgio Giacchè: Al servizio (civile) della coscienza (18), Bojan Aleksov: Testimonianze di disertori nella ex-Jugoslavia (19), Dario Sabbadini, Dino D. Taddei, a cura di G. Fofi: Obiettori totali (22). I GIOVANI E LA VIOLENZA Paolo Crepet:-L'identità perduta (31), Sandro Onofri: Ieri e oggi. I ragazzi della non-vita (33), Duccio Scatolero, a cura di G. Morbello: Politiche giovanili e criminalità (36), Andrea Beretta: Storia di Giacomo (38), S. Gazzelloni, R. Pastore, A. Torna: Le cifre della criminalità giovanile (40), Gian Cristoforo Turri: La violenza e la giustizia (42), Silvana Quadrino: Il male fuori, il male dentro (44), Carmen Bertolazzi: Dietro il muro. Testimonianze (46), Roberta Torre: Cosa pensano della mafia i bambini palermitani (48), Anna Viola: Comunità alloggio a Milano (50), LUOGHI E COSE Stefano Benni: Sala videogames (61), Emiliano Morreale: Gli "adulti" ci consigliano (62), GIRO D'ITALIA. Roberta Torre: Salemi. Angeli con la faccia storta (66), Luca Rossomando: Globuli rossi ad Aversa (67), Eleonora Scrivo: I pinguini di Reggio Calabria (70), Dario Lanfranca: Palermo. Minoranze sì e minoranze no (72), Giorgio Morbèllo: Torino. Storia di una radio libera (72), Piero Pugliese: Roma. Centri sociali e istituzioni (75),. Silvio Di Francia: Storia di una delibera (78), ' Luigi Manconi: Centri sociali. Trattare, senza farsi male (79), · MUSICA. Alma Megretta, a cura di M. Esposito: Marechiaro, Caraibi (81), Peppe Ajello: Autoproduzioni (83), GIOVANISCRITTORI. Filippo La Porta: I turbamenti del giovane Holden (87), Giuseppe Pollicelli: Ventenni degli anni Novanta (89), Enrico Brizzi: SuperBrizzi nelle Ardenne (90), GRUPPITEATRALI. Fabrizio Orlandi: Eran trecento (94), Cristina Ventrucci:·lniziative (96), Ferdinando Taviani: Sul modo di pensare i teatri (97). LEZIONI Nicola Chiaromonte: La rivolta degli studenti (100), Federica Bellicanta: Chiaromonte e il '68 (102), Ignazio Sifone: Una piazza è una piazza. Un inedito del '62 (105). IMMAGINI Angelo M. Turetta: Aversa, città di confine (tra le pagine 54 e 55). · La foto di copertina è di Marco Pesaresi. I disegni che illustrano questo numero sono di Gianluigi Toccafondo. Il ritratto di Arthur Rimbaud a pag.61 è di Paul Verlaine. · Direttore: Goffredo Fofi. Direzione: Gianfranco Benin, MarcelloFlores; PiergiorgioGiacchè,Roberto Koch, Giulio Marcon, Marino Sinibaldi. Segretaria di redazione: Monica Nonno. Redazione: Damiano D. Abeni, Robert~ Alajmo, Vinicio _Albnesi, Enrico Alleva, Lucia Ani:iu_nziata,i;;uido Armelini, Ada Becchi, Marcello Benfante, Stefano Benm, Alfonso Berardmell,, Andrea Beretta, Andrea Bernm, G1org10Bert, Lu1g1Bobb10, · Giacomo Borella, Marisa Bulgheroni, Massimo Brutti, Mimmo Cà.ndito, Francesco Carchedi, Franco Carnevale; Luciano Carrino, Francesco Ceci, Luigi Ciotti, Giancarlo Consonni, Mario Cuminetti, Paolo Crepet, Mirra Da Pra, Zita Dazzi, Giancarlo De Cataldo, Stefano De Matteis, Grazia Fresco, Rachele Furfaro, Giancarlo Gaeta, Fabio Gambaro, Saverio Gazzelloni, Rinaldo Gianola, Vittorio Giacopini, Giorgio Gomel, Bianca Guidetti Serra, Gustavo Herling, Stefano Laffi, Filippo La Porta, Franco Lorenzoni, Luigi_Manconi, Ambrogio Manenti, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Santina Mobiglia, Giorg10 Morbello, Cesare Moreno, Emiliano Morreale, Marco Mottolese, Maria Nadotti, Grazia Neri, Sandro Onofri, Marco Onorati,_Raffaele Pastore, Nicola Perrone, Pietro Polito, Georgette Ranucci, Luca·Rastello, Angela Regio, Bruno Rocchi, Luca Rossomando, Bardo Seeber, Francesco Sisci, Joaquin Sokolowicz, Paola Splendore, Andrea Torna, Alessandro Triulzi, Giacomo Vaiarelli, J'ederico·Varese, Pietro Veronese, Tullio Vinay, Emanuele Vinassa de Regny, Paolo Vineis. Grafica: Carlo Fumian. Hanno contribuito allapreparazione di questo numero: Pina Baglioni, Claudio Buttaroni, . . Giuseppe Citino, Miriam Chiaromonte, Pietro D'Amore, Stefano d'Atri, Rossella Di Leo, Ornella Mastrobuoni, Angelica Scutti, Emanuela.Re, Simona Zanini, il Centro studi siloniani di Pescina dei Marsi, Le edizioni "Il Mulino", Le riviste," A•," Alfazeta", "Ora d'aria" e "War Report". Numero cinque/sei in corso di autorizzazione dal tribunale di Roma. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Edizioni La Terra vista dalla Luna s.r.l. Redazione e amministrazione: via Cernaia 51, 00185 Roma, tel. 06-4467993 (anche fax). pistribuzione in edicola: SO.DI.P. di Angelo Patuzzi spa, via Bettala 18, 20092 Cinisello Balsamo (MI), · · te!. 02-66030 I, fax 02-66030320. · . [ T ' • I r

L'Europa muore o rinasce a Sarajevo Alexander Langer Cannes il 26 giugno 1995. Oltre cento rifugiati bosniaci che dall'Italia vogliono raggiungere Cannes restano invece bloccati alla frontiera di Ventimiglia; "ecco, ancora una volta l'Europa non ci vuole" è l'amaro commento. Una manifestazione di confine rende almeno visibile il lo~ ro intento. Alex Langer, dirigente dei verdi a Bolzano, parlamentare europeo, si è tolto la vita a Firenze il 4 luglio. Questo è stato, forse, il suo ultimo articolo. Lo ricorderemo sul prossimo nume'ro di "La terra vista dalla luna". • Cannes, giugno 1995 Siamo andati a Canhes, dunque, a manifestare davanti ai capi di stato e di governo, per la Bosnia-Herzegovina. "Basta con la neutralità tra aggrediti e aggressori, apriamo le porte dell'Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare a un punto di svolta!" Non eravamo tantissimi - qualche migliaio appena -, e dall'Italia prevalevano i pannelliani. Il grosso dei militanti della solidarietà per la èx-Jugostavia non avevano saputo e forse neanche voluto. Dalla Spagna, invece, sono venuti in parecchi, dalla Catalogna soprattutto; dalla Francia molti comitati, pochi o pochissimi invece da Belgio, Olanda, Svezia, Gran Bretagna e Germania. Dei parlamentari europei molti avevano firmato - la maggioranza dei verdi e dei radicali, significativi democristiani e socialisti, qualche esponente della sinistra, diversi raepresentanti dei berlusconiam europei ("Forza Europa!" ora integrati nei gaullist ), liberali e regionalisti. Tanti bei nomi tra I firmatari, dall'ex commissario Onu José Maria Mendiluce (socialista spagnolo) a Otto d'Asburgo, da Daniel Cohn-Bendit a·Michel Rocard ... Solo una ventina viene poi effettivamente a Dopo la manifestazione di massa ci riceve Jacques Chirac_in persona, una do~zin~ di noi vengono ammessi a riunirsi con lui mezz'ora prima dell'inizio del vertice: al nostro appello risponde che sì, liberare Sarajevo dall'assedio è una priorità, ma che non esistono buoni e cattivi, e che non bisogna fare la guerra. Ci guardiamo, la deputata verde belga Magda Aelvoet e io, entrambi pacifisti di vecchia data: che strano sentirsi praticamente tacciare di essere guerrafondai dal presidente neogollista che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esrerimenti nucleari francesi ne Pacifico! Ed ecco quanto avevamo elaborato e firmato in tanti: "Dopo tre anni tutti noi, umili o potenti, assistiamo al quotidiano ormai banalizzato di una guerra i cui bersagli sono donne, bambini, vecchi, suole di vento ... Avviamo con questo numero una sezione nuova della.rivista, che avremmo potuto chiamare - ma sarebbe stato banale e televisivo - " Pianeta giovani", e che abbiamo voluto chiamare, .in omaggio ad Arthur Rimbaud e alla sua idea di una gioventù mobile, aerea, alla scoperta del mondo, curiosa, generosa, sperimentatrice, radicale, rivoltosa, "Suole di vento". Due numeri fa alcuni dei nostri collaboratori più giovani discutevano di "la rivista che non c'è", lamentavano l'assenza di una rivista di eper giovani chefosse all'altezza dei dilemmi che si pongono alla gioventù nel mondo contemporaneo, delle incertezze anche tragiche in cui il mondo impone che crescanoe f acciano le loro scelte, spessotremendamente condizionate. "La Terra vista dalla Luna" vuole rispondere a questa mancanza - che meno di ogni altra cosa sembrano affrontare le "pagine giovani" dei quotidiani e dei settimanali, anche di quelli più "a sinistra", e le riviste "specializzate", pagine e riviste che sembrano soprattutto votate al consumismo o a varie consolazioni ifieolo_giche.TrOjJpospesso si tratta di pagine superficiali, perfino ingannatrici, amorali. Noi non siamo in grado di reagire adeguatamente, soprattutto non· abbiamo i mezzi e i sostegni per poterlo fare. Cionondimeno proviamo a YS.K1 reagire, e lo riteniamo un dovere. Così abbiamo discusso tra noi e abbiamo deciso:a) di rubricare sotto la voce "Suole di vento" quei dossier, quelle riflessioni e docum_entazioni a più voci che avremmo comurz:quepubblicato sulla rivista, riguardanti specificamente i giovani e il loro disagio;b) di affidare a una "sot;: to-redazione" (formata inizialmente dai nostri collaboratoripiù giovani, e tra loro dai più interessati ai problemi dei giovani) la cura di una parte della rivista, il più possibile assidua numero dopo numero, concernente la produzione culturale più interessante (al negativo o al positivo) proposta ai giovani e che riguarda i giovani, e quella invece_prodottaper i giovani dai giovani stessi;c) af}iancare a questo una riflessione - anche nel Jfalogo con i collaboratori più adulti - che riguardi le culture giovanili in sensopiù immediatamente antropologico: in particolare i modelli di comportamento, il sis!ema di valori cui i giovani si riferiscono. E così nata una piccola redazione-giovani, destinata a crescere,che ideerà questa sezione, che cercherà nuovi collaboratori, che affiderà loro inchieste e riflessioni, che discuterà al suo interno e con gli altri redattori la gestione di uno spazio, la proposta di argomenti, l'individuazione del discorso, le aperture da agire, le battaglie da intraprendere. E chissàche, prima o poi, non diventi finalmente possibile realizzare, a partire da questa esperienza pur minima e da questo piccolo gruppo che vuol crescere, la rivista che molti di noi da troppo tempo, magari dal tempo della loro gioventù, sono andati sognando. (G.F.)

deliberatamente· presi di mira da cecchini irraggiungibili o colpiti da obici mortali che sparano dal nulla. Ci volevano dunque tre anni e, soprattutto, una presa di ostaggi dei caschi blu, fatto senza precedenti nella storia della comunità internazionale, perché leadership politiche e media europei riconoscano che in questa guerra ci sono aggresS?r~ e aggrediti, criminali e vittime. , Tre anni di una politica inutile di ".neutralità" che ci ha privato di ogni credibilità pres- · so i bosniaci e di ogni rispetto da parte degli aggressori. Ormai siamo arrivati a un punto di non-ritorno. O tiriamo le conseguenze che si impongono e rafforziamo la nostra presenza - mandato dei caschi blu, presa di posizione netta di fronte agli aggressori - e, in fin dei conti, rifiutiamo di essere complici della strategia di epurazione e di omogeneizzazione della popolazione della Bosnia, oppure cediamo al ricatto intollerabile delle forze serbo-bosniache, ritirandoci dalla Bosnia e infliggendo così alle azioni unite la loro più grande umiliazione proprio mentre si celebra il cinquantenario della fondazione dell'Onu. Oggi più che mai in passato dobbiamo armarci di dignità e di valori. E soprattutto ripetere quel "mai più" che risuona in tutta Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Oggi più che mai in passato dobbiamo difenderci, in Bosnia, contro coloro che spingono all'epurazione etnica e religiosa come ideale politico e lo impongono perpetrando crimini contro l'umanità. Se la situazione attuale è il risultato delle politiche disordinate, rinunciatarie e contraddittorie dei nostri governi, l'Unione europea in quanto tale è rimasta muta, impotente, assente. Bisogna che l'Europa testimoni e agisca! Bisogna che grazie all'Europa l'integrità del territorio osniaco e la sicurezza delle sue frontiere siano finalmente aranti te. Ma ciò non ~,·no.n più sufficiente. Per recuperare un credito assai largamente consumato, l'Unione europea deve oggi dar prova di un coraggio e un'immagiriaz10ne politica senza prece- .:lentinella sua storia. L'Europa può farlo, l'Europa deve farlo. Lo deve tanto ai bosniaci quanto a se stessa. Perché ciò è condizione della sua rinascita. Andiamo dunque in tanti a Cannes a manifestare ai capi di stato e di governo che: - le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, in particolare quelle che garantiscono il libero accesso degli aiuti alle vittime, devono essere applicate; - l'assedio a Sarajevo e alle altre città accerchiate deve essere levato e le zone di sicurezza effettivamente protette; - i caschi blu non devono essere ritirati, il loro mandato non deve essere ristretto, al contrario la presenza internazionale in Bosnia va rinforzata; - di fronte a una poli:tica di sedicente neutralità, noi stiamo dalla parte degli aggrediti e delle vittime; - nello spirito di solidarietà che deve animare l'Europa che noi vogliamo, la repubblica di Bosnia-Herze$ovina, internazionalmente riconosciuta, venga invitata ad aderire pienamente e immediatamente all'Unione europea. L'Europa, infatti, muore o rinasce a Sarajevo." Tuzia, maggio 1995 Esattamente un mese prima era stata bombardata la città di Tuzia: di una generazione si è fatta strage, oltre 70 giovani ammazzati durante il passeggio, centinaia di altri giovani feriti. Quattro giorni prima avevo congedato il sindaco (musulmano e riformista, cioè socialdemocratico) Selim Beslagic, dopo averlo accompagnato per diversi giorni - insieme al deputato Sejfudin Tokic; suo compagno di partito -, a Strasburgo, a Bolzano e a Bologna. Il sindaco Beslagic e l'amministrazione "civica, non etnica" di Tuzia - come fieramente amano definirsi - sono considerati universalmente come riferimento di pace e di convivenza, di democrazia e di tolleranza. Bene: il giorno dopo il cannoneggiamento della sua città, Beslagic mi ha inviato per fax copia del suo messaggio al Consiglio di sicurezza dell'Onu con la preghiera di diffonderlo al Parlamento europeo. "Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non vi rendiate conto." E se a Strasburgo, a Bolzano e a Bologna avevamo lavorato con gli ospiti per portare verso la sua realizzazione l'apertura di una "ambasciata delle democrazie locali" a Tuzia (ne esiste già una a Osijek) e per progredire con. altri progetti (acquedotto, parti di ricambio per fabbriche, impianto de-ionizzatore, scambi di giovani eccetera), di colpo tutto questo perdeva non poco senso e speranza: a che poteva servire tutto ciò, se l'aggressione finiva per seminare l'odio etnico a Tuzia come a Mostar? Si può fare qualcosa? Certo, soluzioni facili non esistono. E guardarsi indietro serve a poco: non si troverà convergenza tra chi (come il sottoscritto) è convinto che l'Europa abbia fatto malissimo a favorire la disintegrazione della vecchia Jugoslavia e chi invece accoglieva con entusiasmo le proclamazioni di nuove indipendenze (anche da sinistra: il vocabolo magico "autodeterminazione nazionale" aveva un forte corso legale in molti ambienti democratici e di sinistra). Così bisognerà trovare una linea di demarcazione che aiuti a scegliere chi e cosa sostenere, chi e cosa contrastare: Questa linea non separa di per sé i serbi dai croati o i cosidetti musulmani da entrambi, ma potrebbe essere un'altra: è la distanza che separa le diver:.. se politiche del!'esclusivismo etnico (epurazioni, espulsioni, omogeneizzazione nazional'e, ghettizzazione, discriminazione e oppressione delle minoranze, integralismo etnico o religioso...) dalle politiche della convivenza, della democrazia, del diritto, della possibilità di essere diversi e far parte di un ordinamento comune, con pari dignità e pari diritti, e senza che trovarsi in minoranza debba essere una disgrazia cui sfuggire quanto prima attraverso la costituzione di un'entità in cui si sia maggioranza. Nella direzione di quanto si può fare per ricostruire condizioni di convivenza possibil~, vi sono alcuni passi necessan. Tutti includono, innanzitutto, che si lavori non "per", ma con gli ex-jugoslavi, e una proposta, una politica sarà tanto più credibile quanto più riuscirà a convincere insieme dei democratici serbi e croati, bosniaci e macedoni, albanesi

e sloveni, ungheresi e istriani. Bisognerà quiridi considerare: ,:-Ristabilire il valore del diritto: non deve stupire l'insistenza di tanti cittadini del1' ex-Jugoslavia sul Tribunale internazionale per i crimini contro l'umanità! La separazione delle responsabilità individuali dalle generalizzazioni etniche o politiche e la supremazia del diritto contro l'arbitrio (e quindi la possibile tutela dei deboli contro i forti) è di cruciale importanza. Come può altrimenti rinascere la fiducia i'ri un ordinamento giusto? Quante volte nell'est europeo si chiede "quali sono le norme europee, quali sono gli standards europei?" per affrontare questo o quel problema! Si vuole una legge che· non sia fatta e imposta semplicemente dal più forte. ,:-La politica di pace più efficace è oggi l'offerta di integrazione: più che qualunque proposta o piano di pace, funziona il semplice invito "vieni con noi, unitevi a noi". La smania degli europei del1 'Est di entrare a far parte della Nato_ si spieg~ f~cilmente come ncerca d1 sicurezza (e in fondo la Nato è riuscita. contemporaneamente a contenere greci e turchi!). Se si vuole promu.overe pace in una -regione nella quale la precedente casa comune si è dissolta, l'offerta più credibile è quella di entrare sotto un tetto comune più ampio e meno condizionato dai rispettivi nemici preferiti. Ecco perché a tutti i paesi successori dell'ex-Jugoslavia bisogna aprire le porte dell'Euro~ pa, a condizione che scelgano la convivenza, al posto dell'esclusivismo etnico, lo stato democratico invece che etnico. (Naturalmente questa prospettiva implica che si lavori forte alla costruzione · della casa comune europea, e che l'Unione europea come tale evolva rapìdamente in tal senso.) ,:-Offrire il massimo sostegno a chi decide di dialogare, a chi sa reintegrare: tutte le cosiddette trattative di pace hanno, in realtà, rafforzato i . signori della guerra, legittimando la loro leadership, consolidando il loro potere, emarginando i loro avversari democratici. Niente o quasi è stato fatto, invece, per sostenere le forze del dialogo, della reintegrazione, della ricer~ \IO('/ ca di soluzioni comuni. Bisognerebbe definire dei veri e propri "premi o incentivi di reintegrazione" (bonus) e sanzioni all'esclusione etnica (malus); sostenere, per esempio, quei comuni che permettono il rientro dei profughi o qut::!i.gruppi che organizzano iniziative pluri-.etniche o pluri-confessionali o quei mezzi d'informazione che ospitano anche voci degli "altri", eccetera. Anche il sostegno ai disertori del conflitto, a coloro che sottraggono la loro forza personale alla guerra (e per questo meriterebbero l'asilo politico), dovrebbe far parte di questa strategia. Bisogna che il dialogo paghi e porti riconoscimenti e sostegni, e che l'esclusione etnica invece si attiri sanzioni e conseguenze negative. . ,:-Massimo sostegno quindi alle diverse reti organizzate che ricostruiscono legami: dai networks di studenti e professori ai gemellaggi tra città, dai comitati per i diritti umani alle organizzazioni degli operatori dell'informazione. Molto potrebbe e.ssere fatto anche tra l'emigrazione ex-jugoslava. · · ,:-Il ruolo della prevenzione del conflitto: ci sono oggi situazioni di pre-guèrra, dove l'esplosione violenta del conflitto può essere, forse, ancora evitata (Kosovo, Macedonia, Vojv:odina ... ), ma dove occorre concentrare grande attenzione, forte presenza internazionale, intensa opera · politica e civile. In questi casi si tratta di influenzare l'evoluzione delle cose in un senso o nell'altro, e nulla dovrebbe essere troppo complicato o troppo "costoso" per non essere tentato, visto che in ogni caso un conflitto armato comporterebbe costi umani, politici, economici e matenali assài più alti. Sostenere in queste regioni le forze della possibile convivenza e scoraggiare l'esclusivismo etnico, dovrebbe avere oggi un'alta priorità . nell'opera di pace. ,:-Perché non organizzare almeno una parte del volontariato in corpo civile europeo di pace? Esistono oggi•decine · di migliaia di volontari della solidarietà con l'ex-Jugoslavia, che in questi anni hanno accumulato conoscenze ed esperienza. Molti di loro sono frustrati dall'essere un po' come la Croce rossa che può solo assistere le vittime, senza fare nulla per fermare la guerra. Oggi c'è una forte domanda politica· nel volontariato, molti non si accontentano della funzione di tampone che oggettivamente ricoprono. Perché non trasformare questa straordinaria esperienza in un "corpo europeo civile di pace", adeguatamente riconosciuto e organizzato e assunto da parte dell'Unione europea per svolgere - sotto una precisa responsabilità politica - compiti civili di· prevenzione, mitigazione e mediazione dei conflitti, attraverso opera di monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul territorio, promozione di riconciliazione o almeno di ripresa di contatti o negoziati eccetera? Il Parlamento europèo si è recentemente (18-5-1995) pronunciato in favore di un simile "corpo civile europeo di pace", e nulla potrebbe meglio assomigliargli che la ricca e diversificatissima esperienza del volontariato europeo per la exJugoslavia, che in quasi tutti ì paesi ha sviluppato straordinarie capacità, iniziative, competenze e generosità. Ma... Resta tuttavia un "ma" ed è quel "ma" da cui prende l'avvio l'appello di Cannes. Se, infatti, non arriva qualche segnale chiaro che l'aggressione non . paga e che a nessuno può essere lecito partire per le proprie conquiste territoriali e conseguenti omogei:ieizzazioni etniche, allora ogni altro sforzo civile si. sgretola o si logora. A Sarajevo la parola Europa è ormai associata alla parola cetnik, e nulla nella politica europea lascia pensare che davvero si preferiscano stati democratici piuttosto che etnici. · Chi non vuole prendere atto di questa realtà, continua a mettère sullo stesso piano Karadzic e lzetbegovic (come fa ormai "Il manifesto") e sveni:ola il pur assai promettente inizio di dialogo tra moderati bosniaci e serbi moderati di Palè come dimostra- . zione che esisté un'alternativa a ciò che viene chiamata la militarizzazione del conflitto: Con che faccia continueremo a blaterare di Onu e Osce come futura architettura di pace e di sicurezza, se poi i soldati dell'Onu diventano ostaggi e il loro mandato consente loro solo la forza necessaria per proteggere se stessi e i loro compagni? •

Guerra e memoria Predrag Matvejevic (traduzione di Egi Vòlterrani) Predrag Matvejevic, è autore di Mediterraneo e Lettere dall'altra Europa, editi da Garzanti. Insegna attualmente alla "Sapienza" a Roma. • Saranno verosimilmente dei tribunali internazionali a giudicare i criminali della guerra di Ju_goslavia,ormai ex Jugoslavia. E difficile immaginare che gli stati che si sono formati in quelle regioni consegnino ! colpevo!i, Sare~be necessario rovesciare pnma coloro che oggi detengono il potere. E questo non capiterà spontaneamente. Popoli e individui, per quanto separati, ne subiranno tutti insieme le conseguenze. · .Non è possibile valutare alla stessa stregua ogni fase di quella guerra e neppure coloro c~e_vihanno preso _parte.~ll'i~ mz10, quando Milosev1c e 1 suoi fanatici partigiani hanno attaccato la Slovenia e la Cro~- zia, si trattava di un conflitto tra nazioni, o Stati, che avevano concezioni diverse della Jugoslavia o della sua costituzione: federalismo, autonomia, secessione. L'aggressione della Bosnia da parte di Serbi e Montenegrini, come poi quella dell'Erzegovina da parte dei Croati, ha assunto caratteristiche di suerra civile e etnica. Nel territorio segnato dallo scisma cristiano, dove si sono confrontati Bizantini e Latini, ortodossi e cattolici, e poi il cristianesimo con l'islam, le contrapposizioni religiose hanno riacceso odi latenti: si tratta, in qualche caso, di una guerra · di religione che si vorreboe dissimulare. Regolamenti di conti, nazionali, etnici, civili, religiosi e d'altro genere, avevano già insanguinato quei paesi durante la·Seconda guerra mondiale, e hanno lasciato tracce nella memoria. La guerra di oggi è buona parte il proseguimento di qu_elledi all'?ra; Ceti:u~ie U:stascia sono nappars1 m pnmo piano sulla scena, con le loro ideologie fanatiche e le loro pratiche di morte, la storia e la vita in comune non hanno cancellato i ricordi dolorosi. Nell'ex Jugoslavia, anche la guerra fredda, per certi aspetti piuttosto particolari, continua in modi meno evidenti che in altre regioni dell'Europa dell'Est. Un numero rilevante di ex-comunisti, anche in un paese dove erano nel loro insieme considerati "revisionisti", diventano nazionalisti, come del resto capita altrove. Il loro modo di pensare, chiuso su se stesso, e il loro asservimento guasi religioso ai loro scherru di riferimento li portano a quel comportamento. Un ex-stalinista diventa facilmente neo-fascista. Anche il carattere dei belligeranti è via• via cambiato. Al momento dell'intervento, relativamente anodino; contro la Slovenia, in seno all'Esercito Popolare Jugoslavo c'erano ufficiali e soldati sin~ ceramente convinti di difendere la Jugoslavia nelle sue frontiere, e insieme a loro c'erano invece quelli che non cercavano altro che la conservazione dei loro privilegi di casta, favorita dal regime precedente, A mano a mano che la suerra_ si estend_e"'.a,i mil\- tan croati e sloveni s1sono visti esclusi da quell'esercito. In Bosnia-Erzegovina, ovviamente, non c'erano più Bosniaci e musulmani e neppure Albanesi, Ungheresi o rappresentanti di altre minoranze nazionali. Vista la frenesia che animava sempre di più gli aggressori, quegli ufficiali serbi e montenegrini che non. condividevano le macabre fantasie dei loro capi sono stati, anch'essi, allontanati. Alcuni di loro si sono suicidati. In questo modo la composizione dell'esercito è stata modificata. In esso si sono infiltrate unità "paramilitari", reclutate senza alcun controllo, mercenari e criminali comuni. La soldataglia che. infierisce in Bosnia ha inalberato, con orgoglio e arroganza, gli emblemi di un nazionalismo estre~ mista. Dopo tutte quelle epurazioni non si poteva più pretendere che l'Esercito Popolare Jugoslavo fosse sempre lo stesso, quello nato con la Resistenza, che contava nei suoi ranghi, in partenza, membri di tutte le nazionalità e minoranze nazionali. I mezzi di comunicazione, per quanto attentamente predisposti a racçogliere con precisione le informazioni, riescono difficilmente a circoscrivere o a delimitare l'avvenimento della guerra in tutte le sue dimensioni. Di qui nasce l'ambiguità del di corso sull'ex Jugoslavia sia all'estero che all'interno del paese stesso. Su questo punto Clausewitz ci ha messi in guardia in un modo che non ha ancora perso niente della sua attualità: "Un evento, che non sia ricostruito con cura in ogni sua parte, è come un oggetto visto da troppo lontano: si presenta nello ·stesso modo da tutti i punti di vista, e _non se ne possono distinguere le parti nella loro disposizione ... E difficile ricostruire e rievocare g\i eventi storici in modo da poterli usare come prove. È facile perdere di vista questa difficoltà quando si tenta di definire la vera natura degli avvenimenti Jugoslavi e più in particolare di quelli che si verificano in Bosnia-Erzegovina, la propaganda nel paese, diffusa con gergo burocratico che potrebbe essere tanto comunista quanto nazionalista, "utilizza come prove" eventi strumentalmente e consapevolmente mal "ricostruiti". Un linguaggio ambivalente, quello di cui si valgono numerosi osservatoti stranieri, confonde asgressori e aggrediti, as edianti e assediati, così come confonde sanzione con intervento, trattative con dialogo. Non è più necessario ripetere cose già ben note, e cioè chi ha commesso il maggior numero di crimini, aperto i primi campi di concentramento o praticato "l'epurazione etnica". Resta certo che è stata la Bosnia-Erzegovina a soffrire di più. Ha versato più sangue di qualsiasi altro popolo nella storia degli Slavi del Sud: ancora di più dei Croati in quest'ultimo onflitto, più dei Serbi nella Seconda guerra mondiale. Una propaganda tendenziosa e ma'ssiccia, soprattutto d'ini-

ziativa serba, poi anche croata, ha presentato i musulmani bosniaci come "fondamentalisti" o "integralisti", "minoranza islamica del cuore dell'Europa cristiana". Né leprime centomila vittime, e neppure buona parte delle seconde centomila, sono state sufficienti per smentire quella menzogna. Non bastava che un milione di rifugiati avesse dovuto abbandonare le proprie case, bisognava che ce ne fosse un altro milione. Non c'è più stato un Santic I di fronte all'esodo dei musulmani ad alzare la voce per gridare: "Resta.te qui". D'altra parte il suo grido sarebbe stato vano: gli imprudenti che avesserpdeciso di restare sarebbero immediatamente diventati vittime. Il monumento che era stato eretto a quel bardo è stato abbattuto. I nuovi Ustascia hanno addirittura profanato la sua tomba. In seno all'intellighenzia, così spesso tradizionali ta e frustrata, sono rari coloro che pongono i valori dell'umanità al di sopra del nazionalismo. Per qualcuno sarebbe un atto di tradimento. Così la cultura nazionale si trasforma in ideologia dellanazione. Lascio agli intellettuali serbi la cura di denunciare i crimini innumerevoli e orribili .perpetrati in nome della "Guerra Serba", a cominciare dal tristemente noto "Memorandum" dell'Accademia Serba che ha fornito all'aggressione il suo programma. Per farlo, dovranno fare ricorso a una critica radicale, simile a quella che hanno saputo mettere in atto i più grandi spiriti della loro nazione. Mi riferisco a persone quali Svetozar Markovic, o Iovan Skerlic, o Marko Ristic, o, infine, nel corso di questa guerra, a Bogdan Bogdanovic e al "Circolo di Belgrado", troppo debole e soffocato dai media per essere ascoltato. Forse è la prima volta nella sua sto'ria che un popolo che ha combattuto con onore e coraggio per la propria ~opra':iv~nza si è la~ciat~ trascmare, ms1eme con 1 suoi fratelli montenegrini, in un'avventura vergognosa e abietta. È inammissibile, lo so, mettere sullo stesso piano da una parte il popolo che subisce le conseguenze di questa tragedia, e dall'altra i mandanti e gli esecutori di questi misfatti, si tratti della Croazia di Pavelle, ieri, oepure, oggi, della Serbia di Milosevic. Bisognerebbe, per cominciare a sciogliere questi nodi gordiani, che ciascuno dal canto suo si interrogasse, senza autogiustificazioni, sulla propria parte di colpevolezza o di responsabilità. Simili "traditori" del nazionalismo sono rari in ciascuna delle nazionalità ex Jugoslave. Il loro lavoro è ingrato e malvisto. È stato difficile mettersi sempre e soltanto dalla parte qelle vittime indipendentemente dalla loro origine, sia a Vukovar che a Dubrovnik, sia a Sarajevo che a Mostar. Dapprima ho perso la maggior parte dei miei amici serbi, quelli che non volevano "abbandonare i loro fratelli" o che trovavano altri alibi per non dissociarsi dalla politica dominante. Quando mi sono schierato dalla parte della Bosnia e di "Sarajevo, capitale del dolore" molti amici croati mi hanno voltato le spalle. L'emigrazione volontaria, o se si vuole una posizione "tra l'asilo e l'esilio" che spesso ho evocato, mi è sembrata moralmente meno compromet-· tente. È tuttavia, lo so, un modo forse inevitabile di trarsi fuori. In Herzer-Bosnia, dove sono nato e che ho sempre considerato come parte integrante della BosniaErzegovina, una e indivisibile, è scorso il sangue. Citerò in questa circostanza certi eventi che mi sembrano riassumere questa guerra nel suo insieme o esserne aspetti paradigmatici, senza pretendere di "ricostruirli in tutte le loro parti" come vorrebbe Clausew1tz. È stato l'eserciro che si dice Jugoslavo, comandato da ufficiali serbi fedeli al regime della "nuova Jugoslavia", che ha cominciato a distruggere Mostar. All'inizio i musulmani, i cattolici e gli ortodossi che abitano quella città, rispettivamente Bosniaci, Croati e Serbi, hanno sofferto insieme. Una parte dell'esercito croato, chiamato a difendere legittimamente il "suolo natale", si è ben presto rivoltata contro i su01 alleati musulmani, la cui solidarietà pareva sospetta. Quei difensori sono diventati a loro volta aggressori, poi: un buon nume- · ro di essi, seguendo una politica sbagliata e una predisposizione male orientata, sono andati oltre, fino a indossare di nuovo nere uniformi fasciste, e a intonare vecchi canti di guerra, ustascia. I Serbi di Mostar hanno dovuto per primi lasciare la città sulla N ereiva, fossero o non fossero legati alle brigate cetniche, che sprofondavano pesantemente nel crimine. La maggior parte dei cittadini serbi non aveva niente da spartire con quelli, ma ciò non è stato assolutamente mai preso in considerazione dai loro avversari. Gli estremisti di Herzeg-Bosnia se la sono presa sistematicamente con i musulmani,. continuando a f ersegui tarli e a massacrar i, a razziare i loro beni e a mettere migliaia di uomini in campi di concentramento all'eliporto, a Gabela, a Dretely o a Ljubuski, proprio vicino al santuario della Vergine di Medjugorié. C'era chi credeva di potersi giustificare ricordando che i Serbi erano stati i primi a costruire campi del genere, a Omarska, Magnatcha, Trnopllié, Cerska, come se i delitti degli uni potessero diminuire o rendere meno gravi quelli degli altri. Sulla riva sinistra della Neretva, gli abi.tanti, prevalentemente di origine musulmana, hanno vissuto, inflitto dagli ustascia, un calvario paragonabile a quello dei Serbi nel 1941. Donne, bambini e vecchi erano trattati da "balis" 2 da nazionalisti che nei loro confronti non avevano maggiore tolleranza di quanta ne avessero i nazisti con gli ebrei. Le moschee dell'Erzegovina sono state rase al suolo, proprio come quelle della Bosnia dove i cetnici hanno compiuto le loro devastazioni. Persino il vecchio ponte di Mostar, miracolo dell'architettura ottomana, dai tempi di Solimano il Magnifico, è stato distrutto. Il responsabile di un simile gesto criminale è stato ricompensato pubblicamente. Il presidente della repubblica croata l'ha promosso generale e l'ha inserito, non senza cinismo, nella delegazione che lo accompagna in occasione della sua "visita di riconciliazione" in BosniaErzegovina, nell'estate del 1994. Non dimentico nemmeno certe azioni di vendetta di cui furono vittime croati innocenti, originari della stessa Erzegovina, della Bosnia centrale o della Slovenia. I Bosniaci non potranno dimenticare né perdonare il male che è stato loro fatto. Sapranno dominare la loro ostilità nei confronti dei loro carnefici o la loro sete di vendetta? Non sarà facile. È tuttavia probabilmente il solo modo di scongiurarne la me-

moria. I popoli dell'ex Jugoslavia sono condannati a vivere sullo spazio che la storia ha loro assegnato, siano essi riuniti in uno stesso Stato oppure separati gli uni dagli altri. Non c'è altro luogo per loro, nessuno è in grado di proporgli un paese disposto ad accoglierli. Sarebbe il caso di rifarsi ali' esempio di quelli tra i nostri antenati che, durante la Seconda guerra mondiàle e la Resistenza, hanno saputo comportarsi con buon senso e spirito di fratellanza? Questa scelta è difficile da riproporre, dal momento che le esperienze comuni sono state gravemente compromesse. Dopo le ferite che sono state loro inflitte, i Bosniaci musulmani o laici cercheranno, sicuramente con maggiore energia e risoluzione, di affermare la loro identità. Tra loro ci sono sempre stati spiriti disposti ai compromessi dettati dalla loro situazione e dalla collocazione tra Serbi e Croati. Tra l'altro saranno obbligati a valutare le alternative che si offrono al mondo islamico che li ha sostenuti: islamizzare la modernità o modernizzare l'islam. Queste due prospettive difficilmente possono collimare. Solo 9.uest'ultima scelta sembra imporsi. Essa deve essere compiuta nella coscienza degli individui e del popolo, in un ambiente eterogeneo e diffidente. Le comunità laiche prevalgono oggi su quelle a base religiosa: si tratta di trarne tutte le conseguenze. Sarà possibile superare tutti questi ostacoli, con forze affievolite dalle prove affrontate? È in questi termini che si pongono le questioni della coesistenza in Bosnia e in certe altre regioni dell'ex Jugoslavia. Come disarmare una memoria vendicativa? È questa la prima e può essere l'ultima questione del grande dibattito che si deve aprire e dal quale dipende il nostro avvenire. ote 1 Alekea Santic: f oeta serbo, orto a Mostar ne 1924. Dopo la caduta dell'impero ottomano della Jugosla-via, supplicava i Musulmani della Bosnia Erzegovina di non emigrare in Turchia. 2 "Bali", rozzo contadino turco, er estensione appellativo peggiorativo per tutti i musulmani. • Cosa può essere la giustizia internazionale Antonio Cassese a cura di Vanessa Vasic]anekovic (traduzione di Elena Fantasia) Antonio Cassese, ex professore di Diritto Internazionale, è presidente del Tribunale Criminale Internazionale per la ex Jugoslavia. L'intervista che segue - inedita in Italia - è stata pubblicata sul numero di Maggio 1995 di "War Report". • La risoluzione 808 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha costituito il 23 febbraio 1993 il Tribunale Criminale Internazionale per la ex Jugoslavia. Facendo appello al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il Tribunale si propone di "perseguire legalmente le persone responsabili di gravi violazioni della legge umanitaria internazionale" nell'ex Jugoslavia dal 1991. Il suo scopopiù in generale è di contribuire a ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Hanno contribuito alla formazione di questa corte internazionale, la prima dopo i tribunali di Norimberga e di · Tokyo, due tipi di pressioni. La prima era uno studio decennale affrontato da esperti in diritto internazionale, provenienti dalle Nazioni Unite e dal mondo accademzco, sui metodi per far rispettare l'assetto costituitosi dopo la seconda guerra mondiale e altri trattati internazionali, in particolare la convenzione di Ginevra. La seconda pressione · era ovviamente il ·continuo versamento di sangue nella ex Jugoslavia, in special modo le rivelazioni dell'agosto 1992 dei campi di detenzione serbi nel nord della Bosnia, e inoltre la crescente sensazione nelle popolazioni che questi crimini non sarebbero stati puniti. Incapace di intraprendere un'azione più energicaper ridurre il conflitto, il Consiglio di Sicurezza emise alcune risoluzioni, come la 771, che esprimevano allarme per i rapporti sulle diffuse violazioni del diritto internazionale e che si rivolgevano agli stati membri per raccogliere più informazioni possibili su questo genere di violazioni. La risoluz ione 780, dell'ottobre 1992, ha costituito una commissione di esperti, presieduta dal docente di legge Cherif Bassiouni dell'università St. Paul di Chicago,per raccogliere prove e dare suggerimenti. Ha presentato il suo resoconto all'inizio di febbraio. Nel frattempo Francia, Italia e Svezia !Janno preparato esaurienti studi sulla possibilità di giudicare presunti crimini nella ex Jugoslavia, mentre i 28 stati membri delle Nazioni Unite, la Svizzera, la Commissione internazionale della Croce Rossa, alcune organizzazioni non governative e altri esperti hanno inviato suggerimenti e consigli. Come indicato nella risoluzione 808, il 3 maggio 1993 il segretario generale Boutros BoutrosGhali ha presentato il suo rapporto sulla formazione del Tribunale, includendo la prima stesura di uno statuto, la proposta per una sua organizzazione, una discussione sulla bas~ legale, le finanze e l'ubicazione. Con l'approvazione unanime di questo rapporto da parte del Consiglio di Sicurezza, nella risoluzione 827 del 25 maggio 1993, è sorto il Tribunale. La risoluzione chiedeva "a tutti gli stati di cooperare pienamente con il Tribunale Internazionale e i suoi organi in cònformità della presente risoluzione e dello Statuto del Tribunale Internazionale". Anche se salutata con ottimismo generale, la sua costituzione ha sollevato anche alcune domande. La natura ad hoc del Tribunale - concentrato su una.guerra e, cosa discutibileper alcuni, sui crimini · commessi da una parte - potenzialmente contraddice l'ideale di un corpoperma,nente fon dato da un patto interna-

zionale e che potrebbe avere una visione più vasta (e più bilanciata?) dei crimini di guerra. Anche se appoggiava la risoluzione, la rappresentanza cinese al Consiglio di Sicurezza ha rilevato che la risoluzione "non osserva il principio della sovranità giuridica dello stato. " Tali questioni fanno emergere lo scopo centrale del Tribunale, ossia mobilitare l'intervento obbligatorio mediante il capitolo VI I della Carta delle Nazioni Unite. In termini pratici, sancire un tratt;ato internazionale sui crimini di guerra della ex Jugoslavia non sarebbe mai stato possibile. Ma è la natura vincolante della Carta delle Nazioni' Unite che garantisce gli estesi poteri del Tribunale, e la facoltà di costringere gli stati membri a procurare polizia e prigioni, emettere mandati di cattura ed estradare gli accusati. Nella giurisdizione criminale, la corte ha un ruolo punitivo. Fino a che punto il Tri- ·bunale avrà la possibilità di puniré coloro che trova colpevoli di crimini-di guerra? Sarà possibile mettere in atto tali misure solo a processo concluso. A differenza di quanto capita nei tribunali locali noi non abbiamo una nostra forza di polizia, e non possiamo emettere mandati di cattura. Dopo aver emesso la:· sentenza, il nostro Tribunale potrà prendere le misure punitive, ma solo attraverso le prigioni dei paesi che si sono offerti volontari per ospitare i prigionieri, paesi come la Germania, la Bosnia, il Pakistan, la Danimarca, la Svezia e altri. Una volta emessa la sentenza noi controlleremo le condizioni del luogo di detenzione. Oltre a punire i colpevoli, il Tribunale ha.altri propositi? Sì, vorremmò agire da deterrente. Per fare questo, però, dovremo conquistarci una credibilità, mediante l'efficienza e l'imparzialità. Solo se ci vedranno veramente interessati ad amministrare la giustizia potremo agire come deterrente. - Credo che siano gli individui a dover essere f uniti e i gruppi sollevati da fardello della colpa collettiva. Non tutti i serbi, o i croati, o i mussulmani sono malvagi. Un gruppo non dovrebbe essere VQ_C! considerato responsabile dei crimini di singoli individui. Il nostro compito è quello r di amministrare questo tipo di giustizia. Questo è il fondamento morale logico alla base del Tribunale. So che non si può realizzare un compito del genere in poco tem- · po. Tuttavia, gradualmente, la gente si renderà conto che noi siamo imparziali, che vogliamo davvero fare giustizia, che non abbiamo intenzione di punire un particolare gruppo. Quando questo avverrà sarà molto importante, non solo per la ex Jugoslavia, ma anche per altre zone, dove esiste il pericolo che si commettano gli stessi crimini. Allora forse le persone ci penseranno due volte prima di commettere atti atroci contro l'umanità. Il giudice Goldstone, rispondendo a una domanda sulla possibilità di offrire immunità ai leaders in cambio dell' accordo sulla pace, ha detto che, teoricamente, il Consiglio di Sicurezza potreb- . be riscrivere lo statuto del Tribunale. Lei pensa che questa minaccia possa considerarsi reale? Certo, il nostro rapporto con il Consiglio è molto importante, visto che siamo un organo sussidiario. Ha messo in piedi il Tribunale e può eliminarlo quando vuole. D'altra parte, posso essere ingenuo, ma credo che il Consiglio non riscriverebbe il nostro statuto per condonare i crimini commessi o ordinati da qualche leader. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza si troverebbero ad affrontare l'opinione fubblica, perché una cosa de genere sarebbe peggio che non avere costituito per niente il Tribunale, sarebbe un gravissimo passo indietro. L'unico modo che hanno di impedire l'azione giudizia- . ria sarebbe tagliare i nostri fondi, ma non penso che lo faranno. Eventualmente potrebbero ridurre il nostro budget, ma non tagliarlo drasticamente. Un altro modo è dire "Va bene, avete fatto il vostro lavoro, adesso lasciateci terminare il nostro mandato", e poi decidere di scioglier e il Tribunale. Ma anche questa possibilità mi sembra · -remota, politicamente e psicologicamente. La decisione di costituire il nostro Tribu- · nale ha avuto un effetto ridondante. Quando si mette in movimento un processo che avrà un fortissimo impatto sul!' opinione pubblica s1è tenuti a costituire un tribunale militare permanente. Poi per i politici diventa difficile arrestare l'intero processo. E sicuramente, molto dipende da noi, se saremo abbastanza seri, professionali, imparziali e indipendenti. Posso dire che tutti i giudici sono ansiosi di dimostrare che lo siamo, a differenza di Norimberga e. Tokyo la nostra giustizia non guarderà l'interes_se di alcuni paesi, ma l'interesse dell'umanità. Non saremo assolutamente influenzati. Alle Nazioni Unite si sta disèutendo sul modo di finanziare il Tribunale, se debba essere un budget regolare proveniente dalle Nazioni Unite, o se debba essere considerata un 'operazione di mantenimento della pace. Questa discussione sembra sottintendere altri problemi, cioè se il Tribunale debba essere controllato dall'Assemblea Generale o dal Consiglio di Sicurezza, con i suoi cinque diritti di veto. Non la considera una possibile minaccia? L'Assemblea Generale ha ragione, e parlo come studioso, non come Presidente del Tribunale Internazionale, quando dico che è competenza dell'Assemblea decidere sui finanziamenti. L'articolo 17 della Carta delle Nazioni Unite conferisce chiaramente il potere di decidere sui finanziamentì ali'Assemblea Generale. Quindi il Consiglio di Sicurezza ha torto, visto che adottando lo statuto si è deciso anche il criterio di finanziamento e si è stabilito che la durata e le condizioni delle nostre mansioni siano uguali a quelle dei membri della Corte di Giustizia Internazionale. Si è verificato uno scoritro tra il Consiglio di Sicurezza e . l'Assemblea Generale, ma, come ho detto, la decisione sui finanziamenti spetta ali' Assemblea Generale, questo dice la Carta delle Nazioni Unite, ed è quello che si sta cercando di fare. Anche riguardo al metodo di finanziamento c'è stato disaccordo tra i cinque membri del Consiglio di Sicurezza, che vogliono che il Tribunale sia finanziato da un budget regolare, e l'Assemblea Generale, in par-· ticolare i paesi in via di sviluppo, ·che lo vorrebbero finanziato come una sorta di

operazione per il mantenimento della pace. Qual'è la differenza? Il budget normale e tutte le spese sono proporzionalmente divise tra tutti i membri delle Nazioni Unite, inclusi i paesi in via di sv~luepo. ~el caso delle operaz10ru per il mante-· nimento della pace o di un "conto specifico", ci sono quattro cat.egorie, A, B, C, D: i paesi sviluppati sono nella categoria B, e in ogni caso devono pagare. La categoria ·A è quella che comprende i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che devono pagare di più per il mantenimento della pace, al contrario dei paesi in via di sviluppo che non devono pagare neanche un penny. Questo è il punto della contesa, ma si tratta anche di una questione di principio perché, posso sbagliare, ma sono stato informato da persone a New York che la somma in discussione si aggira intorno a un milione di dollari per il biennio 1994-1995. on è molto, e mi hanno assicurato che giungeranno a un accordo per l'inizio di luglio. Personalmente non sono così preoccupato per il nostro budget perché, anche se l'Assemblea Generale non ha ancora deciso, abbiamo ricevuto _daloro aiuti finanziari provvisori, che hanno sempre coperto le spese. In altre parole, ci hanno dato i soldi che abbiamo chiesto, solo che il periodo che coprivano non era di due anni, ma di tre o sei mesi per volta. Ma abbiàmo avuto per tre mesi, una somma che avevamo richiesto per, diciamo, dodici mesi. Lei sta affrontando molti problemi, legali, amministrativi:-- quali sono quelli più importanti, e si aspettava una situazione del genere quando ha accettato l'incarico? Se avessi immagi~ato eh: avremmo avuto tutti questi problemi non avrei mai accettato di diventare né un giudice, né il Presidente! D'altro Ganto ero, fin dall'inizio, animato da considerazioni morali, e nonostante l'enorme numero di problemi, sento di aver fatto la scelta giusta accettando questo pesante fardello, e andrò avanti, lavorando. giorno e notte, perché lo considero un serio impegno morale. La dimensione morale è di estrema importanza. Possiamo provare àd aiutare le povere persone che stanno soffrendo, e che aspettano che qualcuno si muova. Certo, nessuno di noi si aspettava di· dover affrontare tutti questi problemi logistici, finanziari, politici. Non dico legali perché sapevamo che avremmo dovuto cominciare dal nulla, che avremmo dovuto abbozzare un nuovo codice di procedura criminale, costruire le infrastrutture di base, e così via. Fortunatamente il periodo di queste difficoltà iniziali è passato, ora possiamo iniziare il nostro compito, quello di fare processi. Che tipo di p~oblemi politici avete avuto. Ci sono stati alcuni governi che hanno ostacolato le vostre operazioni? · Non abbiamo avuto problemi d'interferenza. Nessun governo, nessun membro delle Nazioni Unite ha mai osato interferire con la nostra azione. Siamo stati pienamente rispettati, fin dall'inizio, nella nostra indipendenza giudiziaria, e abbiamo goduto del pie-. no sostegn_o del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Senza il suo aiuto non so se saremmo riusciti ad andare avanti. Siamo stati sostenuti anche dal consigliere legale di Boutros Boutros Ghali, il dottor Core!!. Anche altre potenze hanno dato il loro appoggio. Non c'è stata alcuna interferenza, siamo fortunati e dobbiamo felicitarci che non ce ne siano state. In ogni caso, abbiamo la sensazione che al-. cuni paesi ci abbiano sostenuto più di altri, e se ci fosse stato un sostegno maggiore all'interno delle Nazioni Unite, probabilmente, avremmo proceduto più rapidamente .. È questo il nostro problema. I miei colleghi a volte mi dicono che sono impaziente, perché mi domandavo sempr_e:perché non procediamo più velocemente? Visto che c'è un tale imperativo morale per il quale abbiamo il dovere di amministrare la giustizia, mi sentivo frustrato a vedere che ci muovevamo così lentamente. Certo, se ci fosse stato un maggiore sostegno politico nelle Nazioni Unite e anche da parte di qualche stato membro, sono sicuro che le cose sarebbero andate diversamente. Comunque, la cosa importante è che non ci sia stata nessuna opposizione, nessuno stato ha cercato di ostacolare, indebolire o rallentare questo processo. Avrebbero potuto essere più disponibili, nient'altro. La e.o~ sa buona è che da parte dei .giudici, il Pubblico Ministero e il cancelliere, c'è sempre stata una forte volontà, e la convinzione di andare avanti, nonostante tutti i problemi, . È questa la ragione che ha spinto i giudici a chiedere di velocizzare il processo? Sì, a luglio del 1994 la risoluzione da noi adottata e consegnata al Presidente dell' Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza a New York voleva comtmicare un preciso messaggio. Ossia: "Ascoltate, noi stiamo facendo del nostro meglio, stiamo lavÒrando sodo per erigere le strutture necessarie al Tribunale, ma non siamo ancora in grado di iniziare i procedimenti criminali. Non perché siamo pigri, niente affatto, stiamo lavorando sodo, bensì perché ci sono problemi a New York, perché voi non accordate un bilancio appropriato. Non abbiamo un Pubblico Ministero, ecc." Il nostro era una sorta di appello morale ai membri delle Nazioni Unite, alla madre e al padre, l'Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza per dire loro: "Vogliamo lavora"re, ma voi ci dovete dare gli strumenti necessari." Il messaggio è stato ricevuto, e ora non ci danno solo gli strumenti finanziari, ma hanno anche nominato il Pubblico Ministero e stiamo procedendo. Qualcuno potrebbe mettere in discussione la legalità e la legittimità del Tribunale.

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