La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 2 - marzo 1995

Narrativa J. l\1· Coetzee ETA DI FERRO pp. 192, L. 30.000 Traduzione di Carmen Concilio Olivier Rolin PORTSUDAN pp. 112, L. 22.000 Traduzione di Maria Baiocchi Il fondaco di MicroMega Romano Prodi GOVERNARE L'ITALIA Manifesto per il cambiamento pp. 80, L. 10.000 Saggine Piero Bevilacqua VENEZIA E LE ACQUE Una metafora planetaria pp. 144, L. 16.000 Biblioteca Bolingbroke L'IDEA DI UN RE PATRIOTA A cura di Guido Abbattista pp. 256, L. 38.000 BibliotecaGinoBianco DONZELLI EDITORE ROMA Interventi Raffaele Brancati LA QUESTIONE REGIONALE Federalismo, mezzogiorno e sviluppo economico pp. 120, L. 18.000 Centauri A.a.V.v. IL WELFARE ITALIANO I sistemi di solidarietà sociale A cura di Vittorio Cotesta Introduzione di Giuseppe Barbero pp. 300, L. 40.000 Gianfranco Dioguardi ORGANIZZAZIONE COME BRICOLAGE Complessità, cultura, decisione, impresa, modello, organismo pp. 300, L. 35.000 Saggi Rosi Braidotti SOGGETTO NOMADE Femminismo e crisi della modernità A cura di Anna Maria Crispino pp. 144, L. 32.000 Stefan Breuer LA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE Il pensiero di destra nella Germania di Weimar Traduzione di Camilla Miglio pp. 224, L. 38.000 Libri di idee

LA TERRA VISTA DALLA LUNA Rivista dell'intervento N.2, marzo 1995 VOCI sociale Gruppo Abele: Politiche irrinunciabili e irrinunciabilità della politica (2), Marcello Benfante: Vent'anni di "Segno" a Palermo (6), Filippo La Porta: L'orologio di noi impiegati (7), Guido Armellini: Scuola. La smania della valutazione (26), Mimmo Càndito: L'Onu ha cinquant'anni (37), Johan Galtung, a cura di Sergio Andreis: L'Europa e il mondo. Nuovi scenari (38), Franco Ruffini, Ferdinando Taviani: Teatro. I sommersi e i salvati (56), Marcello Flores: Letture. Foa padre e figlio sul destino della sinistra (59), Vittorio Giacopini: Letture. Il pensiero anarchico è ancora attuale? (61). NORD E SUD LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Giorgio Cingolani, a cura di Santina Mobiglia: Viaggio nello sviluppo umano (9), Antonio Perna: Ong, Terzo Settore e mercato globale (20), Nicola Perrone: La cooperazione giusta e quella sbagliata (11), Rosario Lembo: Strumenti di solidarietà. L'esperienza del Cipsi (22), Angelo Fanucci: Mi querido Penipe (24). BUONI E CATTIVI SCUOLA E CULTURA IN CARCERE Silvana Marchioro: Chi insegna a chi? (28), Andrea Beretta: Giovani a San Vittore (33), Mario Cuminetti: La città-carcere (35). PIANETA TERRA EX JUGOSLAVIA Ambrogio Manenti: La situazione e gli interrogativi di fondo (43), Giulio Marcon: Pacifisti in ex Jugoslavia (48), Guido Bazzocchi: Loro e noi (50), Virginio Colmegna, a cura di Zita Dazzi: Aiutare: il problema è "come" (52), Luigi Lusenti: La guerra dei media (54). NUMERI OGGI IN ITALIA Saverio Gazzelloni, Raffaele Pastore, Andrea Torna: Economia e lavoro: una nuova fase (65). LEZIONI Colin Ward: Mutuo soccorso. Lo stato dei poveri (76), Alf anso Berardinelli: Sull'utilità di descrivere ciò che si vede (79). IMMAGINI ]osef Koudelka: Paesaggi di guerra. Mostar (tra le pagine 42 e 43). La foto di copertina è di Angelo Turetta. Le foto della sezione Numeri sono di Gianni Berengo-Gardin. I disegni che illustrano questo numero sono di]osé Munoz. Direttore: Goffredo Fofi. Direzione: Gianfranco Benin, Marcello Flores, Piergiorgio Giacchè, Roberto Koch, Giulio Marcon, Marino Sinibaldi. Segretariadi redazione: Monica Nonno. Collaboratori: Damiano D. Abeni, Roberto Alajmo, Vinicio Albanesi, Enrico Alleva, Lucia Annunziata,Guido Armellini, Ada Becchi, Marcello Benfante, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli, Andrea Beretta, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Luigi Bobbio, Giacomo Borella, Marisa Bulgheroni, Massimo Brutti, Mimmo Càndito, Francesco Carchedi, Franco Carnevale, Luciano Carrino, Francesco Ceci, Luigi Ciotti, Giancarlo Consonni, Mario Cuminetti, Paolo Crepet, Mirta Da Pra, Zita Dazzi, Giancarlo De Cataldo, Stefano De Matteis, Grazia Fresco, Rachele Furfaro, Giancarlo Gaeta, Fabio Gambaro, Saverio Gazzelloni, Vittorio Giacopini, Rinaldo Gianola, Giorgio Gomel, Bianca Guidetti Serra, Gustavo Herlins, Stefano Laffi, Filippo LaPorta, Franco Lorenzoni, Luigi Manconi, Ambrogio Manenti, Bruno Mari, Roberta Mazzant1, Santina Mobiglia, Giorgio Morbello, Cesare Moreno, Emiliano Morreale, Marco Mottolese, Maria Nadotti, Grazia Neri, Sandro Onofri, Marco Onorati, Raffaele Pastore, Nicola Perrone, Pietro Polito, Georgette Ranucci, Luca Rastello, Angela Regio, Bruno Rocchi, Luca Rossomando, Bardo Seeber, Francesco Sisci, Joaquin Sokolowicz, Paola Splendore, Andrea Torna, Alessandro Triulzi, Giacomo Vaiarelli, Federico Varese, Pietro Veronese, Tullio Vinay, Emanuele Vinassa de Regny, Paolo Vineis. Grafica: Carlo Fumian. Hanno contribuitoallapreparazionedi questonumero: Paolo Areni, Pina Baglioni, Claudio Buttarqni, Marco Carsetti, Giuseppe Citino, Pietro D'Amore, Sersio Lenci, Ornella Mastro buoni, Piero Pugliese, Emanuela Re, Antonio Scnvo, Simona Zanini. Numero due in attesa di autorizzazione dal tribunale di Roma. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Edizioni La Terra vista dalla Luna s.r.l. Redazione e amministrazione: via Cernaia 51, 00185 Roma, tel. 06-4467993 (anche fax). Service editoriale Donzelli editore. Distribuzione in edicola: SO.DI.P. di Angelo Patuzzi spa, via Bettala 18, 20092 Cinisello Balsamo (MI), · tel. 02-660301, fax 02-66030320. Stampa: Sti!Graf della San Paolo Tipografica Editoriale - Via Vigna Jacobini, 67/c - Roma Bi-=--=--=-=-=-=-=:-==-=~~-=-=--=~c:--::-:-=--F_iru_·_to_d_i_st_a_m_p_ar_e_n_e_Im_es_e_d_im_ar_z_o_l_99_5 _ _ _ _ _ __ __ ~

Strada facendo. Politi'che irrinunciabili e irrinunciabilità della politica Gruppo Abele Il documento che riproduciamo è il risultato di una riflessione collettiva svolta all'interno del Gruppo Abele, a partire da un'esperienza trentennale di lavoro nel campo del disagio e dell'emarginazione. Queste riflessioni ci riguardano e ci coinvolgono e ci sembra importante che i nostri lettori possano conoscerle. Il Gruppo Abele ha sede in Via Giolitti 21, 10123 Torino. ♦ Siamo partiti sulla strada, nell'incontro con chi vive situazioni di disagio e sofferenza, dalla voglia di ascoltare, di capire e di condividere la fatica di tanta gente e di ricercare insieme soluzioni possibili. La strada, luogo di povertà, di bisogni; di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione, è un elemento costitutivo della nostra identità e il punto di riferimento del nostro lavoro. Qui abbiamo imparato a confrontarci con l'incertezza, con la complessità, con i tanti volti della povertà. Ci siamo educati a non selezionare i compagni di viaggio, nel dialogo e nella responsabilità reciproca. Con il passare degli anni il nostro impegno ha assunto forme e modalità differenziate, nello sforzo e nella convinzione della necessità di coniugare accoglienza e giustizia. Questo ·ha significato rispondere ai problemi sempre nuovi espressi da chi vive esperienze di emarginazione e intervenire sui processi sociali, culturali e politici che determinano queste condizioni di povertà. L'identità del Gruppo Abele si è così progressivamente definita e rafforzata come soggetto politico e culturale, come esperienza radicata nel territorio e interagente con le altre realtà del pubblico e del privato sociale, come punto e snodo di una rete soci al e in grado di produrre s· l'.QQ ,caGinoBianco progetti di cambiamento( ...). In questo ultimo periodo ci siamo di nuovo interrogati sul senso che hanno per noi la "strada" e la "città". Questo ci ha ulteriormente spinto a individuare e definire l'impegno politico come carattere essenziale del nostro agire. È questa una riflessione che si pone coerentemente come sviluppo ed esito dell'azione critica esplicata lungo tutti gli anni Ottanta. Non ci siamo, infatti, piegati alla richiesta di chi, in quegli anni, ci invitava a non fare politica, a delegare agli esperti l'interesse per la cosa pubblica. Non abbiamo dunque voluto stare al di sofra delle parti, rinunciando a nostro compito e alla nostra responsabilità di donne e uomini, di cittadini solidali. Né siamo rimasti alla finestra. Per queste convinzioni abbiamo anche pagato dei prezzi, ma ci .è sembrato necessario farlo per non tradire le richieste e i bisogni che, anche attraverso la nostra esperienza, hanno trovato voce e visibilità( ...). Alzare lo sguardo. Vecchie e nuove emergenze impongono l'onere di scelte coerenti. L'interdipendenza crescente tra il Nord e i vari Sud del mondo, fatta di scambi ineguali, di vincoli e scadenze imposte il cui esito è quello di rendere ancora più debole chi già lo è, di effetti conseguenti (come le migrazioni e le varie "guerre locali"), di impoverimento progressivo a livello culturale, sociale ed economico, impone un'inversione di rotta. Nel rispetto delle tradizioni locali, delle culture e delle esigenze specifiche, questo significa promuovere un patto sociale mondiale fondato sull'equità di interscambio, sulla valorizzazione e sulla pari dignità tra i popoli e i Paesi. - Si è rotto il patto che ha legato le generazioni; questo sta comportando lo sperpero di risorse esauribili, gravi squilibri ecologici e demografici, un enorme indebitamento ~egli Stati, ~ sottrae ai giovam prospettive, speranza e voglia di futuro. - Il lavoro, oggi, si rivela un bene a disponibilità limitata. L'esclusione dal mercato del lavoro riguarda un numero sempre più elevato di persone: particolarmente giovani, ma anche adulti, espulsi dal ciclo produttivo e consegnati a una prospettiva di disoccupazione di lunga durata. - L'espandersi di situazioni di povertà, materiali e immateriali, aumenta il divario e la polarizzazione sociale (ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri). A questo contribuisce uno smantellamento indiscriminato e strumentale dello Stato sociale (sanità, previdenza, assistenza) e uno svuotamento culturale e sostanziale dei principi basilari affermati nella Costituzione. Tutto ciò rischia di innescare momenti di alta conflittualità sociale, le cui risposte, per forza di cose repressive, oltre che ingiuste, saranno ancora più costose di quelle che oggi stanno delineando. - La scollatura crescente tra cittadini e istituzioni ha incrinato fortemente il rapporto di fiducia che sta alla base del patto sociale. Questo rischia di innescare e facilitare processi autoritari, grazie anche alla sempre più reale rottura dell'equilibrio di reciproco controllo tra i poteri istituzionali, qual era stato sapientemente disegnato dalla Carta Costituzionale. Politiche irrinunciabili, irrinunciabilità della politica. L'irrinunciabilità della politica passa attraverso una sua riqualificazione. Da strumento di semplice governo del contingente la politica è oggi chiamata a ridiventare dimensione progettuale; da esercizio autoreferenziale del potere deve tradursi in un servizio teso a dare visibilità e concretezza a un sistema di valori condivisi, a un'affermazione piena dei diritti sociali e di cittadinanza. La garanzia della legalità è la condizione indispensabile per un nuovo patto di fiducia tra cittadini e istituzioni. La chiarezza delle norme, la loro legittimità, la loro stabilità e applicabilità sono i presuppo-

sti perché si realizzino pienamente i diritti di cittadinanza e la tutela dei deboli. Educazione alla legalità, certezza del diritto, eguaglianza dei cittadini davanti alla legge sono altrettanti pilastri per una politica che sappia ricostruire il rapporto tra società e istituzioni, tra r_appresentanti e rappresentati. che s_ivuole portare avanti. Per un nuovo patto di cittadinanza. La condivisione del patto sociale e il contributo, prima di tutto quello fiscale, in proporzione alle risorse di cui si dispone costituiscono di per sé titolo di cittadinanza, indipendentemente dai territori d'origine e di appartenenza formale.Solo lo sforzo di garantire a tutti il riconoscimento di una reale cittadinanza - sia a coloro che .. , ' ,.. , ' ' . , f '/. 1"1 ~,.,, La lotta per la legalità deve passare attraverso la giustizia sociale: solo così essa può effettivamente essere la condizione indispensabile e preliminare perché i più deboli siano garantiti rispetto ai più forti. Il rispetto delle regole avviene se queste sono ispirate a valori di giustizia e solidarietà, se possono essere sentite come tali, se dunque vengono condivise. La fiducia nello Stato di diritto si acquisisce se c'è equità, corretta distribuzione delle risorse, pari opportunità, attenzione nei confronti di chi è svantaggiato socialmente. non ne hanno mai usufruito, sia a coloro che l'hanno perduta o CI Le politiche finalizzate unicamente al consenso e a un paralizzante equilibrio tra parti e interessi hanno fatto il loro tempo. Le politiche di semplice trasparenza, spesso declamate e poco applicate, non sono sufficienti. E necessari o adottare politiche di contenuto, collocate e riconoscibili. Politiche che impongano ai loro attori l'onere etico della scelta, l'obbligo e la responsabilità di decidere sulla base dei valori dichiarati e sottostanti. Politiche che possano essere riconosciute negli obiettivi da perseguire e nella qualità dell'impegno speso per raggiungerli. Non tutti i mezzi sono lecm, soprattutto in un'età in cui i fini reali non si scorgono e i mezzi sono fini a se stessi. Crediamo nella necessità di politiche difficili, in grado di dire dei "no" eticamente motivati e di fare prevalere l'interesse generale a fronte di quello particolare; politiche sottratte alle influenze delle lobbies portatrici di interessi forti e alle logiche clientelari. Questo non significa non volersi misurare con i pur necessari compromessi. Ogni compromesso, però, per essere efficace e coerente, deve poter essere reso pubblico. È la trasparenza che fa di una mediazione un passo in avanti condiviso e non una rinuncia, magari interessata, di ciò che si è, di ciò che si crede e di ciò a cui è stata tolta - può consentire di far uscire dall'isolamento molte persone · che, per mille motivi, non possiedono alcuna coscienza di appartenenza al contesto sociale è che, di conseguenza, permangono estranee a qualsiasi forma di partecipazione e di adesione ai progetti e ai valori della comunità. L'integrazione, infatti, rafforza la coesione della comunità e ne accresce le risorse; ma non vi può essere integrazione se non vi è pieno riconoscimento dello status del cittadino e nell'accettazione dei doveri e delle regole di convivenza che ne conseguono. Il cittadino solidale. Cittadini e istituzioni devono poter rivedere un dialogo da tempo alterato. Nella ricostruzione di questo rapporto alle istituzioni spetta, innanzitutto, un recupero di credibilità e alle espressioni del sociale la valorizzazione di una dialettica di reciprocità con le forme della politica. L'organizzazione della vita comunitaria e la mediazione tra gli interessi sono la proposta e la sfida con cui la politica si presenta al cittadino. È responsabilità prima delle istituzioni garantire l'efficienza, la programmazione, la gestione equilibrata delle risorse, la produzione delle norme e il controllo sulla loro applicazione, l'educazione civica, l'amministrazione dei territori, il riconoscimento e la valorizzazione delle realtà associative, aggregative e di ~uto-organizzazione sociale. E su questo che si misurano la qualità e la dignità di una orBibliotecaGinoBianco ganizzazione comunitaria, di cui il diritto alla salute, al lavoro, all'abitazione, all'istruzione, all'informazione, alla giustizia e alla sicurezza sono componenti indispensabili. La giustizia sociale fonda e regola la convivenza. In guesta prospettiva la solidarietà, parola spesso usata in modo improprio, non si riduce a un atteggiai:nento _in1ividuale, a concessione pietista o a un optional _dipolitica sociale, ma diventa 11èollante strutturale che dimensiona e qualifica, rendendolo possibile, un modello ·efficace di convivenza, un elemento di regolazione dei conflitti, la forma e il contenuto attraverso cui si realizzano la giustizia sociale e quella economica e si sostanziano i diritti di cittadinanza. La solidarietà intesa come architrave del patto so.ciale non solo garantisce la mediazione tra b1sogm e rnteress1, ma diventa anche la condizione indispensabile per l' attenzione e il rispetto dei diritti delle generazioni future. In questo senso è anche responsabilità individuale, nell' accettazione piena dei diritti e dei doveri di ogni cittadino. Un'attenzione tutta nuova dev'essere rivolta al rapporto tra cittadino e territorio. L'insicurdzza, la paura, l'allarme, l'intolleranza, l'autodifesa, l'arroccamento egoistico, il localismo esasperato sono le modalità con cui oggi si esprime la perdita di relazione tra cittadino e territorio. I conflitti che si manifestano sul territorio tendono sempre più spesso a ricadere in modo improprio e non centrato rispetVOCI

Bit to ai bisogni reali e legittimi, confondendo cause con effetti; così il legame con il territorio si traduce in richieste di politiche di repressione e di espulsione di un supposto corpo malato da un supposto corpo sano, anziché indirizzarsi alla promozione di servizi e alla garanzia di qualità di vita e di convivenza per tutti. Rideterminare le condizioni affinché sia salvaguardato il diritto di tutti a riconoscersi in un territorio e ad appartenervi, senza che questo si traduca in un conflitto e in una espulsione per altri, chiama dunque in causa una cultura di rispetto delle differenze, il valore inalienabile della tolleranza e adeguate politiche territoriali. È questa la via a un federalismo trasparente, solidale e non violento. Una famiglia aperta al sociale, un sociale al servizio delle famiglie. Le relazioni familiari, nonostante la loro crescente fragilità, rappresentano una risorsa insostituibile per ogni persona. Esse devono essere destinatarie di un'attenzione particolare da parte della politica, delle istituzioni e delle forme organizzate del sociale. Un'attenzione che rispetti la pluralità delle forme familiari e le specifiche originalità di ogni famiglia. Una cultura rispettosa delle differenze non può non essere anche una cultura che rispetta i diversi modi con cui si costruiscono le relazioni familiari. Queste non devono, e non possono più, essere imposte dall' esterno, sulla base di modelli rigidi ma 110npossono neprure essere lasciate nell'indifferenza, come se fossero un affare strettamente pnvato. Siamo convinti, e lo diciamo a partire dalla nostra esperienza di accoglienza delle famiglie, che si debba dar vita a un movimento culturale e politico di reale e concreto servizio alle famiglie. Il che significa, in particolare, accompagnare le famiglie ,nella costruzione dei loro legami con il territorio, nei rapporti tra le generazioni e soprattutto in quelli educativi, nella crescita qu~)itativa delle relazioni familiari, nell' acquisizione di titolarità effettiva delle politiche sociali complessive, oltre che in quelle - peraltro poche - specifiche., Questa attenzione, questa intenzionalità di servizio riVOCI aGinoBianco spettosa delle differenze e capace di far crescere legami sono la strada per dare effettiva cittadinanza alle famiglie. Uno sviluppo compatibile. Un patto sociale ispirato ai valori della solidarietà tra individui, famiglie e comunità, chiamati a convivere oggi e domani in un mondo interdipendente, impone un modello di sviluppo compatibile con i bisogni fondamentali dell'uomo e della donna e con le risorse naturali essenziali al loro soddisfacimento. Un tale modello di sviluppo deve, da un lato, resistere ai bisògni indotti da un sistema produttivo esasperato dal consumismo e, dall'altro, tenere conto delle limitate risorse disponibili, non sacrificando al benessere presente di pochi la prospettiva di un benessere per le generazioni future. Per l'affermarsi di un tale sviluppo sarà indispensabile una nuova cultura della sobrietà, in equilibrio tra i bisogni e i desideri della persona, tra le esigenze del singolo e le necessità della collettività. Cittadinanza e lavoro. Il lavoro, che oggi tende sempre più a configurarsi come variabile residuale, deve tornare a diventare un punto di riferimento con cui misurare la salute di un'economia, oltre che l'equità di una società. In quanto partecipazione attiva allo sviluppo sociale, il lavoro - retribuito o meno - costituisce titolo fondamentale di cittadinanza e opportunità di crescita individuale e comunitaria, fonte primaria della ricchezza sociale che deve essere equamente distribuita. Il principio, da noi condiviso, di "lavorare meno per lavorare tutti" deve essere completato, pena lo svuotamento del suo senso, dallo scopo di "migliorare il lavoro". Solo così una giusta distribuzione di questa fondamentale risorsa non corre il rischio di legittimare, e promuovere, nuove forme di sfruttamento, soprattutto nei confronti di chi oggi è di fatto escluso dal mercato del lavoro. Il lavoro è quindi obiettivo prioritario, da perseguire con po!itiche attive c~e ~c_comp~- gmno, con mass1cc1 investimenti formativi, la trasformazione di molti settori produttivi, compensando le mansioni esposte al rifiuto con nuove misure salariali e fiscali, promuovendo e sostenendo nuovi bacini occupazionali quali, ad esempio, i servizi socialmente utili per la qualità della vita, la protezione dell' ambiente, la tutela e la valorizzazione dei beni artistici e delle ricchezze naturali. Per ripartire più equamente il lavoro disponibile sarà necessario farsi carico di nuove forme di condivisione del lavoro, di una riduzione della sua durata legale e di forti diminuzioni del tempo di lavoro. Quindi saranno necessari processi di regolazione legislativa e un ruolo rafforzato dei diversi attori sociali, dalla cui capacità negoziale dipenderà l'effettiva realizzazione del nuovo patto sociale. Per una economia solidale. Non si cambia e non si migliora il lavoro se non si cambia e non si migliora l' economia nel suo insieme. È la concretezza del nostro essere, nel quotidiano, anche un soggetto economico che ci porta a dire questo. Abbiamo imparato, direttamente e insieme ad altri, questo ruolo attraverso le diverse fasi della nostra storia. Da gruppo di volontariato siamo diventati impresa sociale e, in quanto tale, ci stiamo oggi interrogando sui nostri rapporti con il sistema finanziario e su quello che questo dovrebbe diventare per essere effettivamente solidale. Il compito che tutte le realtà del terzo settore hanno oggi di fronte è quello di rensare e progettare strade efficaci per solidarizzare l'economia. Due, in particolare, ci sembrano gli obiettivi da perseguire: dare solidità al terzo settore e promuovere forme legittimate di finanza solidale affinché il denaro, da simbolo di divisione, possa diventare strumento di solidarietà. Formazione e cultura. Al problema del lavoro e dell'economia è strettamente intrecciato quello della formazione e della cultura. La tensione verso processi di unità e integrazione europea non può non vedere un contemporaneo sviluppo di orizzonte culturale adeguato alle trasformazioni sociali. La de industrializzazione, la rivoluzione informatica, il massificarsi delle professionalità intellettuali, la produzione di nuove tecnologie e il loro impatto sull'organizzazione della co-

munità e delle relazioni rendono centrale la questione della socializzazione dei saperi e dell'accesso democratico alla risorsa "cultura". Riforma della scuola e diritto allo studio, garanzia istituzionale di pluralismo culturale, laicità delle agenzie educative sono altrettanti capitoli di una politica che voglia effettivamente coniugare democrazia con partecipazione. Una informazione che promuova democrazia. I contesti di riferimento per la nuo:7a cittadinanza che propomamo non possono essere limitati ai territori di diretta appartenenza: si è cittadini del mondo e, dunque, di uno spazio che, in qualche modo, viene fatto proprio attraverso i sistemi informativi nella comunicazione istantanea del "villaggio globale". Ma quanto più si allarga il campo, tanto maggiore deve essere la ga- · ranzia di pluralismo e obiettività e tanto più chiare e definite le regole che assicurino autonomia e indipendenza agli strumenti informativi e alla professione giornalistica. I problemi dell'informazione corrispondono sempre più al problema della democrazia, poiché sempre più evidente risulta il nesso di potere tra informazione-politicaconsenso, con i rischi di manipolazione conseguenti e anche con il pericolo di trasformazione del cittadino in generica (indefinita e inverificabile) "pubblica opinione", ossia da soggetto della politica a semplice spettatore. Questo · significa, in primo luogo, controllo democratico delle grandi reti televisive e delle catene di giornali, definizione e rispetto di regole ami-trust e delle incompatibilità ·tra soggetti .privati proprietari di mezzi di informazione e cariche pubbliche e politiche, sottrazione del bene-informazione alle sole regole del mercato. Ma l'informazione democratica è anche quella che dà legittimità, possibilità effettiva di esistenza, visibilità a tutte le piccole testate non incluse nei grandi circuiti dell'informazione e che, per scelta, non si sono sottomesse alla sudditanza della pubblicità e dei potentati economici. Senza questo sistema informativo, senza questa possibilità effettiva di parola data e riconosciuta anche alle autonomie sociali della società civile, pluralismo e democrazia risultano parole vuote. Dare opportunità di vita, comunque. Quanto abbiamo fin qui espresso deve fare i conti con una realtà piena di contraddizioni; in cui la violenza e la morte spesso hanno il sopravvento. Lo diciamo pensando, ancora una volta,, a chi ci ha lasciato, a chi non riusciamo a incontrare, a chi è a rischio di malattia e di marginalità pesanti e irreversibili, a chi - senza retorica - non . . . viene nconoscm to neppure con una sepoltura dignitosa. Sono le tante, innumerevoli vittime di conflitti piccoli e grandi, prossimi e apparentemente lontani, di cui è intrisa la nostra esistenza. Essi ci pongono, sia sul piano morale sia su quello operativo, domande radicali, le cui risposte sono da costruire con pazienza, con discernimento, ma anche con il necessario coraggio che serve per affrontare l'inedito. Stare dalla parte della vita significa far sì che chi ha anche solo pochi "scampoli di vita" non soltanto li possa godere e fruttificare, ma possa farne una risorsa indispensabile per tendere a quella pienezza a cui tutti aspiriamo. Per questo BibliotecaGinoBianco richiamiamo con forza l'esigenza di motivare una strategia nonviolenta nella soluzione dei conflitti e una nuova sintesi tra strategia di riduzione del danno, prevenzione e liberazione dalla dipendenza nelle situazioni di marginalità. È l'esperienza quotidiana che ci dice come non ci sia al livello di principi, contraddizione tra "l'aiutare a sopravvivere" e "l'educare a vivere". Anzi. Risulta sempre più chiaro a chiunque operi in situazioni di marginalità pesante come l'uno sia in funzione dell'altro, e il secondo non possa realizzarsi sen~a il primo. Siamo chiamati a educarci e a educare a dare chances di vita a ogni vita, soprattutto a quelle che fanno più fatica. Una ricerca di spiritualità. Tutto questo non può essere vissuto, progettato, desiderato senza un cammino vero, profondo, personale e comunitario di spiritualità. Misurarsi fino in fondo con la strada impone di fare i conti con le domande radicali del1'esistenza, propria e di ogni altro con cui ci incontriamo. La strada è luogo di spiritualità essenziale, quotidiana, laica, plurale. Lo diciamo a partire dall'esperienza che, pur con tùtti i limiti, come Gruppo Abele .abbiamo cercato di vivere in quasi trent'anni della nostra storia. Un'esperienza che ci ha costantemente provocato alla tolleranza, alla sobrietà nelle parole e nei gesti, alla ricerca di ciò che unisce nel rispetto delle diversità, all'attesa. · In un tempo difficile come l'attuale questa ricerca spirituale non può non continuare, con chiunque e aperta al contributo di ognuno, nel sociale, nelle diverse comunità religiose e non, nei territori, nel modo di fare politica. Essa è indispensabile, ed è indispensabile soprattutto per ridare alla politica la sua funzione di costruzione del bene comune. Non si può fare oggi una politica di legalità e solidarietà, progettuale e finalizzata al servizio, senza spiritualità. La strada è fonte per un rinnovamento - anche - spirituale della politica in cui ci sentiamo, a partire dal nostro specifico, profondamente coinvolti( ...). ♦ VOCI

Bi Più che una rivista. Vent'anni di "Segno" a Palermo Marcello Benfante Marcello Benfante insegna in una scuola media in provincia di Palermo. Collabora con racconti e interventi a "Dove sta Zazà" e altre riviste. ♦ Sarà colpa di Dumas o dei Beatles ( It ... was Twenty years ago today) ma quando passano vent'anni siamo immancabilmente assaliti dalla nostalgia. Stavolta non è proprio il caso. La rivista "Segno" compie infatti gloriosamente vent'anni e guarda già con audacia ai prossimi venti. Ha 160 numeri alle spalle e circa 20.000 pagine. Non se ne sono stati con le mani in mano, questi accidiosi siciliani. Palermo è tradizionalmente una città dove le riviste durano poco più dello spazio di un mattino. "Segno" fa eccezione. Pur non potendo contare che sul contributo volontario dei suoi sostenitori, si è rivelata stabile, longeva, solida e assolutamente non effimera. Vorremmo dei governi così, ma ci contentiamo di questa buona e seria testata di cui non sapremmo più fare a meno p_er capire la realtà - non solo cittadina - che ci circonda (il cardinale Pappalardo ebbe a dire di vivere felice senza leggerla; per molti è invece uno dei pochi punti di riferimento di una città che sperpera dissennatamente le sue risorse di intelligenza). Ricordandone la nascita, Pietro Gelardi scrive in questo numero 160 dalla intensa copertina cilestre (unica nota di colore nella sobrietà di una veste grafica fin troppo spartana) che "fu un atto di fede solitario e irresponsabile, contrario a ogni regola di buon senso e di modestia, oggi inconcepibile". Eppure i conti bene o male quadrarono, e quell'atto di fede fu foriero di buone opere, tanto che ci chiediamo se a far fallire tante iniziative cittadine non sia proprio la mancanza aGinoBianco di un po' di fede. E in questo senso ha proprio ragione Gelardi quando - pur ricordando gli errori, le ingenuità e certe affrettate analisi degli esordi - esorta a "perseverare all' imprudenza". Anche lo scrittore Michele Perriera - nel libretto allegato al numero del ventennale - ci ricorda che quel che conta non sono né le seduzioni né le delusioni, ma "il livello spirituale delle nostre illusioni". In questo senso "Segno" continua a illuderci che cambiare si può, continua il suo cammino di fede con i suoi nove redattori intorno a cui si coagula miracolosamente tanta parte dell' intellighenzia cittadina (e non solo), del volontariato, del mondo del lavoro, della scuola, della magistratura ecc. Per capire le ragioni della caparbia resistenza di questa rivista, di questo collettivo, bisogna recarsi a visitare la sua redazione e conoscere il direttore, Nino Fasullo, padre redentorista e insegnante di filosofia. La sede di "Segno" si trqva nella Palermo marginale. Per raggiungerla si deve prendere la circonvallazione - un' opera resa obsoleta dai colossali ritardi di realizzazione e dallo sviluppo distorto delle periferie - imboccare la Via Michelangelo, un lungo e desolato stradone in cui i palazzoni si alternano agli ultimi ritagli d'agrumeti, costeggiare borgate ormai fagocitate dal tessuto urbano ma che sono ancora isole e roccaforti di un diffuso potere mafioso, infine giungere in Via Badia, una stradina su cui si affaccia l'austero convento dei padri redentoristi. Oltrepassata la soglia di un grande portone, si accede in locali in cui regna un'atmosfera ovattata. Più oltr~ c'è ~n giardino n<;>npropno azzimato ma rusticamente confortevole su cui si affaccia un campo di gioco in terra battuta. Per un cancello si accede a una polverosa biblioteca che alcuni ragazzi stanno mettendo volenterosamente in ordine. All'interno di questo luogo separato si ha come l'illusione di poter guardare con sereno distacco ai problemi dell'irredimibile Palermo. Anzi, sembra che. la redenzione possa essere possibile, probabile e perfino vicina. Forse saranno i giovani che vi si incontrano numerosi, a far germinare questa illusione. O forse l'ospitalità giuliva di Nino Fasullo, un prete piccolo e dinamico che fa pensare a Padre Brown, parla a raffica, offre dolcetti, racconta barzellette, storpia i nomi delle persone, ma· si fa subito arguto e preciso quando il discorso verte sui grandi temi che ricorrono sulle pagine di "Segno": fede e politica, Chiesa, pace, mafia. "Segno" nasce in seguito all'esaurirsi di un altra esperienza editoriale di carattere prettamente ecclesiale, "Il cristiano d'oggi", che si concluse nel 1974. Nel novembre del 1975 usciva il primo numero della nuova rivista. Promotore era uno sparuto gruppo di preti, insegnanti, studenti e sindacalisti che si riuniva presso i padri redentoristi per leggére la bibbia e discutere i problemi sociali. Erano anni di acceso dibattito etico-politico, rinfocolato dal referendum sul divorzio. Anche all'interno del mondo cattolico c'era un gran fermento, la ricerca di un modo nuovo di essere cristiani, l' esigenza di un rinnovamento della Chiesa e di un superamento delle ideologie. Prendeva forma una diversa concezione della politica, non più come esercizio del potere attraverso la Democrazia Cristiana, ma come libero e r~sponsabile impegno individuale e collettivo. "Segno" si proponeva come strumento di questo dibattito e configurava u·n modello diverso di presenza cristiana nella città che si fondava sullacondivisione dei problemi dei più poveri. Questo progetto poteva realizzarsi solo mediante una coesistenza di fede e laicità, valori niente affatto contraddittori. L'esperienza di "Segno" si proponeva quindi come un superamento pratico della questione cattolica, come denuncia dell'equivoco di una specificità cattolica in campo politico. Come ricorda Francesco Renda, il termine segno assu-

meva un'accezione particolare nel clima culturale scaturito dal Concilio Vaticano II; stava cioè a indicare un "segno dei tempi", un'attenzione alla dimensione sociale e una disponibilità a cogliere la "sfida del mondo". È facile dire oggi che quell'intuizione ha lasciato a sua volta un segno, un solco profondo che fa da spartiacque. L'editoriale con cui "Segno" si presentava ai lettori ("Cambiamo per continuare"), pur non volendo essere un proclama ideologico, definiva con estrema chiarezza il raggio di intervento della rivista: rifiuto del confessionalismo, aperta adesione allo schieramento democratico e popolare per un rinnovamento del paese, rivendicazione di un meridionalismo non recriminatorio né campanilistico, battaglia per una depurazione della fede da ogni scoria temporalista. L'intento era esplicitamente quello di contribuire all'interno del mondo cattolico a intrecciare un-dibattito critico sui grandi problemi del mondo contemporaneo intorno ad alcuni contenitori tematici: la Chiesa, la pace, i Sud del mondo, la mafia. Non quindi una semplice nv1sta palermitana o s1c1liana, ma un ambito più vasto, nazionale e internazionale, di confronto e di riflessione. Una rivista militante perché basata su una discriminante scelta etica per il bene comune, sulla secca dicotomia tra vita cristiana e mafiosità, su un' evangelizzazione priva di ambiguità, connivenze, omissioni. Vent'anni dopo quel programma e quella scelta di campo sono ancora vitali e operanti. Lo ricorda Nino Fasullo nell'editoriale, tutt'altro che celebrativo, con cui si apre il numero 160: "all'origine della rivista c'è un'opzione di natura teologica ed ecclesiale piuttosto precisa: la convinzione che la fede cristiana non è un 'dono' che possa essere religiosamente fruito in modo individualistico come un bene esclusivamente personale, ma è una 'grazia' e una forza da spendere nella città a beneficio degli altri, credenti e non credenti, senza complessi di superiorità nei confronti di chi non dovesse condividere la stessa fede". È quindi la laicità, cioè l'esercizio libero e responsabile della ragione, l'elemento pregnante dell'esperienza di "Segno". Perché la fede può essere corrotta - afferma Fasullo - non tanto da un eccesso di autonomia della ragione, ma semmai da un suo difetto, da un suo uso distorto, ideologico. Oggi come vent'anni fa il binomio fede-politica può vivere solo accettando l'autonomia e al tempo stesso il necessario rapporto tra i due termini, che trova terreno d'incontro nel rifiuto degli integralismi e nell'adesione alle istanze dei poveri e degli emarginati propugnata dalla teologia latino-americana della liberazioné. Ripercorrendo questi vent'anni "di studi e di fatiche, ma non di solitudine", Fasullo non può che ricordare tanti ,:he queste battaglie non possono più farle, dal giudice Chinnici a padre Puglisi. Non è solo per ragioni cronologiche che il discorso, il cerchio, si chiude col parroco di Brancaccio, un altro terribile girone periferico, assassinato dalla mafia. Parlando di una Chiesa che finalmente sembra schierarsi senza remore dalla parte giusta, Fasullo si lascia scappare due "forse". Due dubbi, due riserve, che- sono, dopo tanti morti, davvero troppi. • L'orologio di noi impiegati Filippo La Porta Filippo La POrta lavora presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma. Scrive su "Il Manifesto" e altrove. • Dai primi di marzo in tutti gli uffici comunali romani farà la sua comparsa un oggetto metallico di forma squadrata, un parallelepipedo a tre blocchi con una striscia luminosa, fantascientifico e primordiale come il monolìte di Kubrik. Non ha la spugnosa e minacciosa mollezza della "cosa" blobbiana, non possiede le fattezze splatter di Freddy Kruger, eppure sembra avere una inquietante valenza simbolica che tra~ scende la sua stessa funzione: si tratta dell'orologio con relativa timbratura del cartellino. Un oggetto peraltro affettuosamente familiare (seppure di forma mutevole), ben noto al nostro immaginario visivo, dai cartoons cc;mWilcoyote e il cane da pastore alle gags di Fantozzi, da Charlot alle strisce linusiane di Bristow. Eppure in questo momento diventa I'epitome tangibile del processo di cambiamento radicale della pubblica amministrazione in Italia, dal "rivoluzionario" decreto-legge n.29 del governo Amato (1993) alla recente Finanziaria e al rinnovo del contratto nazionale. Il decreto legBibliotecaGinoBianco VOCI

Bi ge, che sostituiva la vecchia normativa del '57, e che a sua volta è stato "preparato" da una legge dell' '80 (in cui si sottolinea il dovere di produttività del pu blico impiego), si applica appunto, in funzione di razionalizzazione, a quei pubblici dipendenti che non rientrano in categorie particolari, quali docenti universitari, magistrati, diplomatici, ecc., e riguarda assunzioni, ruoli e responsabilità dei dirigenti, modalità della contrattazione, orari di lavoro, possibilità di licenziamento (ad es. per 1'persistente insufficiente rendimento"), vari aspetti giuridici. Con questo decreto si è spezzato per sempre il patto - più o meno scellerato, e vantaggioso per entambi i contraenti - per cui gli impiegati pubblici tolleravano bassi stipendi e dequalificazione del lavoro in cambio di libertà inimmaginabili in altri settori. Ed è proprio nella Finanziaria che si parla esplicitamente di accertamento dell' orario "con controlli obbiettivi e tipo automatico ": dunque, il primo citato orologio , sul cui funzionamento a Roma già circolano alcune leggende metropolitane (rudimentali tecniche di sabotaggio, che sarebbero all'opera in alcuni uffici~come l'inserimento di miele negli ingranaggi; o anche la convinzione diffusa che queste macchine non funzioneranno mai dato che il Comune di Roma utilizza in genere materiali riciclati e scadenti etc.). Ora, senza addentrarmi in una materia sindacale-contrattuale che conosco solo superficialmente, vorrei però cogliere l'occasione di questa nuova normativa per fare alcune considerazioni sugli impiegati pubblici (reazioni soggettive e problemi generali). L'insieme di queste leggi viene interpretato dalla massa dei dipendenti pubblici come atto punitivo . L'inconscio collettivo degli impiegati è infatti ulcerato da terribili sensi di colpa (per i privilegi - anche piccoli - di cui si è fin qui goduto, per l'immagine squalificante che si sa di avere nella società, perché si è ben consapevoli della propria oggettiva corresponsabilità riguardo il d;sserv_izio). Questo ~rea l'attesa, timorosa , ans10sa, ma forse anche segretamente speranzosa (Hegel parlava del bisogno umano di subire una pena per quanto si è commesso), di una punizione finale, di una apocalittica resa dei conti. caGinoBianco VOCI D'altra parte, la necessità di convivere quotidianamente con questi stessi (insostenibili) sensi di c,olpa genera pure una reazione d'orgoglio e di rabbia, un diffuso vittimismo (abbiamo stipendi da fame, lavorare in queste condizioni diventa qualcosa di eroico ...), e anche un certo senso di irrealtà nella percezione sociale di se: ad es. nelle assemblee sindacali degli impiegati pubblici si chiede spesso di far appello alla solidarietà della cittadinanza e delle altre categorie, di farsi sentire a livello di opinione pubblica, ecc., rimuovendo improvvisamente il piccolo dettaglio che gli impiegati sono odiati dal resto della società. Certo, questa modernizzazione e razionalizzazione (ed energica trasformazione) della pubblica amministrazione ci voleva. Va bene, portiamo nel pubblico la luminosa efficienza del privato (e tralascio qui certe inaspettate goffagini dei manager "boe- . . ,, . . . comam e strapagati cm si sono affidati gli enti locali). In fondo l'obbiettivo strategico di tutti questi decreti legislativi è l' auspicabile unificazione normativa di tutto il lavoro (quello pubblico e quello privato) nel nostro paese. Ma davvero basta la clausola sul licenziamento o la moltiplicazione dei premi di produttività o la maggiore autonomia "manag_€riale"concessa ai dirigenti a cambiare una mentalità, dei comportamenti profondamente radicati, perdipiù complicati da trasformazioni antropologiche degli ultimi decenni? E veniamo al dunque (e ai rilievi più autobiografici). Non sarà che la principale stortura attuale nasce dall'immissione nel pubblico impiego della generazione sessantottesca (soprattutto, ma non solo, attraverso le amministrazioni di sinistra e nei servizi culturali), di questa massa alfabetizzata, scolarizzata, ultrarivendicativa con i suoi tumultuosi bisogni di Creatività, di Immaginazione, di Protagonismo (che tra l'altro si trova spesso in collisione con la vecchia e polverosa figura di impiegato?) Penso a individui con una formazione di base magari frettolosa ed eclettica (perlopiù di Scienze Umane), ma molto aggiornati sulle mode culturali, iperconsapevoli dei loro diritti, capaci di parlare senza timore in un'assemblea, abili a fare citazioni_ appropriate, ben addestrati retoricamente a rovesciare sul Potere qualsiasi infamia o iniquità. Di qui il perenne lamento sull'essere sprecati, male utilizzati, non valorizzati pienamente, ecc.. E anche, di qui la giusta ma un pò ossessiva richiesta di riqualificazione del lavoro, di corsi di formazione (cui si viene domandata una funzione miracolosa, quasi utopica ...). Ma davvero, entro questa pubblica amministrazione le diffuse competenze e capacità individuali potranno mai essere realisticamente utilizzate? Davvero i singoli lavori potranno tutti diventare nicolinianinamente "creativi" (mentre, c~is~à p~rché, le attività ammmistrative vengono sprezzatamente condannate da uno squallore intrinseco)? Davvero la struttura pubblica sta lì pronta da decenni (da secoli?) a soddisfare il nostro incontenibile bisogno di autorealizzazione? Forse molte di queste capacità e professionalità semplicemente non servono alla publica amministrazione, almeno nella generosa profusione in cui si ritrovano nella società italiana (e rinviano dunque ad uno squilibrio strutturale, inevitabile, tra istruzione e mercato del lavoro). Non conosco bene la storia dei dipendenti pubblici nel nostro paese, ma ho l'impressione che la mia generazione da una parte disdegna il formalismo giuridico che avevano gli impiegati ancora durante il fascismo (l'astratto ma solido rispetto per la norma, . l'umile etica per il lavoro di origine positivistica) in quanto angusto; dall'altra rifiuta e rruzione e parassitismo del1'era democristiana ma solo in quanto ipocriti (per cui ad es. l'assenteismo di sempre viene ora "nobilitato" come Rifiuto del Lavoro, e ben corredato da sofisticati alibi ideologici). In una situazione del genere l'inserimento dell' orologio viene fatalmente percepito come aggressione da cui difendersi. ♦

NORD E SUD LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Giorgio Cingolani Antonio Perna Nicola Perrone Rosario Lembo Angelo Fanucci VIAGGIO NELLO SVILUPPO UMANO Giorgio Cingo/ani a cura di Santina Mo biglia Giorgio Cingo/ani (Macerata, 1936) è un economista agrario che si occupa dei problemi dello sviluppo rurale delle aree povere del mondo. Negli ultimi 25 anni ha accumulato una ricca esperienza personale e professionale in Asia, Africa e America Latina, partecipando in qualità di consulente a molteplici progetti di cooperazione, per conto di enti governativi, organismi internazionali e organizzazioni di volontariato e solidarietà. Partendo da una formazione accademica da agronomo, aveva successivamente allargato i suoi interessi al campo dell'economia. Un dottorato negli Stati Uniti, all'Università di Cali/ arnia (Berkeley), negli anni delle contestazioni studentesche, contribuì a orientare il suo impegno professionale e politico. Erano gli anni della sindacalizzazione dei braccianti agricoli in Cali/arnia, degli scioperi dell'uva dei braccianti messicani e messico-americani (chicanos) nella vallata centrale della California; la stessa vallata su cui si trovava a fare la propria ricerca di economia quantitativa. Da allora al centro del Sl:iO interesse per il mondo rurale sono state le condizioni dei contadini poveri che costituiscono la stragrande maggioranza dell'umanità attuale, concentrata nei diversi "Sud del mondo". Tornato in Italia, dopo un periodo nella ricerca, si è impegnato nell'attività sindacale presso la Cgil piemontese con varie responsabilità nel settore agricolo e agro-industriale. Alla fine degli anni '70 ha iniziato il suo lavoro di consulenza nel settore dell'economia agraria in progetti delle Nazioni Unite (Fao e Jfad), della Comunità Europea, del ministero degli Esteri italiano, come anche di organizzazioni non governative di volontariato e solidarietà. Parlando con lui del suo lavoro e dei suoi viaggi, lo sguardo si allarga rapidamente dalle realtà specifiche osservate alle contraddizioni drammatiche dello sviluppo mondiale e al quadro politico internazionale, cui sono interconnesse con forza. Abbiamo preferito spaziare BibliotecaGino CO piuttosto che restrin,l{eregli argomenti, perché ci sembra possano offrire materia e suggestioni per ragionamenti sempre troppo carenti nell'informazione episodica ed emotiva in circolazione nel nostro paese. Potremmo partire, nella nostra conversazione, da un caso concreto, dal tuo prossimo impegno professionale che ti porterà in Nicaragua a fine mese, per illustrare i caratteri e le funzioni della cooperazione per lo sviluppo rurale delle . areerovere del mondo. I mio prossimo impegno è per una organizzazione non governativa (Ong) di volontariato e solidarietà che si chiama Mais (Movimento per l'Autosviluppo, l'Interscambio e la Solidarietà) con sede a Torino. L'incarico mi impegna in un progetto a cui avevo già collaborato in passato, nel 1989. Tornerò, a distanza di cinque anni, a Santa Rosa del Peiion, una località all'interno del Nicaragua, nella zona seca de pendiente della regione pacifica, così denominata per le caratteristiche del regime delle piogge insufficienti e per la morfologia ondulata a volte con forti pendenze. La popolazione di circa 8000 persone è occupata prevalentemente in attività agricole e di allevamento ma anche, e in modo crescente in questi ultimi periodi, nell' estrazione artigianale dell'oro. La famiglie vivono in piccoli insediamenti, "comarcas" , sparsi a raggiera sulle pendici di piccole valli che gravitano sul centro amministrativo con i principali servizi. Solo il centro è accessibile attraverso una strada carrozzabile, mentre le comarcas possono essere raggiunte a piedi o a dorso di mulo. Nel 1989 avevo lavorato nella zona per valutare un progetto del governo di allora, sandinista, che prevedeva fra l'altro anche il trasferimento di popolazione considerata eccessiva rispetto alla produttività e alle risorse ecologiche della zona. Allora ci dichiarammo in disaccordo sulla prospettiva del trasferimento di popolazione, mentre avremmo finalizzato il nostro intervento a migliorare le condizioni di vita e di produzione nella zona. Proponemmo, quasi sotto forma di condizione sine qua non, una metodologia che implica la partecipazione dal basso dei contadini stessi (una cosa assai innovativa per i sandinisti che avevano una politica e una pratica molto verticistiche): l'intervento avrebbe dovuto favorire l'autorganizzazione dei contadini per decidere insieme il "che fare", il piano operativo, e poi, soprattutto, per realizzare il piano stesso. COOPERAZIONE INTERNAZ!ONAli:

La zona, pur non essendo assolutamente ricca, dimostrava una capacità di auto sostentamento maggiore di quella ipotizzata dal governo. Era comunque in atto un degrado ecologico abbastanza grave perché, come altre zone simili del Nicaragua, subiva le conseguenze del diboscamento iniziato negli anni '50. Le colline di Santa Rosa del Pefion, un tempo coperte di boschi, hanno subito un processo assai accelerato di messa a coltura. Prima compagnie nordamericane tagliarono le conifere, assai pregiate; successivamente contadini poveri, in parte gli stessi lavoratori delle imprese forestali, espulsi dalle pianure della costa pacifica, si sono insediati nella zona avviando Un processo sempre più accelerato di esbosco e messa a coltura. La situazione che trovammo nel 1989 era molto drammatica per varie ragioni legate alla guerra. La zona del nostro intervento, al confine fra la pianura fertile del pacifico e la zona tropicale atlantica, aveva sempre offerto occasioni di emigrazione stagionale nelle due direzioni: ad occidente per la raccolta del cotone, ad oriente per una coltivazione di fagioli possibile solo nella zona del "tropico piovoso". Negli anni Ottanta, con la guerra, questi flussi stagionali si erano quasi completamente bloccati: di qui l'aumento della densità di popolazione in zona e, contestualmente, una perdita delle forze più valide, i giovani impegnati a combattere nei due fronti contrapposti (l' eser- _cito governativo e i "contra"). L'aumentata densità di popolazione e quindi di coltivazione, basata sulla tecnica del "taglia e brucia", aveva accelerato i processi di esbosco, con le inevitabili conseguenze di erosione dei suoli e perdita di produttività che innescavano a loro volta un processo circolare di aumentato bisogno di terra e maggiori esboschi. E qual è la ragione del tuo ritorno ora, a cinque anni di distanza? Questo caso può essere emblematico per illustrare come ha funzionato la cooperazione italiana negli ultimi tempi, sotto gli scossoni delle vicende politico-amministrative e anche giudiziarie dei vari governi che si sono succeduti in questo periodo. Io sono stato incaricato di andare a valutare il progetto ora, a cinque anni dal suo avvio, per una serie di ritardi che non erano assolutamen- , te prevedibili nel 1989, come del resto neppure la mutata situazione che ha ridotto e sostanzialmente peggiorato le caratteristiche della cooperazione allo sviluppo. Dapprima il passaggio· del ministero degli Esteri dai democristiani ai socialisti con l'inevitabile ricambio di funzionari e clientele, successivamente le vicende di "tangentopoli" e i tagli alla spesa pubblica hanno decimato la capacità d'intervento e ulteriormente peggiorato la pratica amministrativa. Il bilancio è sceso da circa 5000 miliardi a poco più di 1500 all'anno: i progetti sono stati ridotti in numero e dimensione applicando criteri molto arbitrari, senza analisi specifiche sulle loro caratteristiche e nessun rispetto per le conseguenze sulle popolazioni coinvolte. Le Ong sono state, in termini relativi, le più penalizzate da queste procedure perché, essendo mediamente più legate alle realtà locali e meno dotate di disponibilità finanziarie proprie, hanno perso credibilità a causa della discontinuità e irrazionalità delle decisioni. Ad esempio, in merito ai fondi stanziati per le Ong Bit COOPERAZIONE INTERNAZIO~ALE o dallo stato, inferiori al 2% del totale, dopo anni di ritardi e ripetute pressioni, improvvisamente verso la fine del 1993 è stata decisa una sanatoria relativa a tutte le richieste giacenti fino al dicembre 1992: a ciascuna organizzazione è stata assegnata una somma ed è stato chiesto di scegliere, fra i progetti giacenti, quelli compatibili con la somma assegnata, magari ridimensionando arbitrariamente i progetti. È a questo punto che la richiesta di finanziamento relativa al progetto di Santa Rosa del Pefion ha trovato finalmente una risposta, anche se fortemente ridimensionata rispetto al progetto iniziale. L'insieme di queste vicende rimanda comunque ad alcune considerazioni generali sulle Ong, che in Italia si presentano molto varie nella loro fisionomia, struttura e modi di operare, ma hanno in comune il fatto di essersi in maggioranza strutturate negli anni Ottanta su bilanci crescenti. Invece di investire in strutture per sollecitare e gestire solidarietà - come è scritto nella maggior parte dei loro statuti - nella promozione di contributi, sottoscrizioni, lavoro volontario, si sono praticamente adagiate sul comodo supporto degli stanziamenti statali. Quando questi si sono drasticamente ridotti, le Ong si sono trovate totalmente spiazzate, sia perché non erano più in grado di corrispondere alle aspettative dei loro partners nei vari paesi in cui operavano sia perché avevano creato strutture troppo costose. È questa una caratteristica ricorrente anche di molti imprenditori italiani, che si aspettano sempre risorse pubbliche pur rivendicando meno stato e più mercato. La dipendenza dai finanziamenti pubblici è per altro un fenomeno da cui non sono esenti neppure altri paesi europei: di non governativo per molte di queste organizzazioni resta spesso soltanto il nome. Come immaginate di riprendere il lavoro in Nicaragua, a distanza di cinque anni? avete mantenuto qualche collegamento, un filo di continuità durante tutti questi anni? Prevedendo i ritardi (anche se non cosi dilatati) Mais si era premunito per garantire, con fondi di solidarietà e stanziamenti della Comunità Europea, il primo anno e mezzo di attività. Questi soldi in pratica hanno permesso di insediare sul posto una "animatrice", una sociologa guatemalteca, con la funzione di preparare l'intervento che doveva seguire mantenendo una presenza, anche se limitata, nella zona e la continuità di azioni di formazione per attività di autosviluppo. · A questo punto non so prevedere come si possa continuare: si tratterà di valutare il lavoro svolto in questi anni e, dato che alla fine un po' di soldi sono arrivati, decidere se è ancora ragionevole spenderli nel modo previsto nel 1989. Sono cambiate molte cose in Nicaragua: è finita la guerra civile ed è cambiato il governo e un regime politico-sociale. Ma soprattutto è cambiato il mondo che, con la fine della guerra fredda, ha ridimensionato il peso politico che il Centroamerica aveva nel quadro geopolitico internazionale; nel bene e nel male, naturalmente. Il venir meno della polarizzazione è un fatto largamente positivo per l'area, se pensiamo che la guerra dei "contras" è stata finanziata illegalmente dal presidente della maggiore potenza mondiale, Reagan, per ragioni tutte ideologiche, scaricando su un paese piccolissimo il peso di problemi planetari. La riprova, se

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