La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 2 - marzo 1995

Bi presenza nel carcere d~ figure esterne che g~- rantiscono due cose: il contatto col reale, il confronto con modi di ragionare diversi rispetto a quelli chiusi del sistema c~i ~ldeten~- to appartiene. È ben vero, come s1diceva pnma, che é difficile scalfire la "scorza" delle mentalità rigidamente an~orate alle abitudin_i,,e tuttavia é doveroso offnre delle opportumta, poiché solo in questo modo possono essere aumentate le possibilità di scelta. La via di Damasco? Ho letto una considerazione fatta dal cappellano di un carcere che diceva: " Bisogna tener conto che in carcere, dove abbonda il tempo per meditare, non c'è solo il disgraziato che entra e esce per tutta la vita, ma anche chi, ripensando al male commesso, poco all~ volta decide di cambiare comportamento e nesce a redimersi". C'è in questa affermazione la convinzione che per tutti possa esserci u~a via 4i Damasco. Devo dire che questa non e la mia esperienza. La mia esperienza mi dice che non c'è cambiamento senza l'apporto di un elemento esterno al ragionamento che il soggetto conduce con se stesso, senza il quale il ragionamento si avvita su di se. La persona va aiutata a decentrarsi, e in questo il rapporto con un formatore può essere determinante, a condizione che da entrambe la parti si superino le barriere della differenza e si istituisca un canale comunicativo. Si deve tener conto del fatto che nel detenuto la diffidenza si è consolidata su una rappresenta~i~:me dell'istituzion~le_ come valutativo e pumtryo, qualcosa da c~1bisogna guardarsi, perché c'è sempre il rischio ~he l'altro ne faccià un uso contro di te. Anche 11formatore, per quanto egli dichiari_ di :1on far,i:ie_par~e,è vissuto come farte costitutiva dell 1st1t~z10ne carceraria. Ne rapporto tra docente e discente bisogna mettere in atto u!1percorso di erosione di questa perdurante diffidenza ed anche, a onor del vero, di diversi nostri pregiudizi. Tutte le nostre attività, le nostre più varie iniziative hanno lo scopo dichiarato di voler essere formative, quindi di voler indirizzare al cambiamento. E la cosa più difficile: aiutare il detenuto a costruire un progetto, non dico un progetto di vita, che sarebbe ardua impresa, estranea, per altro, ai compiti dell'insegnante, ma_sem~ plicemente un programma a breve termm~ d1 studio, di lavoro un impegno con se stessi, la capacità di uscire dalla condizione quasi obbligata dell'essere vincolati al contingente (delimito volutamente lo spazio del cambiamento, BUON! E CATTIVI 10Bianco perché non è necessario attribuire a questo termine un valore così alto da renderlo improponibile). Poi, ogni tanto, non si sa bene in virtù di quale evento difficilmente valutabile, sulla cui frequenza è comunque opportuno non crearsi troppe illusioni, si innesca il processo eccezionale di un cambiamento a tutto tondo. E tuttavia, rispetto al cambiamento della persona in "corso d'opera", e cioè mentre è ancora detenuta, vorrei fare due considerazioni, brevissime, due accenni che avrebbero bisogno di ben altro approfondimento. La prima: il cambiamento destabilizza fortemente la persona, è un processo fondamei;italmente "violento", non dolce, che va seguito e aiutato. La seconda: il cambiamento destabilizza i rapporti tra il detenuto e l'ambiente che lo circonda, nel quale si instaura stranamente una sorta di spontanea alleanza tra gli altri detenuti, ancora inseriti nel loro sistema, e la struttura carceraria, che tende ad emarginare la persona che sta cambiando e che esce dalle logiche consolidate, e probabilmente molto più riconoscibili e rassicuranti, del mondo carcerario, in cui la linea tra buoni e cattivi (ovviamente secondo le ottiche interne a quel mondo) è una bella e profonda linea di demarcazione. All'interno di questi processi il movente fondamentale dell'esclusione della persona che manifesta un progetto di cambiamento pare essere un vizio capitale, a cui anche Dante attribuiva un certo valore: l'invidia. Come si vede, alla persona che deve sostenere tutto questo è necessaria una dose notevole di forza di volontà. Due ultime osservazioni in conclusione. L'una riprende il concetto che ho espresso in precedenza sul percorso d'apprendimento del formatore. Visto che abbiamo osservato il cambiamento possibile del detenuto e che l'assunto iniziale delle mie riflessioni presuppone che esista bidirezionalità nell'esperienza di insegnamento-apprendimento, nasce di conseguenza la domanda: in che co,sa co~siste i! cambiamento del formatore? L esperienza d1 insegnamento in carcere, fatti gli opportuni distinguo, potrebbe essere paragonata ad una te~ rapia psicanalitica che, dopo un bel po' d1 scombussolamento, rende più consapevoli di sé. Il formatore nel carcere è messo di fronte alla necessità di comunicare comportamenti e valori etici, sia perché lo vuol fare, sia perché viene sovente provocato a farlo dai detenuti stessi. È indotto quindi a riflettere sui propri comportamenti e valori, e a metterli a fuoco, un'operazione che rende molto più consapevoli delle proprie convinzioni di fondo. La seconda osservazione riguarda l'importanza delle opportunità lavorative, che la legge Gozzini colloca sullo stesso piano della cultura e dell'istruzione nel progetto di reinserimento sociale. Istruzione e lavoro sono, in effetti, le due facce della stessa medaglia, aspetti complementari di una medesima questione e come tali andrebb~ro considerati, se non si vuole che tutta la formazione della persona, in assenza della possibilità concreta di metterla in atto, rientri solo nelle buone . . . mtenz1om. ♦

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