La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

Interuenti Franco Tatò A scopo di lucro Conversazione con Giancarlo Bosetti sull'industria editoriale pp. VIII-120, L. 18.000 Alberto Berretti Vittorio Zambardino Internet. Avviso ai naviganti pp. VIII-112, L. 16.000 Giovanna Zincone U.S.A. con cautela Il sistema politico italiano e il modello americano pp. 96, L. 14.000 I centauri Lionello Puypi Un trono di fuoco Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento pp. 144, L. 28.000 Biblioteca Guido Cavalcanti Rime A cura di Letterio Cassata pp. L-174, L. 35.000 DONZELLI EDITORE ROMA Saggi Karl Polanyi Europa 1937 Guerre esterne e Kuerre civili Introduzione di Michele Cangiani pp. 96, L. 16.000 Ilvo Diamanti La Lega Geografia, storia e sociologia di un soggetto politico pp. XXVI-I82, L. 34.000 Nuova edizione riveduta e aggiornata Narrativa Paco Ignacio Taibo II La lontananza del tesoro Traduzione di Bianca Lazzaro pp. 336, L. 28.000 Meridiana libri Diamanti, Ramella,Trigilia Cultura e sviluppo Una ricerca Formez-lmes sull'associazionismo nel Mezzogiorno a cura di Carlo Trigilia pp. 256, L. 40.000 Riviste Storica Rivista quadrimestrale 1,1995 Coordinatore Marcello Verga pp. 2 I 6, L. 28.000 Libri di idee

LA TERRA VISTA DALLA LUNA Rivi s t-a d e 1-1' i n t e r v e n t o Allllb.. N. 4, giugno 1995 VOCI sociale Stefano Laffi: I limiti dell'intervento sociale (2), Vinicio Albanesi: Cosa chiedere alla Chiesa (5), Giorgio Morbello: Il progetto "Libera", contro la mafia (7), Francesco Carnevale: Lavoro e salute alla fine del secolo (9), ]osep Palau: Etica e intervento. La guerra nella ex Jugoslavia (36), Antonio Papisca, a cura di Emanuele Rebuffini: Cosa fare dell'Onu? (39), · Joaquin Sokolowicz: La vittoria di Menem in Argentina (41), Piergiorgio Giacchè: La fiera del libro a Torino (65),]avier Saez: Intervista a un eterosessuale (66), Antonio Perna: La febbre dei sondaggi (78), Vittorio Giacopini: Enzensberger e Jervis: due libri per guardare al futuro (79). ONTHEROAD LA DITTATURA DELL'AUTOMOBILE Goffredo Fo{i: Pazzi al volante (11), Guido Viale: Antropologia dell'automobile (12), Alfonso Sanz Alduan: Un altro modo di pensare il trasporto (20), Wolfgang Sachs: Signori del tempo e dello spazio (28), Antonio Estevan: Contro il trasporto, la vicinanza (32). PIANETA TERRA RAZZA E RAZZISMO NEGLI U.S.A. "Salmagundi" (Norman Birnbaum, Robert Boyers, Terence Diggory, Dinesh D'Souza, • Ron Edsforth, ]ean Ehlstain, Barbara Fields, James Miller, Michelle Moody-Adams, Larry Nachman, Orlando Patterson, David Rieff, ]im Sleeper): Un vecchio dilemma, oggi (43), Christopher Lasch: Agonia di un impero (51). SCUOLA L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA Nadia Baiesi: Insegnare/imparare la storia (68), Sandro Onofri: Ripensare i programmi (69), Marcello Flores: Coscienza storica e insegnamento (72), Francesco Benigno: Un buon uso del passato (74), Cesare Moreno: Infanzia e storia: due termini antitetici? (75). LEZIONI Dietrich Bonhoeffer: Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare del 1943 (54), Alberto Gallas: La violenza e la guerra nel pensiero di Bonhoeffer (61). IMMAGINI Abbas: Le guerre di dentro: l'Algeria (tra le pagine 42 e 43). · . La foto di copertina è di Marialba Russo. I disegni che illustrano questo numero sono di Fabian Gonzalez Negrin. Direttore: Goffredo Fofi. Direzione: Gianfranco Bettin, MarcelloFlores, Piergiorgio Giacchè,Roberto Koch, Giulio Marcon, Marino Sinibaldi. · Segretaria di redazione: Monica Npnno. Collaboratori: Damiano D. Abeni, Roberto Alajmo, Vinicio Albanesi, Enrico Alleva, Lucia Annunziata, Guido Armcllini, Ada Becchi, Marcello Benfante, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli, Andrea Beretta, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Luigi Bobbio, Giacomo Borella, Marisa Bulgheroni, Massimo Brutti, Mimmo Càndito, Francesco Carchcdi, Franco Carnevale, Luciano Carrino, Francesco Ceci, Luigi Ciotti, Giancarlo Consonni, Mario Cuminetti, Paolo Crepet, Mirta Da Pra, Zita Dazzi, Giancarlo De Cataldo, Stefano De Matteis, Grazia Fresco, Rachele Furfaro, Giancarlo Gaeta, Fabio Gambaro, Saverio Gazzelloni, Vittorio Giacopini, Rinaldo Gianola, Giorgio Gomel, Bianca Guidetti Serra, Gustavo Herling, Stefano Laffi, Filippo La Porta, Franco Lorenzom, Luigi Manconi, Ambrogio Manenti, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Santina Mobiglia, Giorgio Morbello, Cesare Moreno, Emiliano Morreale, Marco Mottolese, Maria Nadotti, Grazia Neri, Sandro Onofri, Marco Onorati, Raffaele Pastore, Nicola Perrone, Pietro Polito, Georgene Ranucci, Luca Rastello, Angela Regio, Bruno Rocchi, Luca Rossomando, Bardo Seeber, Francesco Sisci, Joaquin Sokolowicz, Paola Splendore, Andrea Torna, Alessandro Triulzi, Giacomo Vaiarelli, Federico Varese, Pietro Veronese, Tullio Vinay, Emanuele Vinassa de Regny, Paolo Vineis. Grafica: Carlo Fumian. Hanno contribuito alla prepara,zione di questo numero: Pina Baglioni, Peggy Boyers, Claudio Buttaroni, Marco Carsetti, Giuseppe Citino, Pietro D'Amore, Serena Daniele, Maria Pia Donar Cattin, le Edizioni Paoline, Elena Fantasia, Pinuccia Ferrari, José Angel Gonzalez, Danilo Manera, Ornella Mastrobuoni, Emanuela Re, Antonio Scrivo, Simona Zanini. I manoscritti non vengono restituiti. Numero quattro in attesa di autorizzazione dal tribunale di Roma. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Edizioni La Terra vista dalla Luna s.r.l. Redazione e amministrazione: via Cernaia 51, 00185 Roma, te!. 06-4467993 (anche fax). Distribuzione in edicola: SO.Dl.P. di Angelo Patuzzi spa, via Bettala 18, 20092 Cinisello Balsamo (Ml), tel. 02-660301, fax 02-66030320. Stampa: StilGraf della San Paolo Tipografica Editoriale - Via VignaJacobini 67/c - Roma Finito di stampare nel mese di giugno 1995

Tra teoria e prassi: i limiti dell'intervento sociale e della sua cultura Stefano Laffi Stefano Laffi è ricercatore sociale presso il centro di ricerca Synergia di Milano ♦ Mi piace pensare alla "Terra vista dalla luna" come a una rivista capace di innescare reazioni a catena, di caricare la molla, di muovere al1'azione. Non riesco a vederla come un oggetto statico, mduttore solo di ammirazione, consenso o diniego: dovrebbe esserci nella sua formula una "chimica forte", capace di reazione con qualsiasi elemento entri in contatto, cioè con qualunque lettore abbia almeno deciso di provare a leggerla. Mi piace, in altre parole, pensare che sia possibile "dare del tu" al lettore responsabilizzarlo, anche solo da un punto di vista informativo o riflessivo. In fondo "La Terra" ha un buon punto di partenza: non nasce per ragioni di mercato - anche se "sul" mercato ci deve stare, ed è un mercato dec isamen te saturo, dove la niccchia per una nuova rivista è decisamente, prima ancora che di target, di spazio fisico in edicole e librerie straripanti. E non nasce per la ragione per cui altre riviste, anche serie e spesso interessanti, sono sorte e si mantengono: dare voce ali' Accademia, _permettere che le carriere universitarie, che di pubblicazioni si alimentano voracemente, possano riprodursi attraverso articoli che d.;iqualche parte devono pur essere riprodotti, non importa se completamente autoreferenziali, scritti per chi li ha scritti. Ma questa gratuità d' origine - e si ribadisce che è importante premiarla acquistando la rivista, cioè riconoscendone il diritto all'esistenza - è in realtà forse tutt'uno col suo statuto, di "rivista dell'intervento sociale": così pure ·quella chimica forte di cui dicevo non può mancare nel Yf2f.:1. suo Dna. Non può cioè esser rivista né da scaffali di biblioteca di istituto universitario - anche se sarebbe benissimo che un giorno ci fosse un'università che proprio que~to sa~ pere contemplasse nei suoi programmi - né da salotto conviviale (a qualunque livello intellettuale), dove si discetta di tutto e di niente, con la stessa rassicurante distanza, inscalfibilità al mondo; Ma non è questione da poco chiedere a una rivista tale ambizione, non solo perché è raro trovare nel settore editoriale (che deve pur sempre vendere, quindi compiacere) questa valenza di provocazione e sollecitazione ad asire, ma anche per una questione strutturale al tema in questione, cioè l'intervento sociale. Un sapere del sociale Credo che il nodo cruciale, con cui anche "La Terra" si confronta e contro cui probabilmente un po' si infrange, sia proprio quello del raccordo tra teoria e prassi nel sociale. Se l'intervento sociale è accudire un malato, informare un_sieropositiv?, far compagnia a un anziano, cosa può/ deve fare una rivista? E come? L'estrem,a concretezza, lo scarso "lirismo" della maggior parte delle situazioni in · questione - cosa c'è di più prosaico del pannolone dell'anziano? - e al tempo stesso le razionalità estranee e misteriose al senso comune dei suoi protagonisti - cosa e come pensa un tossicodipendente, un cosidetto malato di mente, un bambino down? - finiscono forse per sottrarre gran parte degli elementi fondamentali dell'intervento sociale alla possibilità stessa di una "letteratura", sia essa inresa come racconto o riflessione verbale e comunicabile tramite una rivista. Il problema è, più radicalmente, probabilmente quello dell'esistenza. e della trasmissibilità di un sapere in questo campo. E le d.ue questioni, esistenza e trasmissibilità, sono legate da un circuito perverso. Tutti gli attori in gioco sembrano rischiare il proprio scacco: chi fa informazione conosce la propensione dei giornali a trattare temi in funzione esclusiva de loro impatto emotivo, chi fa ricerca sa di avere moltissime probabilità che i propri studi approdino intonsi nell'archivio o nei cassetti di qualche ufficio, chi fa la formazione è consapevole che l'effetto del proprio intervento può spegnersi una volta che i corsisti escono dall'aula, chi fa politica sociale sa che la burocrazia dei servizi e il vincolo delle risorse ritraducono completamente i programmi di intervento. E chi interviene in prima persona va incontro a una frustrazione o a un probl~ma di s~nso del propri<;> agire non minore. Su un terreno dove domina l'urgenza della richiesta di aiuto, si rischia di attribuire a qualunque discorso il significato di tempo sprecato, di elucubrazione o lusso che non ci si può permettere. In ·buona o cattiva fede. Per esemplificare le due situazioni, non so quanti bravi operatori sociali leggano questa rivista o abbiano voglia di farlo. Ma so anche quanto sia facile rendere questo argomento un alibi e farne una prassi politica: penso ai proclami di certe amministrazioni cittadine alla concretezza, che si traducono nel tentativo di trasformare la politica sociale in una delega completa dei p_ro?le~i a co_o_perative, associaz10m o servizi, con un attenzione esclusiva al risparmio di risorse, e una rimozione sostanziale dei suoi contenuti. Sempre più un assessore ai servizi sociali riuscirà a qualificare l'intervento sicuramente in termini di spesa, ogni tanto raccontando con quali modalità, quasi mai specificando con quali effetti. Eppure non bisogna demordere: occorre certo pro~ blematizzare - e sarà questa la molla caricata dal presente artico lo - ma anche prendere consa_pevolezza degli inganni sottesi all'abbandono del ragionamento, per ursenza, sfiducia o cattivo consiglio. Innanzitutto, va riaffermato che un sapere esiste, ed è. qui più prezioso che altrove: la cosiddetta cumulabilità di questo sapere è evidente a

chiunque pratichi o conosca l'intervento sociale, che ha continuamente bisogno di esperienza, di informazione, di socializzazione di soluzioni ai problemi. Proprio perché non ci sono teoremi in gioco - ossia quella rassicurante sensazione che con la conoscenza di ipotesi, tesi e dimostrazione sia finito il proprio· compito mentale - il processo di apprendimento •è continuo. E proprio perché !"intervento si fonda quasi completamente sull'uomo - cioè su operatori, educatori, relazioni sociali, pratiche di aiuto, cioè sulla competenza e la sensibilità di chi è chiamato ad agire. Saper fare . Certo, bisogna distinguere fra "sàpere" e "sapere fare": credo che una rivista di intervento sociale faccia proprio i conti con l'impegno su entrambi i fronti, in questo per esempio staccandosi nettamente da una rivista di taglio a·ccademico o di cronaca giornalistica. Il mondo delle pratiche - di intervento, cura, aiuto, informazione, socializzazione - è il pane quotidiano del sociale e non c'è trasmissione del sapere senza il confronto con le pratiche. Per questo "La Terra" deve essere cassa di risonanza anche di queste, raccontate magari da chi le esperisce· quotidianamente. Proprio perché non esistono laboratori nei quali si sperimentino le soluzioni chimico-fisiche ai problemi, è spesso una sporta di ingegneria della vita quotidiana a permettere l'innovazione. È cioè la sperimentazione nelle pratiche dei singoli servizi o delle singole relazioni d'aiuto il luogo naturale del cambiamento, della cumulazione di ·un sapere, inteso come saper fare. Banalmente, ma concretamente: l'abbassare il livello dei letti in una casa di riposo ha diminuito l'ansia degli ospiti, che non riuscivano a dormire (senza sapere esattamente quale fosse il motivo) ed erano perciò imbottiti di tranquillanti, col risultato che alzandosi di notte intontiti .per andare in bagno cadevano facilmente (fratturandosi a volte il femore). L'introduzione di un orario elastico, concordato fra genit0ri e ope0 ratori, in un servizio per l'handicap ha permesso di smaltire la lunga lista di attesa, mediando fra esigenz.e di erogazione del servizio e fabbisogni individuali. La creazione di una banca del tempo, ossia del meccanismo per cui le persone si scambiano le rispettive disponibilità di tempo (come fosse denaro) ha permesso in un asilo nido alle madre di garantirsi reciprocamente la custodia dei bambini anche fuori cieli' orario del serviz10, senza ricorrere a una baby sitter. L'uso esclusivo della forma circolare - sala rotonda, tavoli rotondi, oggetti rotondi - in un reparto Alzheimer in una struttura protetta ha portato alla riduzione della somministrazione di farmaci (a quanto sembra, in virtù dèl fatto che il cerchio evoca come archetipo sia · l'a.ssenz_adi .sp~goli, quindi 4i mrnaccie, sia il moto continuo, il tempo infinito, l' assenza di morte). · È importante tener presente allora che questo è il mondo dell'intervento sociale, questi sono i suoi laboratori. L'immagine del laboratorio non è casuale, ed evoca uno dei tasti più delicati, quello fra sociale e sanitario. Senza voler affrontare la questione - ma prima o poi qualcuno dovrà denunciare quale potere hanno gli ospedali in I tali a, perché ci siano zone con percentuali stratosferiche di posti letto per abitanti, come vengono gestite le risorse e sia così possibile che nella sola Milano ci siano più apparecchiature per eseguire tac di quante ne hanno Belgio e Olanda messi insieme - va per lo meno ricordata un'osservazione su cui convergono le ricerche piu recenti, i dati epidemiologici e le valutazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: la malattia ha sempre più una connotazione sociale (e questa è scoperta certo non recente), ed è nel sociale (l'ambiente di vita, la qualità delle relazioni umane, il livello di informazione.:.) che si giocano carte decisive per le chance di prevenzione e di efficacia della cura. Ecco allora che questo saper fare ha valenze di farmaco e l'intervento sociale diventa la prestazione d'aiuto principe di una società meno medicalizzata e in questo più matura. E torniamo così al problema, l'esistenza e la trasmissibilità di un sapere nel sociale. Se cruciale è questa sfera delle prat!che d~ inte1;7~nto,p_ercui ogm relazione d amto diventa laboratorio di sperimentazione e può così contribuire alla cumulazione di un sapere, allora socializzare quanto si fa, informare sui diversi tentativi seguiti (i insegnare la storia a1 bambini, parlare a un malato terminale, riacciuffare alla vita un'anoressica .. .)'diventa il racconto per eccellenza. Doveroso e spesso affasci-

nante, con qualche avvertenza però. C'è un rischio: bisogna stare attenti a non fare del racconto della pratica il rendiconto di una tecnica, ossia denudare di contenuti l'agire sociale. Lo sottolineo perché è un rischio che fa parte del nostro tempo, e questa. moda della "tecnica" (si pensi al suo uso in politica) è già da anni dominante. in molte discipline• .di ricerca - l'economia, per dirne una - e sottende spesso l'ideologia (lei, che di ideologia dovrebbe esser priva) del1' assoluta strumentalità di ogni elemento in gioco, per obiettivi e scopi che sono dati "esternamente" (la tecnica è meretrice per definizione, "al servizio di chiunque la usi"). Non è un caso, credo, che "La terra" si sia data· l'obiettivo di non perdere mai di vista i presupposti dell'agire, gli elementi di senso, la sfida politica dell'intervento sociale. Ed è questo, io penso, il compito più difficile, il punto in cui più facil_mente te<;>ria.e prassi entrano m corto circuito. La molla della teoria Proviamo infatti a riflettere su quale linguaggio sta alla base dell'intervento sociale; è quello, estremamente stringente e improcastinabile, della relazione d'aiuto, del bisogno, della sofferenza. Difficile sottrarsi alla forza di questo linguaggio, difficile trovare una dialettica, difficile trovare uno spazio di negoziazione: il rischio che corre chi opera nel sociale è spesso prof rio quello di soccombere - i burn-out degli operatori - di non reggere lo stress della relazione s'aiuto, di non sviluppare l'autoconservazione che pre~ servi dal pericolo di esser inghiottiti dal lavoro di cura, dall'ascolto costante della sofferenza dell'altro. E probabilmente la salvezza sta proprio .in un equilibrio tra la generosità e l'autoconservazione. Una c~ltùra materna, cioè di assoluta dedizione alla richiesta di chi si ha a c~ore, può essere capace di grandi gesti ma anche rovinosa per chi se ne fa portatore. Quello dell'intervento sociale è un mondo dove si rischia costantemente di esser imbrigliati nella logica dell'esclusiva e incondizionata soddisfazione del bisogno altrui: anche quando questo è sgradevole espressione della crudeltà di un bambino, della violenza di un ragazzo handicappato, del cinismo di un anziano, dell'ingratitudine di un barbone, dell'assoluta illealtà di un tossicodipendente. Temo che proprio questo indurimento del linguaggio, questa fatica della relazione (per quanto straordinari possano essere certi momenti o certe comunicazioni) tolgano parole e energie a chi li vive, e abbassino moltissimo la disponibilità all'ascolto su questi stessi temi. Estremizzando: chiuso nell'ottica della relazione individuale - ma già qui sta l'errore, perché è un servizio non il singolo operatore che dovrebbe prendersi in carico l'utente e l'affettività va gestita, al pari di altre risorse - chi interviene nel sociale spesso perde la percezione di una scala di vita più grande·, di una dimensione· nella quale è iscritto il senso · del suo operato e il suo pre- - ziosissimo valore. E non mi sorprende, né si può biasimare, il fa~t~ che le op~ra~rici d\ un serv1z10 per anziani, assai bre:ve, mi raccontassero come il momento più atteso della giornata fosse sempre il "pomeriggio con S!;!ntimento" di Retequattro. E l'evasione, il sogno, qui coniugato nella favola delle telenovelas (che davvero sono la cosa più distante dal mondo di una casa di riposo), forse là dove altrove si declina come la favola del milione di posti di lavoro (che davvero sono la cosa più distante al mondo dalla nostra economia). In comune c'è for- · se la mancanza di una cultura, intesa come consapevolezza, capacità di cogliersi in un disegno più vasto, dove i posti di lavoro sono sirene e le telenovelas non ritraggono alcuna fra le vite possibili che potremmo scegliere o da cui, più verosimilmente, saremo scelti. Ma questa è teoria, appunto. Il fatto è che la conoscenza dell'intervento sociale po~ ne di fronte a questo scacco, che le idealità che gli si attribuiscono non sono sempre un patrimonio scontato o consapevole. Quella fatica, quelle relazioni, quel linguaggio incidono profondamente sui bisogni stessi di chi ci lavora, così come la condizione di sofferenza, malattia o disagio ridisegna la nostra umanità a modo suo, rendendoci per esempio spesso molto peggiori (crudeli, violenti, cinici, ingrati, sleali appunto). Una trasmissione del sapere che da questi mondo parta e a questo mondo in parte arrìvi deve fare i conti contale geografia di aspettative e desideri, dove la valenza politica del proJ?rio gesto da un lato e la gratitudine per l'aiuto ricevuto dall'altro possono essere ingredienti secondari: Eppure non bisogna demordere, e non deve esserci · prassi senza teoria. La pratica sociale non può cioè essere sgantiata dalla consapevolezza dell'agire, dal senso politico del gesto, inteso come riconoscimento di un lato. ~iusto e uno sbagliato, di az10ni da intraprendere e altre no, di persone da avvicinare e altre da lasciar perdere. E si tratta proprio di ricucire, perché credo che la cultura degli ultimi 15 anni abbia prodotto . proprio questo effetto, a 360 gradi: far credere che esista una prassi senza teoria, che esista la tecnica, neutrale, che non esistano ideali da condividere ma solo nicchie di consumo, che la personalizzazione del prodotto e del servizio sia l'unico imperativo condivisibile, e come tale non abbia alcuna idea o teoria alle spalle, se non le proprie esigenze di consumatore. È il regno del micrò sul macro, dello scambio di bisogni individuali contro bisogni individuali, dove allora il senso dell'improba fatica d un lavoro ·di cura non è più interno all'agire ma rischia di esser quello di "rifarsi" su altri ambiti, consumando telenovelas riconosciute a questo punto come un diritto. Alimentando per questa via la catena dei consumi (e la raccolta del consenso, per fini elettorali e non solo), ma anche una buona dose di alienazione. Ritrovare la teoria, cioè la cultura della relazione d'aiuto, intesa come consapevolezza della sua cruciale importanza, riconoscimento di ruolo (come diritto, ad esempio, di chi aiuta ad essere a sua volta aiutato) e di significato ·sociale (anche a fronte di una frustrazione diretta nel proprio tentativo), sapere prezioso e continuamente crescente, gesto politico e riv,oluzionario perché fuori mercato, coscienza degli int_eressi e del contesto più vasto entro i quali si~m_osempre e ·comunque 1scntt1. Questa è una molla che bisogna caricare. ♦

Cosa chiedere alla Chiesa. L'appuntamento di Palermo VinicioAlbanesi Vinicio Albanesi, sacérdote, è presidente · della Comunità di Capodarco e del Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza). ♦ Nel prossimo Novembre si svolgerà a Palermo la terza assemblea ecclesiale italiana: un appuntamento per esaminare la situazione italiana dal versante ecclesiastico. P.er chi non è dentro il problema, si tratta dello "stato della nazione": più di 2.000 delegati, in rappresentanza di tutte le chiese locali, affronteranno il ·tema della "testimonianza della carità". Due precedenti appuntamenti sono stati "celebra~i" nel 1976 ( a Roma: "Evangelizzazione e promozione umana") <:: nel 1985 (a Loreto: "Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini"). Sono appuntamenti che servono a capire la "salute" della Chiesa italiana, ma soprattutto a programmare, nei limiti di come è possibile una programmazion-e nella Chiesa, il futuro. Palermo è stata scelta perché emblema di strazio e di rovina, ma anche di speranza. Sembrano passati anni luce dalle stragi e dalle morti (non solo di magistrati, ma anche di cittadini e di preti) di tre anni fa e dalla volontà della città di rivoltarsi contro l' oppressione. Oggi Palermo ha già assunto l'immagine di pietosa quotidianità - di questi giorni gli allarmi dei magistrati - anche se rimane "luogo" idoneo a guardare il futuro. Per chi· non è dentro, molto dentro al linguaggio e alle situazioni della chiesa italiana (non solo gerarchica) è difficile capire che cosa succede. e se succederà qualcosa. Il documento preparatorio a Palermo, intitolato Il Vangelo della carità per una nuo-. va società ·in Italia che sta facendo da canovaccio alla riflessione di migliaia di comunità, dalle parrocchie alle congregazioni di religiosi e religiose, dalle associazioni ai movimenti, ha cinque grandi obbiettivi: la cultura e la comunicazione sociale, l'impegno sociale e politico, l'amore preferenziale per i poveri, la famiglia, _igiovani. A parte la confusione tra finalità, contenuti e destinatari, l'oggetto della riflessione di Palermo è la società italiana nel suo complesso. I cinque ambiti di riflessione, in linguaggio, esplicito, attraversan_do la politica, la cultura; il sociale, la povertà ,e la famiglia, le prospettive delle giovani generazioni, di fatto vogliono analizza~e jl. ra.eporto tra Chiesa e soc1eta italiana. . Le premesse non sono troppo buone se, al n. 9, il documento preparatorio ricorda una serie di "problematiche", ammassando fenomen_i(mafia, degrado politico, tutele, nord-sud, disoccupazione) complessi e diseguali e che presupporrebbero una vis.ione unitaria e un ~iudizio complessivo capace d1 leggere il "problema" Italia. Da questo punto di vista il mondo cattolico ha pochi strumenti di lettura: o.scilla paurosamente tra approcci (strutturali, economici, culturali, morali, educativi) diversi e contraddittori. Ma ìl problema non è qui. Il problema vero è come la .Chiesa italiana si pone di fronte alla società italiana, non già in trasformazione, ma trasformata. Come cioè questi due mondi (Chiesa e società) che hanno in comune gli stessi soggetti, (cittadini/cristiani) possono dialogare nel rispetto reciproco della loro peculiarità: il messaggio evangelico da una parte, la laicità della convivenza dall'altro. È diffi<;ile, in sintesi ampie, affrontare le complessità dei due mondi e il dialogo possibile. Molte tensioni recenti dei rapporti Stato-Chiesa sono denvate da visioni diverse, se non confrastanti, di questo rapporto. Ma non _èdi questo che vogliamo occuparci'. Dando per scontato che comunque un dialogo possa e debba esistere, se non altro perché "alcunj destinatari" sono gli stessi, preferiamo affrontare, dal versante ecclesiastico, le sfide che la frasformazione della società italiana pone alla Chiesa. Alla fin fine la Chiesa si chiede come affrontare il terzo millennio in termini di spiritualità e, con parole care a Giovanni Paolo II, di nuova evangelizzazione: come cioè riproporre il messaggio di Cristo a popolazioni già battezzate. Per motivi di chiarezza è preferibile sezionare i passaggi della riflessione, soffermandosi su tre momenti: - le problematiche interne della chiesa italiana - le problematiche della società italiana - che cosa sperare da Palermo.· La Chiesa italiana . Generalizzare non è mai il miglior metodo per affrontare i problemi: pur con le dovute cautele, si possono descrivere i tratti di questa Chiesa italiana. La prima caratteristica è la sua frammentazione. Si parla di "cattolicità", ma i volti della. chiesa italiana sono molti. In termini organizzativi si

possono riassumere in quattro grandi segmenti: il mondo parrocchiale, il mondo dei movimenti, quello del volontariato, il mondo dei religiosi e delle religiose; in termini metodologici (la fede è la stessa) la distinzione passa tra una visione "spiritualista" e una "sociale" del mondo. Le concezioni della fede e della sua trasmissione, la necessità del dialogo, le priorità dell'impegno, il "giudizio" sull'attuale mondo, con relativi scherni, riferimenti, metodi di approccio, sono molti e diversi. Lo sconcerto di trovarsi di fronte a "molte Chiese" spesso corrisponde ai· mondi dell'unica appartenenza "dei cattolici". La seconda caratteristica è la "stanchezza". La Chiesa italiana come d'altra parte molte delle Chiese europee, si ritrova ad affrontare il mondo t.rasformato senza grandi "proposte". Si potrebbe par-. lare di un cattolicesimo "sfinito": incapace cioè di definire quali sono i problemi centrali della popolazione occidentale e quali le risposte "religiose" necessarie. Analisi, proposte, tentativi sono molti, ma tutti con la caratteristica di non avere capacitf veramente propositiva. Ripetere, con molte varianti, lo stesso messaggio, quando è inascoltato, diventa frustrante, a meno che non offra esso stesso, n~ll' enunciazione, gratificaz10ne. Il tutto aggravato da un linguaggio sempre più iniziatico: la difficoltà di dialogo infatti porta a ridefinire in Y.QQ. proprio i riferimenti, i linguaggi, le metodologie. Da qui il distacco dalla vita e dalle culture prevalenti, con una duplice tentazione: da una parte l'ag~ressività, dall'altra, la solitudine. La terza caratteristica è la "paura". È diffuso nel mondo cattolico un clima apocalittico di sfiducia e di timore da fine millennio. La natura, la scienza, le rivendicazioni soggettive sono vissute come "nemici" da cui difendersi, senza avere la forza della "tranquillità" e la capacità di lettura della domande che una cultura, a volte ostile, pone alla problematica della coscienza cattolica. È in atto, nella società italiana, certamente una sfida: la stessa sfida che altre civiltà e culture in transizione hanno posto in luoghi e tempi diversi. La società civile Affrontando invece le caratteristiche della società italiana rispetto alla religiosità, si possono indicare i seguenti connotati. · La società italiana sta orientandosi verso una religiosità "naturale". Una specie di mix composto da coscienza delle origini e aggiornamento soggettivo ai problemi vecchi e nuovi della vita. Una religiosità diffusa, ma incontrollabile: fede, credenze, miti convivono tranquillamente, con il rifiuto di una fonte unica, storica e seria della propria fede, alla quale pure molti dicono di riferirsi. L'influenza di una religiosità storica, come il cattolicesimo, che ha le sue verità e i suoi orientamenti diventa così a segmenti: ora sì, ora no, oppure, ancora più drammaticamente, sì e no. Non si tratta nemmeno di coscienza delle situazioni, ma di coscienze, di volta in volta, facenti appello o rifiutanti il soprannaturale. La seconda caratteristica è il soggettivismo, con tutte le sue varianti che le situazioni personali e sociali pongono. La religiosità è così schizoide: presa e lasciata, invocata e respinta, con riferimento alla dottrina o alle emozioni, istituzionale e personale. Da ultimo una religiosità privata, nella dimensione personale della vita, che nulla ha a che spartire con la dimensione pubblica. Leggi "naturali" (in quanto prevalenti nella società) reggono la vita della nazione e i rapporti tra gruppi e individui: in questa dimensione la religiosità non ha diritto di cittadinanza, non interferisce. In altre parole la protestantizzazione dei rapporti stato-religiosità, con l'affido allo stato di una . . vera e propna coscienza morale e spirituale. Si spiega così, almeno in parte, la secolarizzazione della cultura e dell'informazione: quasi un fermarsi alle soglie della coscienza per affrontare, a prescindere da ogni riferi- . mento "spirituale", i fatti della vita. Un silenzio pesantissimo che non è solo convinzione di materialismo e scetticismo, ma rifiuto della dimensione spirituale: un "vergognarsi" che non ha creato né civiltà, né dialogo. La discussione sui temi della vita diventa così pro o contro il cattolicesimo, senza scelte e senza suggerimenti. Le attese di Palermo Il tema da discutere a Palermo è d'estrema attualità e coinvolge la vita sociale nella sua interezza: cultura, comunicazione, povertà, famiglia, prospettive dei giovani. Sarebbe un male che avvenissero fatti fuorvianti. Tra questi un appello eccessivo - e per q-uesto fuori d.i luo~o - del passaggio al terzo millennio; una lettura superficiale e affrettata della realtà italiana; l'arroccamento in rosizioni "aggressive" con i mancato esame di coscienza sulla pre-

senza della Chiesa in Italia; urÌ happening celebrativo; la chiusura della riflessione all'interno della vita ecclesiale: tutti rischi che non farebbero rispondere alla sfida posta. La sfida è facile e terribile: la "significatività" di una religione, 9uella cattolica, all'interno d1 una società avanzata e opulenta. L'insistenza sulla testimonianza della carità significa che questa sfida è portata sulla "contraddizione" più evidente di una società che si dice cattolica e che è ricca, ma che nasco_nde ancora molte, troppe povertà. La ricchezza pone il _problema dell'idolatria, della negazione stessa di Dio; per questo è il tema nodale sui cui s'avviluppa la riflessione sulla società opulenta italiana. Il cuore del problema è qui: da vari anni questa sfida si è fatta sempre più evidente. Non rendersene conto o ignorarla significa perdere un tratto di storia. La risposta può essere data offrendo una proposta complessiva e religiosa. La proposta complessiva riguarda i temi fondamentali della vita: risponde ai significati "misteriosi" della felicità, della morte, ·del dolore, del ·senso, dell'immortalità, dell'infinito, dell'altro, del mondo ... Ridurli a economia, scienza, comunicazione è disumano. La felicità, per riprendere S. Agostino, è l'unica molla d'azione della creatura -umana: questa felicità va collocata, dialogata, resa partecipe. Ogni qual volta la si privatizza, la si impoverisce, diventa interesse, indiffer.enza, lotta, prevaricazione. Essere felici per sé, negando la felicità ali' altro, significa negare anche la propria felicità. Alla radice della parola cattolica "carità" infatti s'incarna il significato della felicità totale: con sé, con gli altri, con il mondo, con Dio. La civiltà moderna, con le sue scienze e le sue risorse non offre la totalità della risposta: s_fugge alle domand~ _che ogm c-reatura umana s1 pone; per gestirle in privato, mercificandole. La Chiesa cattolica mettendo a disposizione la "sua" risposta, recupera coerenza. Il Dio in cui crede è un Cristo povero in quanto è vicino, dialogante, misericordioso, generoso. Accoglierlo o farne a meno è nella libertà di ciascuno, ma non si può sezionarlo, stravolgendolo. Da qui il dovere di sequela per i cattolici stessi, con la coscienza di un'umiltà che confessa le contraddizioni e i tradimenti, ma anche con la forza del messaggio integrale. Il messaggio non è J?Olitico, né culturale, né sociale: è religioso. Appella al trascendente e al significato globale dell'esistenza; mette in dialogo con il soprannaturale, fa conoscere il volto di Cristo, fa arrivare a Dio, riverbera n_elquotidiano noioso e decisivo. Parafrasare tutto ciò può essere un problema, ma non è il problema. Il problema è come dare valore alla vita, propria e di tutti; dell'Italia e del Mondo, a partire dalla domanda religiosa. Questo ci aspettiamo da Palermo, con Fiducia. ♦ Il progetto "Libera", contro la mafia Giorgio Morbello Giorgio Morbello fa parte della redazione di "Narcomafie". ♦ Estate 1993, vacanze in Sicilia. Ho un guasto alla bicicletta e cerco un ciclista a Palermo. Ho l'indirizzo, è una via ai confini della Vucciria, il più grande mercato della città, ma nonostante la cartina non riesco a trovare il punto preciso. All'incrocio tra due vicoli, un militare. È giovane, ha la faccia sveglia e mi rivolgo a lui anche con l'intenzione di rompere la noia di quelle ore passate in piedi a sorvegliare il "territorio" .. La sua risposta, in dialetto: "Non so niente, sono veneto". Lo Stato. Oggi si corre un grande rischio nell'analizzare i problemi e gli aspetti della criminalità organizzata: tutto diventa mafia. Le inefficienze burocratiche, i furti, le tangenti, il clientelismo, le raccomandazioni, le incapacità dei governi locali ... Ma dire che tutto è mafia, significa che niente è mafia. La criminalità organizzata ha invece caratteristiche sue proprie ben definite e distmte, che non possono essere confuse semplicemente con tutto quello che ostacola la crescita sociale e civile di un paese. Il suo aspetto fondamentale sta forse nel controllo del territorio, il dominio mafioso su un q~artie_re·o ·su un comune non s1esprime solo con un controllo militare dei t~affici di quella zona, ma piuttosto significa che gli abitanti di quel quartiere ottengono risposte alle loro domande d1 identità, sicurezza, servizi, rivolgendosi al boss locale, mentre "l'istituzione" non è in grado di essere interlocutore credibile. Quando il mercato del lavoro è gestito da cosche mafiose, che seppure in condizioni di sfruttamento sanno offrire posti e salari, quando grandi aziende si rivolgono alla camorra per smaltire i propri rifiuti in maniera rapida e poco costosa, quando l'accesso al credito è precluso a moltissimi piccoli e medi imprenditori che decidono così di rivolgersi agli usurai, quando la microcriminalità scompare nelle zone controllate dal boss ..., allora vuol dire che. la mafia controlla un territorio. Questi non sono che gli aspetti più visibili, perché i territori finanziari che la potenza economica mafiosa può controllare sono ancora per gran parte inesplorati. È chiaro che a fronte di fenomeni di queste dimensioni e di questa profondità, il soldato di leva all'angolo tra i due vicoli non può che suscitare sentimenti di simpatica commiserazione, mentre un fastidio quasi stiz-

zito è la reazione al vedere così tante e inutili autoblindo girare per le vie di Palermo. L'azione di contrasto ai fenomeni mafiosi non può essere compito esclusivo degli organi investigativi e repressi-· vi dello Stato. Anzi proprio i successi che negli ultimi anni sono stati ottenuti su questo versante, ma che non paiono aver portato risultati tangibili nel quotidiano (il traffico e la distribuzione di droga continuano a prosperare, il fenomeno dell'usura è in crescita, il modello sociale proposto· dalle mafie è ancora appetibile...) dimostrano come forze di polizia e magistratura, da sole, possano fornire risposte necessarie certo, ma non complete. C'è un altro punto: l'impegno della cosiddetta "società civile" non può più passare solamente attraverso le manifestazioni d'affetto e di sosçegno a poliziotti e magistrati. Intendiamoci: i lenzuoli alle finestre, le catene umane attorno ·al palazzo di giustizia di Palermo, le fiaccolate notturne sono state e sono segnal_i importantissimi di cambiamento, ma pur sempre simboli. Si tratta ora di contendere "palmo a palmo" il territorio alla "signoria mafiosa". Cioè contribuire alla creazione di una comunità di cittadini in cui i bisogni e le esigenze delle persone trovino dignità e ascolto, e nella quale ognuno possa sentirsi rappresentato e tutelato. Il terreno è quello della concretezza e del quotidiano, il metodo quello della rappresentanza democratica, dell'organizzazione associativa, della pàrtecipazione. Per obiettivi di questo tipo è necessario il sostegno di tuti:i, ciascuno secondo le proprie competenze. Molte sono le realtà più o meno piccole, più o meno organizzate che si sono mosse in questo senso: il Centro soçiale cieli'Albergheria di Palermo, l'Osservatorio pugliese sulla criminalità per la legalità e la nonviolenza di Bari, l'Osservatorio meridionale di Reggio Calabria e Catania, il Centro Impastato di Palermo, e poi come non ricordare don Diana; don Puglisi e quanti in parrocchie, cooperative, gruppi di volontariato hanno già da tempo, in silenzio, incominciato a studiare e a lavorare per ricostituire il tessuto sociale, proprio partendo dalle esigenze del quotidiano: la casa, il lavoro, il tempò libero ... È il momento di mettere in comunicazione co~petenze, espenenze, sa- ,pen. "Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" è nata proprio in questa prospettiva: dare peso, struttura, coordinamento alle numerosissime iniziativ.e presenti in tutta Italia. A "Libera", nata ufficialmente il 25 marzo 1995, aderiscono più di 400 realtà associative, raggruppate regione per regione. Accanto alle associazioni più organizzate e che da più tempo ope-. rano nel sociale, come l'Arei, le Acli, Lega Ambiente, il Gruppo Abele, la Uisp, la Lila, il Siulp (sindacato di polizia) ... sono presenti, con eguale dignità, piccole cooperative, gruppi di volontariato, parrocchie eccetera. Non si tratta certo di omologare l'impegno, ma piuttosto di dare voce e peso politico alla plurali~à di iniziative, idee, progetti e proposte. Antimafia, lotta al crimine organizzato, guerra contro le mafie ... "Libera" vuole impegnàrsi ~ trasfo:mare tutto questo rn occas10ne per costruire democrazia e fartecipazione, partendo da basso, dai quartieri, dai vicoli, dalle periferie. Dallo statuto: "'Libera' si costituisce per perseguire le seguenti finalità: (...) favorire la nascita di un collegamento stabile tra tutte le assoc_iazioni, gli ent·i e gli altri soggetti collettivi impegnati per la legalità e contro le mafie nei diversi settori di attività civili e sociali; ( ...) promuovere una cultura della legalità, della solidarietà e dell'ambiente basata sui principi· della Costituzione; (...) promuovere l'elaborazione di strategie di lotta nonviolenta contro il dominio mafioso del territorio." "Libera" può anche essere il f uogo d'incontro tra culture e rriodi diversi di intendere la lotta alle mafie, in uno sforzo di comprensione e di collaborazione. Un esempio: le forze di polizia a volte sono intese dal mondo del volontariato e da chi ope~a sulla· strada come espressione di forza e repressione, poco attente a distinguere tra caso e caso, a leggere dentro alle pieghe di una storia ai margini della legalità. Riuscire a costruire mediazione e comunicazione tra queste esperienze significa anche lavorare più efficacemente perché controllare un territorio non voglia solamente dire "occuparlo" ma piuttosto viverlo e renderlo vivibile. Le prime iniziative su cui "Libera" ha deciso di impegnarsi rappresentano i punti di partenza di un lungo percorso di ricostruzione e riconquista: la raccolta di firme a sostegno dei progetti di legge per la confisca dei beni ai mafiosi e ai corrotti e per il loro utilizzo a fini sociali, e un particolare impegno nei confronti di un'educazione alla legalità. Sono questi i due temi chiave: da un lato la possibilità di restituire beni, proprietà, denaro in qualche modo sottratti alla comunità, trasformandoli in strumenti di solidarietà e ricostruzione sociale, dall'altro la necessità di contrastare i fenomeni mafiosi sul terr~no cu\turale, per recuperare m mamera concreta e non solo annunciata il senso dello Stato come spazio fisico e simbolico di collabo- . . . raz10ne, partec1paz10ne e condivisione. Cariche e indirizzi: Ufficio di presidenza: don Luigi Ciotti, presidente; Rita Borsellino, Emanuele Braghero, Leandro Limoccia, vicepresidenti; Maurizio Donadelli, tesoriere. Collegio dei probiviri: Saveria Antiochia, Maurizio De Luca, Piero Fantozzi, mons. Raffaele Nogaro, Carla Rostagno. Collegio dei revisori dei conii: Patrizia Carboni, Stefano Colonnelli, Daniele Forconi. Per adesioni e informazioni Federico Bonelli, c/o la sede na· zionale di "Libera", via Marcor; 18, 00153 Roma. Te!.: 06 5840406.

Lavoro e salute alla fine del secolo Francesco Carnevale Francesco Carnevale è medico · del lavoro presso il Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro di Firenze. • "Il lavoro costituisce an- . che oggi, e costituirà ancora per molto tempo, uno dei più potenti fattori di malattia è di morte, la cui importanza reale supera quella che molti tra gli stessi medici gli attribuiscono". Così sentenziava, correvano gli anni Venti di questo secolo, Giovanni Loriga, medico e ispettore del lavoro. La sentenza non faceva altro che confermare, aggiornandole, valutazioni dello stesso significato fatte a più riprese anche in periodi precedenti sulla base dei dati disponibili, quelli soggettivi e quelli, in alcuni casi, obiettivi e quantitativi. manierà esemplificativa del fenomeno appena descritto, vengono riportati alcuni risultati di una indagine recente ~ulla mortalità occupazionale, di G.Costa e collaboratori (vedi tabella 1). · È bene avvertire che i dati di mortalità per patologie cronico-degenerative, quali sono quelle che più frequentemente oggi portano a morte e cioè le malattie cardio-vascolari e le tumorali, sono considerate espressione di esposizioni a rischi realizzatisi nei due-tre decenni antecedenti il decesso. Quelli sopra riportati rappresentano pertanto soggetti che hanno lavorato e vissuto a cavallo degli anni Sessanta. Bisogna considerare inoltre che i dati · di mortalità occupazionale spesso non possono essere letti in maniera separata, escludendo cioè con sicurezza il concorso o il subentrare di altri fattori o determinanti che caratterizzano le ineguaglianze sociali. Tra questi fattori risultano più importanti: la direzione e il peso dei meccanismi di selezione capaci di attirare i soggetti con peggiore stato di.salute in basso nella scala sociale; i.differenziali sociali che determinano esposizioni a fattori di rischio ambientali compresi quelli determinati da alcuni stili di vita e dalla privazione di fattori protettivi; il diverso accesso alla diagnosi e alla cura con ridotta efficacia di alcune prestazioni sanitarie. Negli ultimi venticinque anni ha avuto modo di svilupparsi, in quasi tutti i paesi industrializzati e anche in Italia, una situazione caratterizzata dall'aumento della produzione nei servizi, dalla riduzione del peso occupazionale dell'agricoltura e da un incremento della produttività nel settore industriale. Nella nuova fase dell'economia e del lavoro, sorretta da un ruolo specifico giocato dall'innovazione tecnologica, denominata da alcuni come post-industriale e dai più postfordista, emergono, come fenomeni non contingenti bensì strutturali, la riduzione dell'occupàzione con crescente difficoltà di accesso' al lavoro nel tempo anche per le componenti più giovani e per le donne, specie nel Mezzogiorno, e una accentuazione della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Molti altri sono i fenomeni accessori o varia- .mente correlati con i precedenti e tra questi: la mondializzazione dell'economia e quindi del lavoro con produzioni accentrate in alcuni paesi e allontanate da altri, un surplus di offerta di lavoro, rappresentato principalmente da lavoratori migranti, nel terziario cosiddetto arretrato e in lavorazioni sporche o più faticose che non scompaiono neppure nei paesi più ricchi, · la sopravvivenza o lp.resurrezione di particolari aree produttive fatte da piccole o piccolissime aziende con più o meno grandi risorse tecnologiche dove vi_ge sempre un uso intensivo della forza laOggi (ma non da molto tempo) i dati disponibili e specialmente quelli obiettivi sono sicuramente più affidabili. Essi testimoniano indiscutibilmente del fatto che in Italia, come d'altra parte succede, anche se con alcune differenze quantitative, in tutti gli altri paesi industrializzati, la mortalità generale degli anni Ottanta studiata mediante indicatori sociali quali istruzione, abitazione e posizione professionale presenta diffe.,. renze molto pronunciate. Tali differenze fanno capo soprattutto agli uomini giovaniadulti e alle regioni del Centro-Nord. Le disuguaglianze mteressano quasi tutte le cause. di morte e, con. particolare intensità, quelle influenzate da fattori di rischio prevedibili. È stata osservata una netta separazione tra gli addetti a lavori più umili, sporchi, pesanti da una parte, caratterizzati da una più alta mortalità,· e, dall'altra parte, coloro che hanno svolto occupazioni intellettuali, tutti distinti da una forte protezione nel rischio di morte. TABELLA 1 Nella tabella seguente, in10professioni con più alta mortalità (':) camerieri, cuochi, baristi pavimentatori, cantonieri facchini, scaricatori spazzini, pulitori fabbri, fucinatori fonditori operai elettronica lavoratori· commercio - portieri, guardiani -. operai metalmeccanici 1Oprofessioni con più bassa mortalità (') - ufficiali forze armate impiegati di banca - impiegati gomma-plastica impiegati elettronica - veterinari - medici impiegati siderurgia · dirigenti di pubblica ammini• strazione - impiegati metalmeccanica - insegnanti ('') mortalità generale, uomini 18-64 anni, Torino 1981-1989 (G. Costa e coli., 1995)

voro. Certo alcune di queste condizioni sommate ai risultati, molto tangibili in Italia, delle lotte operaie degli anni Settanta sono state tali da ridurre o spost~re le lavorazioni altamente pericolose; ciò è avvenuto generalmente in tutti i settori produttivi e specificamente rn alcune aree del paese e in alcuni cicli lavorativi f articolarmènte interessati da cambiamento tecnologico o dalla concentrazione produttiva. Questa metamorfosi del lavoro che ritonosce stretti legami con l'economia e con lo stato sociale non può risultare estranea, anzi è strettamente correlata, con la salute e la sicurezza di tutti coloro che in un tale sistema, a vario titolo, lavorano o non lavorano. Il quadro relativo alla salute dei lavoratori viene ad essere più _pr~cisamen_tdee~ineato propno m questi mesi grazie alla trasposizione della normativa italiana della maggior parte delle Direttive delle Comunità Europee. Si tratta di una normativa che nel mentre tende ad "armonizzare" nei vari paesi gli standard e quindi i costi della salute nei luoghi di l~voro, determina procedure e ruoli della prevenzione che sono per molti sensi innovativi per l'Italia. Anche per la salute dei lavoratori l'intervento pubblico capillare e specifico (voluto dalla legge di Riforma sanitaria del 1978) deve essere sostituito da un protagonismo dei datori di lavoro e da una 'i_Qçj_ "partecipazione" finalizzata e precisamente regolamentata dei. lavoratori e dei suoi rappresentanti. L'avviq del sistema così innovato si annuncia ricco di difficoltà e carico 'di effetti, alcuni dei quali potenzialmente ne~ativi: retrocessione sino agli standard europei di alcun risultati più avanzati ottenuti e ancora mantenuti da alcuni gruppi di lavoratori in Italia; incapacità o non volontà da parte della maggioranza dei datori di lavoro di assumere questo ruolo culturalmente egemonico e fattivo nel campo della prevenzione così da vanificare la prospettiva che tutti i lavoratori raggiungano almeno quegli standard europei; impossibilità, in alcuni casi, di sopportare da parte dei datori di lavoro gli oneri occorrenti al raggiungimento di que~li standard con conseguente difficoltà di restare alla luce del sole sul mercato e ricorso al lavoro clandestino. La "privatizzazione" ·e per certi aspetti la rinuncia formale (quella sostanziale è da tempo liberamente esercitata in molte Regioni) da parte dello stato e delle istituzioni al governo reale, anche se indiretto, dei problemi della salute. dei lavoratori si affianca alle abdicazioni esercitate in molti altri campi della sanità, dell'assistenza, della previdenza, dell'occupazione. Viene ripercorsa in questo modo una strada di ammodernamento e di progresso per nulla originale, ma probabilmen- .te più pericolosa, per ampi strati di popolazione e di lavoratori, di quella se~uita in altri paesi industrializzati a partire dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. In questo modo, invertendo alcune tendenze degli ultimi decenni che pur abbond.avano di contraddizioni, si perpetuano o addirittura risultano peggiorate le condizioni che debbo~ no essere riconosciute alla base che poi determinano le inegu agli an ze sociali e anche quelle sanitarie misurabili in termini di mortalità e anche di incidenza di malattie invalidanti delle quali si è parlato prima. Ai rischi professionali ·non controllati come determinanti di ineguaglianza se ne possono sommare degli altri, m una reazione a catena che interessa sempre gli stessi gruppi sociali capaci per altro di ingrandirsi reclutando numeri più grandi di soggetti che prima ritenevano di essere meglio garantiti. Riferimenti bibliografici Saverio Gazzelloni, Raffaele Pastore, Andrea Torna, Economia e lavoro: una nuova fase, in "La terra vista dalla luna", n. 22 1995. . Giorgio Lunghini, L'età dello spreco, Bollati Boringhieri 1995. Guy Aznar, Lavorare meno lavorare tutti, Bollati Boringhieri 1994. Ministero della Sanità, Regione Piemonte, Mortalità per professioni in Italia negli anni Ottanta, !spesi .1995. •

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