La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

Una merce come le altre? La fiera del libro a Torino Piergiorgio Giacchè I lettori in Italia sono pochi, e nonostante tutto ai lettori sta quasi bene così. Gli sforzi e i lamenti vengono da altre parti - dai librai e dalle case editrici, dai pochi scrittori e dai molti aspiranti, dalla televisione "intelligente" e dalle riviste ieri impegnate e oggi specializzate - ma non dalla loro: non si è mai visto un comitato di lettori che si .batte f er la maggior diffusione de leggere e del libro. I lettori mediamente si compiacciono dell'allarme terapeutico e del battage pubbli-. citario che si fa attorno al libro, ma solo perché ne ricavano un'aura di riflessa mondanità, magari in grado di tramutare in ·"immagine" quella che all'origine era una più solida ma meno appariscente "identità". Ed è l'immagine che fa le élites mentre l'identità al massimo fa 1~ minoranze ... e le minoranze - da che mercato è mercato - non sono un pubblico né fanno la · moda. Ora, naturalmente, non c'è contraddizione né scandalo se, appartenendo alla minoranza dei lettori, ci si trova promossi e gratificati come élite. Le due cose possono addirittura andare a rafforzare un'intelligente abitudine e incrementare l'acquisto e la lettura, ma non è detto che automaticamente producano più lettori. Questo è il dubbio che è legittimo porre dopo anni di campagne di f romozione a sostegno de libro, che - così pare - non hanno cambiato di molto la quantità e la qualità dell'utenza; questo è, comunque, il banco di prova o la prova dei banchi delle fiere piccole e grandì del libro. Così, naturalmente, non dà scandalo né fa contraddizione il fatto che ci si rechi a una fiera del libro più per sostenere la rropria immagine che per rafforzare la propria identità di lettore; come minoranza ci si serve nelle librerie, ma come élite ci si riconosce solo quando ..:..almeno una volta capita nella vita - ci si reca alla mecca del libro, quel salone di Torino che è capostipite e modello di tutte le fiere italiane. Sarà per questo che entrando da viaggiatori e spettatori nelle due grande scatole di libri del Lingotto, la prima impressione è quella di essere alla fiera del lettore invece che a quella del libro. In altri termini è facile riconoscere che il Salone del Libro eleva senz'altro la clientela a pubblico, ma poi lo disillude immediatamente come rappresentazione. · Lo spettacolo gli si presenta tanto imponente quanto avvilente, ma per la verità le due sensazioni non sono contemporanee ma successive. Se l'impatto può anche superare le aspettative, all'uscita non si possono frenare deludenti riflessioni. Quello che stupisce lo spettatore è l'esistenza stessa della manifestazione, ma poi, quello che lo ferisce, è una "normalità" eccessiva, un luogo e un modo che tradisce un'imperdonabile povertà di idee a fronte di prodotti che sono le idee per antonomasia. Detto in un altro modo, non si può dire che manchino i testi, e si deve per forza di cosa incolpare la regia. Ma di che cosa? Una fiera è una fiera, si dirà. È proprio questo il punto. Provando a immaginare negli stand una merce diversa dal libro, un prodotto qualsiasi, il risultato non cambia. La meticolosa e ordinata distribuzione dei distributori, le file composte e variamente proporzionate di boutique e banchetti, dove sostano in pigra attesa tanto i libri che i commessi o gli editori in persona (se si tratta di piccoli editori, ovviamente) fa della fiera una immensa libreria s-morta. La diversità e la vivacità è - come si è detto - tutta dei lettori, che davanti a tutto quel ben dell'uomo non nascondono un'iniziale erezione, rompono il solipsismo della ricerca e la regola del silenzio che di solito governa il loro rapporto con i libri, commentano e socializzano, si incontrano e si riconoscono e per di più fanno valere il loro essere in gita; il loro essere in festa. Dall'altra parte, c'è però solo il sussiego di aver moltiplicato lo spazio e la quantità, di aver esposto la novità e la qualità migliore, ma poco più, e invece molto di meno di guanto si potrebbe e si dovrebbe inventare. Non bastano le strade intitolate a Freud e Ribot, a Ghandi e a Topolino, a Liala e Einstein - con quel brivido di compiaciuta provocatorietà che ha fatto la felicità del suo ideatore, e di lui solo - per connotare lo spazio; non bastano i bar e le aiuole di sosta per riempire il tempo. Non bastano nemmeno le intense giornate di inevitabili dibattiti e presentazioni, incontri e discussioni, con gli inevitabili critici e professori, politici e televisori, che qualunque cosa dicano e facciano (e davvero non si vuole minimamente entrare nel merito) non riescono a evitare di rafforzare sempre più la forma della Fiera invece def contenuto del Libro. Una fiera che anzi, proprio attraverso la serie delle presenze "autorevoli" e degli incontri "interessanti" si lascia leggere sempre più come una convent10n d1 partito, anzi dei vari trasversali partiti del libro e della cultura che abitano la politica, ovvero sostano da tropP.o tempo nella sua metafora. È questo equivoco della politica culturale in luogo di una politica della cultura quello che frena le potenzialità di una fiera del lib_ro:inaugurato in anni e modi non sospetti, come apertura di un settore di impegno e di intervento sufficientemente autonomo e per lo più legato al mondo della scuola e del1' educazione, il "culturale" - soprattutto attraverso le sue derive televisive e informatiche - è entrato in una pericolosa simbiosi con il "politico", fino a guadagnare una relazione molto più stretta di quella dei tempi ormai folklorici dell'intellettuale organico. Così il festival de~li editori, dei giornalisti, dei professori, rischia di oscurare la fiera del libro gratificando ancoVOCI

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