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Guido Calogero

Il pugno di farina

Tratto da «Mercurio», anno I, n. 4, dicembre 1944

Nell’autunno del 1943 alcuni gruppi di amici si erano dati alla macchia nella zona montagnosa dell’Abruzzo che circonda il lago di Scanno. I tedeschi avevano già messo guarnigioni nei villaggi, e proclami bilingui minacciavano la distruzione delle case e delle famiglie in cui avessero trovato rifugio prigionieri alleati. Tuttavia i prigionieri liberati l’8 set­tembre dal campo di concentramento di Sulmona continuavano a passare per i sentieri di montagna, si fermavano nelle case, proseguivano verso il Sud. E a me capitava spesso di essere scambiato per uno di loro. "Signoria, ti vuoi fermare? -mi domandavano i montanari (giù, ad Anversa, manifesti rossi annunciavano l’avvenuta fucilazione di un pastore che aveva dato qualcosa da mangiare ad alcuni prigionieri nella sua ca­panna)- Vieni a mangiare con noi un poco di pane e for­maggio. Noi amici degli Americani”. Io cercavo il migliore accento abruzzese per convincerli che ero italiano. Ma essi mi guardavano con incredulità, e quasi con rancore, come se avessi dimostrato di non aver fiducia in loro.
Desiderio di guadagno, in questa loro profferta? Ma i pri­gionieri, per lo più, non avevano un soldo in tasca. Desiderio di crearsi una benemerenza, di avere una «carta scritta», un indirizzo, da esibire poi agli alleati, da poter forse adope­rare come appiglio per avere un giorno il permesso di tornare a lavorare in America? Ma le carte scritte erano pericolose, il pastore di Anversa era stato fucilato proprio perché teneva in tasca un foglietto con alcuni indirizzi, e quindi nessuno poteva desiderare di averne. Il loro atteggiamento non dipendeva da motivi d’immediato interesse. Certo, non si poteva neppure spiegarlo come effetto di un vero convincimento politico. Essi capivano poco di politica interna, e ancora meno di politica internazionale. Comprendevano che Mussolini aveva portato grandi guai, che per questo cattivo governo tanta gente nel mondo era costretta ad ammazzare e a soffrire e a morire, che i tedeschi erano venuti a rubare e ad uccidere e che bisognava aiutare chi voleva sfuggire a loro. Ma al di sopra di tutto questo stava il grande, indifferenziato senso omerico del sacro diritto dell’ospite, dello xenos, che ha le cose contro di sé e che deve essere protetto.
In questo senso, l’umile popolo dei pastori e dei contadini italiani dette allora al mondo una prova di civiltà, che non dovrebbe essere dimenticata, accanto alle altre offerte dai par­tigiani e dai politici. Questa rivolta morale era anonima: anche in ciò si manifestava il suo disinteresse. Neppure diremo quindi il nome di quel paesetto d’Abruzzo, nel cui territorio era tanto vasto il numero dei prigionieri, rifugiati in casolari e in ca­panne e in grotte di montagna, che l’intervento dei singoli non poteva più bastare a sostentarli. Allora le donne che andavano a macinare il grano al mulino decisero di lasciare ciascuna, dal proprio sacco, un pugno di farina per il pane dei prigionieri. Il paese si tassò con una decima di nuovo genere, i piccoli abruzzesi dovettero sfamarsi ancora meno di prima, per evitare che biondi giovani della Scozia e negri giganti del Sud Africa perissero d’inedia nelle grotte della Genzana. E gli alleati, sì, riuscivano talora ad avere segnalazioni e a gettare rifornimenti con gli aerei : però quasi sempre i paracadute finivano nelle mani dei tedeschi. I quali, se avessero saputo come andavano le cose, avrebbero evacuato o incendiato il paese. Ma le donne continuavano tranquillamente a dare il loro pugno di farina.
Questa alta serenità femminile è stata una delle caratte­ristiche della reazione ai tedeschi e dell’aiuto agli alleati. Noi conoscevamo la fermezza delle donne italiane di fronte ai me­todi polizieschi del fascismo, agli arresti e ai processi e agli interrogatorii di loro stesse e dei loro congiunti. Ma potevamo credere che tali fossero solo le donne che erano riuscite a rag­giungere un alto grado di educazione politica, appartenessero esse a famiglie di operai "sovversivi” o di intellettuali anti­fascisti. Il periodo dell’occupazione tedesca ci ha insegnato di che cosa sono capaci le nostre donne, anche soltanto per uno spontaneo senso di difesa della vita e della dignità umana contro ogni prepotenza.
Non dimenticherò mai una madre di famiglia di contadini marchigiani, dalle parti di Fermo. Essa era una contadina, essa aveva un padrone: ma a nessun altro il titolo di padrona, di domina, sarebbe spettato meglio che a lei. Non regnava soltanto, con potestà omerica, sui figli, sulle nuore, sui nipoti. Regnava anche, e con autorità non minore, su tutti gli inverosimili ospiti della casa: ufficiali e sottufficiali inglesi in divisa, che dormivano di giorno e operavano la notte; agenti italiani del servizio di trasporto dei prigionieri alleati; prigionieri di tutti i gradi e di tutte le razze, dai generali inglesi agli aviatori australiani. Un certo numero di letti della casa e grandi piatti di tagliatelle erano sempre a disposizione degli ospiti. I quali si alternavano, andavano e venivano, si sparpagliavano per le case dei contadini della zona, tutte le volte che dopo la vana attesa del boat sulla spiaggia (talora sotto le fucilate delle pattuglie tedesche contro i partigiani, che facevano la guardia e attendevano i rifornimenti di munizioni dallo stesso battello) si doveva tornare a cercarsi un rifugio. Così ci acca­deva, una notte, di essere ospiti nella ricca villa di un conte, e la notte appresso di dormire sulla paglia nella stalla di un suo contadino.
Ma di tutto questo via-vai la casa della Nunziata restava il quartier generale. Le squadre fasciste erano in giro: a Grottazzolina avevano sparato contro i prigionieri e contro i loro ospiti: ma la Nunziata non se ne dava per inteso. La sua tranquillità era contagiosa. Alle situazioni più imbarazzanti faceva fronte col suo marchigiano incomprensibile e con fragorose risate. Certe volte si dovevano o nascondere i tommiguns o tenerli pronti per l’uso: ma la Nunziata scendeva giù e trovava il più gaio pretesto per allontanare in pochi minuti il segretario del fascio del paese vicino, venuto in giro d’ispe­zione. La sua forza, del resto, era nella sua stessa cordialità umana: essa non aveva nemici, e quindi non temeva delazioni. E quando P., uno degli agenti segreti, si ammalò di tifo e io dovetti restare ad assisterlo e con grande invidia vedemmo par­tire tutti gli altri in barca a vela, la Nunziata lo curò come se fosse stato suo figlio. P. era italiano, ma delirava in inglese, e non era prevedibile quel che avrebbe potuto dire nel delirio. La Nunziata tuttavia non perdeva il suo sorriso. Dava del tu a tutti, senza distinzione tra generali e soldati, tra professori italiani e sergenti palestinesi: del resto non si preoccupava di sapere i nostri veri nomi. Ma il suo prediletto era L., il capo dell’organizzazione. Se avesse avuto una figliola disponi­bile gliel’avrebbe data subito in moglie.
La contadina marchigiana, la contessa dai nivei capelli che con tanta indulgenza versava il tè ai sette generali inglesi in attesa di fuga mentre il marito li esortava a combattere non solo l’imperialismo fascista ma anche quello anglosassone, la sarta di Sulmona organizzatrice dell’assistenza ai prigionieri liberati dal campo della Badia, sono donne che appartengono ormai a una sola famiglia. La lotta comune le ha ravvicinate, il loro ricordo è disseminato per il mondo. Al di là dei sette mari, molti uomini rammenteranno i loro volti, così come altri non dimenticheranno i volti delle guide che li portarono in salvo oltre le nevi della Maiella. Di tanto in tanto, qualche richiesta di risarcimento di spese arriva agli ufficiali alleati della Screening Commission. Gli ufficiali sanno che ci sono degli imbroglioni, che chi pre­senta maggior numero di documenti è spesso colui che più ha calcolato di servirsene, e per prudenza mandano in lungo la de­cisione delle pratiche. Con impeccabile scrupolo procedurale, non credono neppure alle attestazioni dei membri dell’Alta Corte di Giustizia. Forse pensano che in questo campo è molto difficile far giustizia, e quindi preferiscono fare il meno pos­sibile.
Ma gli italiani che hanno rischiato la vita per aiutare i prigionieri alleati, e che oggi sono in miseria, raramente chie­dono danaro. Tutt’al più, chiedono lavoro. Sono, anche in questo, un simbolo della vera Italia.
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