L'Unità - anno VIII - n.34 - 21 agosto 1919

Il numero delle artiglierie era poi troppo esiguo, specialmente per quanto riguarda i grossi calibri. Il 24 maggio 19r5, infatti, il nostro esercito non aveva che 370 batterie da campagna, 28 pesanti campali, 70 da monta– gna, 40 d'assedio, in tutto 1956 bocche da fuoco. di cui 1480 da 75 millimetri. Con que– ste artiglierie si poteva concludere molto poco. Il problema dei reticolati fu risolto per la prima volta dalle bombarde nella battaglia di Gorizia. Certo le artiglierie, specialmente le grosse, non s'improvvisano. E nel maggio 1915 il Co– mando Supremo dovè iniziare la guerra con gli elementi, che possedeva. E sarebbe ingiusto rendere responsabile il generale Cadorna di una impreparazione tecnica, che era l'effetto di molteplici cause politiche e militari. Ma un più attento studio della guerra di trincea sul fronte francese avrebbe dovuto consigliare as– sai prima l'impiego delle bombarde, in attesa che fosse possibile aumentare la grossa arti– g:licria. IL - Il mancato sfruttamento del successi tattici. Quando, dall'estate del i910 in poi, l'au– mento delle nostre artiglierie e l'impiego delle bombarde dettero all'esercito italiano la possi– bilità di sfondare le linee nemiche, mancò la capacità di sfruttare questi sfondamenti. L'esercito italiano sfondava i muri, ma non entrava nella stanza, per entrare ne 0 Ua quale aveva sfondato i muri. Il nostro esercito si fermava sempre sulla soglia della breccia, che col suo sforzo aveva aperto nelle linee avver– sarie. E poichè lo sfondamento di una linea costituisce una azione offensiva, il sagrificio, mentre il dilagamento dietro le linee nemiche ne costituisce il vantaggio, ne risulta che le nostre offensive facevano subire al nostro eser– cito lo svantaggio dello sfondamento senza il relativo vantaggio del dilagamento. Certo le nostre offensive, mentre logoravano senza grandi risultati il nostro esercito, logoravano anche quello nemico ottenendo con ciò un utile risultato. Ma il prezzo era superiore al vantaggio, e ad ogni modo il vantaggio era inferiore a quello che si sarebbe stati in di– ritto di conquistare con un impiego migliore degli sforzi. Questo triste fenomeno si manifestò spe– cialmente nella battaglia di Gorizia del 1916 e nella battaglia della Bainsizza del 1917. Nella prima, il VI Corpo di Armata era riuscito_ a sfondare le linee antistanti a Gori– zia e ad aprirsi la valle del Vipacco. Molto probabi!mente una energica prosecuzione della spinta offensiva in quella zona ci avrebbe per– messo il superamento del S. Marco, che il nostro esercito non riuscì poi mai più a olfre– passare. Ricordare la impreparazione della ca– valleria in quella battaglia! Nella battaglia della Bainsizza il XX[V Corpo d 1 Annata aveva completamente sfondate le linee avversarie. Sulla sinistra il XXVII, e sulla destra il II, ma specialmente il VI Corpo d'Armata avanzavano molto stentamente ; ma se la spinta del XX.lV Corpo d'Armata, e spe– cialmente della 47 Divisione, fosse stata ali– mentata, le truppe it:ilianc probabilmente si sarebbero rovesciate nel vallone di Chiapo• vano, ed avrebbero serissimamente minacciati i pilastri della difesa austriaca, l'altipiano di Lom e il M. S. Gabriele. Viceversa, l'attacco del XXIV Corpo fu lasciato languire sulle pendici del Volnik, mentre le riserve furono fatte gravitare nella zona del S. Gabriele, dove si consumarono quasi complétamente invano. A questo proposito si può osservare come il concetto dell'attacco frontale sia stato por– tato forse, con danno, dal campo tattico al campo strategico. Le nostre riserve non erano mandate ad alimentare la massa, che era rie– scita a sfondare le linee nemiche, ma erano di preferema mandate ai lati del saliente for– mato dal nostro attacco, nel timore che le truppe più avanzate venissero circondate dai controattacchi nemici. Nelle nostre offensive c'era insomma la paura del saliente. È da cre– dere che avremmo ottenuto maggiori successi~ se invece di preoccuparci sempre d'allargare salienti offensivi attaccando frontalmente i pi– lastri laterali della difesa nemica, aves,imo osato di approfondire al massimo i salienti: in tal maniera le difese laterali nemiche sareb• L'UNITA bero far.se cadute per aggiramento e per dila– gamento, determinando la completa rottura del fronte nemico. I nostri comandi si sono forse troppo preoccupati di fa.r procedere di pari passo tutta la linea del nostro fronte d'attacco, invece di ingolfare tutte le risen-e in quel « locus minoris resistentiae », dove la nostra massa di rottura fosse riuscita a pene– trare più a fondo nelle linee nemiche. Ecco in qual senso l'attacco frontale «strategico», e non « tattico )I- - di quest'ultimo parlava il famoso libretto di Cadorna del 1915 - fu rimproverato al vecchio Comando. Certamente quella che si può chiamare « la fuga in avanti », cioè il sistema di lan– ciare tutte le riserve nella prima breccia delle linee avversarie senza preoccuparsi delle di– fese laterali nemiche, se può portare a gran– dissimi risultati, può portare al gravissimo pe– ricolo di veder minacciata sui fianchi o magari di veder ta8'liata fuori da controattacchi late– rali nemici tutta la propria massa offensiva : questo è accaduto nella seconda battaglia della Marna ai tedeschi, che si sono visti attana– gliati dai controattacchi francesi provenienti da Reims e da Villers-Cotterets. Ecco perchè la discussione su questo argomento può andare all'infinito. Ma in guerra, come in ogni impresa umana, chi non risica non rosica. Data, poi, la estensione delle attuali fronti di attacco, non si può volere che tutta la linea di attacco proceda contemporaneamente in eguale profondità. III. - Lo stato morale delle truppe. Nei piccoli reparti era frequentissimo il caso che compagnie o plotoni, istruiti per mesi nelle caserme e nelle retrovie da certi ufficiali, abbandonavano, andando al fronte, i loro istrut– tori, i quali, alla loro volta, erano mandati al fronte a comandare altre truppe, che non co– noscevano affatto!. .. Questa pare una conside– razione di pochissima importanza, viceversa è di grandissima importanza. Una delle piì1 belle qualità del nostro soldato è l'affetto profondo, che è capace di serttire per un ufficiale, che lo tratti bene. Da noi la disciplina formale del filetto e delle stellette non avrà mai efficacia, e solo la disciplina sostanziale basata sul reci– proco affetto, sulla reciproca stima, potrà dare la necessaria coesione . ai reparti. Il nostro soldato non ubbidisce all'ente ufficiale, non ub– bidisce al comando categorico, ma obbedisce alla penona dell'ufficiale, che conosce ed a cui si è affezionato. Se si pensa a quello, che è lo scatto delle fanterie per l'attacco (l'atto più grave ed eroico di tutta la vita di guerra), si capirà l'importanza enorme del fatto che la truppa sia legata da vincoli di stima e di af– fetto all'ufficiale, che la deve condurre all'at– tacco. D'altra parte non si può dire quale senso di fiducia e di sicurezza dia all'ufficiale la co– noscenza dei propri uomini. Naturalmente per una infinità di ragioni è molto difficile ottener sempre che un ufficiale stia il più lungo possibile con i ~edesimi sol– dati; ma si può cercare di far di tutto perchè ciò avvenga. Non pare invece che il vecchio Comando se ne sia molto occupato. Salendo più in alto, si aveva al Comando dei reggimenti una cinematografia di colon– nelli, con evidente danno della coesione mo– rale (l'unica importante) dei reparti medi. Lo stesso si può dire pt:r le grandi unità, come la divisione. Spessissimo le brigate passavano da una divisione all'altra. Questo fatto oltre a rendere difficile la personale conoscenza frf i com ,ndanti di diverso grado, ostacolava la coesione ed il collegamento fra artiglieria e fanteria, coesione indispensabile per formare un buon esercito. C'è stato u1\ tempo, in cui l'artiglieria da sbarramento e la fanteria erano estranee e quasi ostili l'una all'altra: questo triste fenomeno derivava sopratutto dalla man– canza di conoscenza, che era causata dal fatto che per pochissimo tempo una brigata era difesa dallo stesso reggimento da campagna divisionale. L'inscindibilità della divisione fu. . uno dei più felici provvedimemi pr~si dal nUO\"O Comando suprem0; e portò, come prima con– seguenza, un grande miglioramento nel co!le– gamento fra artiglieria e fanteria. Alle truppe male inquadra te, nessuna istru– zione si faceva sui fini e sulle necessità della guerra. Qui le responsabilità si possono diffi– cilmente sceverare, perchè riguard.100 nello stesso tempo l'azione militare sociale del Co– mando di fronte all'esercito, e quella del Gover– no civile di fronte al paese. In questo campo la responsabilità risale più al Governo che al Comando. In ogni modo si può dire che il Comando ebbe il grave torto di concepire l'esercito come ~na massa unita da semplici vincoli disciplinari, invece di comprendere che, come ogni grande massa sociale, anche l'eser– cito aveva bisogno di essere unito da vincoli morali ed intellettuali, e di essere agitato da qualche grande ed umana idea. Una volta ba– stava forse che il comandante fosse l'anima, la « mens ►, e che le truppe fossero la docile « moles ». Oggj occorre animare la massa stessa, darle un ideale ben chiaro, se si vuole che agisca sul serio. Ecco in che senso oggi la guerra è più un problema di psicologia che di strategia. Ora è innegabile che la propaganda tra i soldati sui fini di guerra fu trascurata. Il sol• dato è rozzo, è ignorante, ma è per esperienza sensibilissimo ai ragionamenti piani e semplici. Se non capirà il soldato, capirà il caporale 1 se non capirà il caporale, capirà il sergente. In– somma l'uomo è un animale logico, che ha bisogno d'aver la illusione di conoscere la ragione delle sue azioni. Non basta per an– dare a morire l'ordine di una stelletta. Il nostro esercito sino a tutto il 1917 ri– sentì gravemente della mancanr,a di un chiaro e netto ideale. Era una gran massa acefala senza un preciso spirito animatore. !\fa l'eser– cito, in questo, era lo specchio del paese. E la colpa della màncanza di una sana propa• ganda di guerra va attribuita al sacro egoismo di Salandra, alla mulaggine di Sonnino, alla anguillosità di Orlando, alla senilità di Boselli. Il governo non sapeva o non osava dire dove voleva andare. È naturale perciò che l'esercito non sapesse perchè doveva soffrire. Il nostro paese non era stato materialmente aggredito: perciò l'esercito non era animato dallo spirito della difesa; doveva offendere. Dato lo spirito del nostro paese, si doveva subito insistere nello spiegare il significato profondamente difensivo della nostra offesa. Invece la poca propaganda che i comandi la– ciarono fare fra i soldati, era fatta da nazio– nalisti spacconi e ignari dello spirito popolare, a base di aquile romane e di termini sacri sulle Alpi.. .. Dinariche ! Si sentiva che Trento e Trieste non bastavano per giustificare ai sol– dati due anni e mezzo di apparentemente inu– tili attacchi, e si credeva di eccitarli portando i confini un poco più in la! Anche nella bella circolare del r7 giugno 19r6 del Generale Ca. doma, dove si parla della propaganda, non si vede accennato l'unico argomento, che in realtà si è dimostrato capace di far presa sul sol– dato: l' idea della guef'ra contro la guerra, della guerra contro l'Austria, strumento del• l'imperialismo tedesco, principale sorgente di guerra in Europa. L; frase del Papa sulla « inutile strage >t era in gran parte vera, data la grettezza territoriale dei nostri fini di guer– ra proclamati dal Governo con linguaggio arido e freddo. Solo un grande ideale umano, quello che fu detto wilsoniano ed era mazziniano, poteva giustificare l'enormità del sacrificio. Ma di questo era quasi vietato parlare. E fu forse atto di sincerità .... Quando sopravvenne Caporetto, nell' im– mensità ddla catastrofe materiale e morale, la coscienza popolare trovò la sua via ; i dor– mienti di RG>ma si scossero, si decisero a dare a questa nuova coscienza la meta naturale delle idee wilsoniane. Era, nelle loro inten– zioni, una truffa, come si vide, dopo la vit– toria, nel gennaio del 19r9, quando si sbaraz– zarono di Bissolati. :Ma nessuno potrà mai ne– gare che fu questa truffa a spese delle idee di Wilson. che dette la forza alla Intesa di attraversare l'inferno che va dall'ottobre del 17 al luglio 18. Sul Piave, dopo Caporetto, se gli ufficiali subalterni fossero andati a dire ai soldati che si doveva combattere per Spa– lato e per Gibuti, i nostri soldati prima li avrebbero sparati e poi avrebbero continuato a ritirarsi sul Po ed oltre. Dicemmo loro che combattevano per la difesa del loro paese e per impedire che i loro figli do,•essero com• battere. E i soldati hanno resistito e vinto. Indubbiamente la intensissima propaganda in– trapresa dopo Caporetto, a base di guerra alla guerra, diede magnifici risultuti: la coscienza Bianc d'Italia aveva trovata la sua stella. Basta aver veduta la gioia, con cui erano ascoltate dai soldati le parole chiare e semplici di chi sapeva loro parlare, basta ricordare come certi opu– scoli di propaganda quando erano fatti con criterio andavano a ruba, per sentire quanto la propaganda fatta nell'esercito dopo Capo– retto, abbia contribuito a condurre il nostro soldato alla vittoria del Piave : che fu ,,era– mente la vittoria del nostro fante consope-fl()/e della mcessità del suo socnficio. Molte disgrazie si sarebbero evitate, se non si fosse aspettata la catastrofe di Caporetto per fare una sana propaganda stimolatrice dell'anima del soldato. Ma - ripetiamolo - sarebbe ingiusto attribuire al Comando Su– premo una colpa che fu del Governo il quale solamente dopo Caporctto cominciò a capire, per opera dell'on. Orlando, il profit~o che si poteva ricavare ingannando il paese e i sol– dati col prendere a prestito insinceramente le idee wilsoniane. D'altra parte un uomo superiore come il Generale Cadorna, avrebbe potuto e dovuto, anche senza wilsoni:,mo, organizzare una pro– paganda migliore di quelll'.I. che facevano certi generali e certi nazionalisti e certi predicatori con i loro pistolotti patriottici, i quali indi– spettivano e demoralizzavano i soldati. IV. - Condizioni materiali del soldato. Anche per quanto riguarda il rancio e le licenze, la responsabilità va divisa col Go– verno. Il rancio del nostro soldato, esagera– tamente abbondante nel 15, era veramente deficiente nel settembre del 17. Quindici gior– ni di licenza una volta all'anno (mentre i fran• cesi ne avevano ro tre volte all'anno), erano veramente scarsi. Non sappiarno se il Comando abbia richiesta colla dovuta insistenza più gra– no per il rancio e più carbone per le licenze, e se il Governo sia rimasto sordo. In ogni modo una grande energia sarebbe riuscita a superare quelle difficoltà, che in condizioni as– sai priì difficili furono superate nel novembre• dicembre r7. Viceversa gli errori commessi nei turni di riposo e nello sfruttamento delle brigate nuo– ve, rigu:1rdano esclusivamente il Comando. È innegabile che per questo riguardo la maggiore lunghezza del fronte costituiva una fortissima difficoltà per il vecchio Comando supremo. Sta di fatto, però, che mentre col nuovo C0mando i turni di riposo erano abbastanza regolari, in modo che una. divisione stava in linea un mese (fra prima, seconda e terza linea), e un mese a riJ oso, col Comando vecchio le cose anda• vano molto diversamente. Inoltre il soldato quando si trovava a riposo, tra esercizi e marce continue lavorava molto più che in li• nea: il riposo, insomma, non era affatto ripo– sante, ma era terribilmente stancante e no. iosa : a proposito, si racconta che il generale Cappello avrebbt! detto di voler che il riposo per la truppa fosse di tal genere farleJda deside– rare il ritorno in linea! Il riposo per il soldato avrebbe dovuto invece rappresentare quello che è la domenica per lo scolaro, ossia quella speranza in vista della quale si sopportano pericoli di sofferen1,a e di fatica. Altro fatto che certamente non aiutava a mantenere alto il morale della truppa, era lo sfruttamento dei buoni reparti. Le brigate buone erano sempre mandate a far le azioni, mentre le brigate mediocri restavano di riserva, oppure presidia– vano settori tranquilli. È spiegabile che in alcuni casi così avvenisse; ma alla lunga il sistema c!i sfruttare i buoni a vantaggio dei cattivi non poteva dare utili risultati. Questo fenomeno della disparità di tratta. mento si può forse estendere fino alle armate: intendiamo accennare alla III Armata, che as– sorbi tutto il buono dell'esercito a detrimento delle altre armate. Era detto comune dei solda– ti che la III Armata era <i: l'armata signora ►. E tale dive1sità era specialmente sentita da quei reparti della zona di Gorizia, Vertoiba, che a seconda delle necessità passavano dalla II alla III Armata. Sarebbe stupido supporre che tale diversità dipendesse esclusivamente da un. fa– voritismo per l'Armata sabauda : la III Ar– mata era favorita perchè era l'Armata d'at– taci...o; ma appunto nell'a,·er esse esagerata– mente favorita l'attacco a danno delle Armate

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