Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

«Sedute sul prato», dice Circe ad Ulisse, «col canto armonioso stregano l'uomo». Questi due archetipi del bene e del male che operano attraverso la poesia si affrontano, durante il viaggio degli Argonauti, e Orfeo ha la meglio, coprendo la voce delle Sirene con la sua voce e la sua cetra. Così racconta questa contesa Apollonia Rodio: [Le Sirene] mandavano l'incantevole voce, e quelli già stavano per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non avesse teso nelle sue mani la cetra bistonica, e intonato un canto vivace con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel rumore, e la cetra ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle. (Argonautiche, IV, 903-909) Dunque molto varia è la funzione del canto poetico nella letteratura antica: lotta con se stesso, procura dolore, lo toglie, e tutto questo avviene come opera della fantasia, cioè dell'immaginazione. Ma c'è un'altra differenza tra queste due funzioni del canto poetico: la prima è impersonata da un uomo, che pur nella grande contiguità fra il divino e l'umano nel mondo epico, è tuttavia persona che soffre, che ama la sua sposa, che si adira con gli dei, che fa uso di un genio tutto proprio per pietà e compassione dei suoi simili; le Sirene sono invece creature immutabili e divine, che agiscono per l'unico scopo di affermare la loro supremazia sui naviganti e l'ineluttabilità del loro castigo. Il loro canto utilizza la sua funzione "positiva", cioè la bellezza e la grazia, per ottenere la distruzione e la sofferenza. Perché è tanto importante questo passo della vittoria di Orfeo sulle Sirene? Perché all'interno di quella continua lotta tra l'uomo e il dio che riempie la letteratura delle 87

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