Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica con un ritratto di Mario Spinella 82 estate 1994 Virginia Pinzi Ghisi 5 L'origine imperfetta 3. Bianco immacolato Matilde Tortora 13 una lettera Ottavio Cecchi 15 Il caffè di Kant Giuliano Gramigna 29 Il criticonella pancia del Pescecane Jacques Lacan 42 Sulla critica letteraria Carlo Pasi 47 La critica speculare: Baudelaire/Poe, Bataille/Sade Massimo Lollini 60 I narratori di Pasolini e l'angolo di incidenza della vita Andrea Brunetti 79 Diario di lavoro ANTOLOGIA DELLA Wilson, Landolfi, Praz, Barilli, CRITICA IMPERFETTA 97 Borgese, Debenedetti, Trompeo Giampiero Comolli 166 Quotidianità e incertezza nella narrativa di Ottavio Cecchi Valerio Magrelli 183 Sentimento dell'imperfezione: Giovanni Macchia L 1 AMBULATORIO DEI BAMBINI Maddalena Muzio 192 Feticismo e teorie sessuali infantili Cristina Calle 197 Il ricordo di un gioco, in una nevrosi di guerra in tempo di pace Ermanno Krumm 205 Il vino dell'Unità PAZZI PER LA LETTURA Mariarosa Mancuso 206 Cinque pezzi facili

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore: Sergio Finzi direzione editoriale: Virginia Finzi Ghisi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola, e Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Mariarosa Mancuso. a questo numero hanno collaborato: Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Andrea Brunetti, Cristina Calle, Ottavio Cecchi, Giampiero Comolli, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Jacques Lacan, Massimo Lollini, Valerio Magrelli, Mariarosa Mancuso, Maddalena Muzio, Carlo Pasi, Mario Spinella, Matilde Tortora, Italo Viola e l'Ambulatorio psicoanalitico dei bambini di via Cellini. · redazione: Via Borgospesso 8, 20121 Milano, te!. (02) 794515 editore: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo, te!. (035) 239104 abbonamento annuo 1994 (4 fascicoli): lire 60.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano responsabile: Sergio Finzi fotocomposizione: News, Via Nino Bixio 4, 20129 Milano stampa: Grafitai, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

Eorigine imperfetta 3. Bianco immacolato È difficile usare il bianco. Il dogma dell'Immacolata Concezione è spesso mal interpretato. Si pensa si riferisca alla secolare disquisizione definita da Duns Scoto: «era vergine prima, durante e dopo il parto» e non all'assenza, unica nella creazione, di peccato originale: senza macchia. Difficile è parlare di creazione dopo Adamo ed Eva, gli unici veramente creati, nel senso che, dopo di loro, la carne bianca o nera o gialla non è stata creata, semmai l'anima. Ma neanche Eva è stata creata, visto che si è formata dalla costola di Adamo. Ma neanche Adamo per il quale è stato usato un po' di fango. Forse il fango sì, se non fosse un composito di terra e di acqua. Terra e acqua sono stati creati. Tuttavia evidentemente quando si parla di peccato originale ci si riferisce naturalmente a qualcosa che è in relazione con un dopo un durante e un prima. Qualcosa che, iniziando da Adamo e Eva, li mette però in rapporto con l'autore del prima. Qualcosa che, qualsiasi cosa facciano gli autori del dopo, ne porta la traccia. Quando dunque il popolo confonde l'Immacolata Concezione con la solenne dichiarazione di Scoto, vergine prima, 5

durante e dopo, in realtà non sbaglia: l'origine perfetta riguarda l'opera e l'autore e la priorità di incidenza dell'uno sull'altra. Se c'è prima l'autore l'origine può essere perfetta, l'opera coniata esce come un prodotto che non intacca la matrice che deve essere conservata come parte più importante dell'opera. Eopera può portare tutte le imperfezioni che derivano dalla strettoia del concepimento, e non è tanto grave finché c'è l'autore che può produrne una seconda. Le imperfezioni arrivano a essere un connotato della forma dell'autore, era mancino, non ci vedeva bene, era daltonico. Se invèce c'è prima l'opera è questa che produce una trasformazione nell'autore, l'ispirazione l'ha colpito, il fuoco l'ha ustionato, il bronzo è colato sulla sua mano, ciò che ha fatto lo ha cambiato. Oppure l'esito è o non è rispondente al modello, il modello è ciò che ci intriga come vera opera la cui origine ci sfugge: allora il materiale sovrasta l'opera e la forma rimane nell'intenzione, incompiuta, vaga e insoddisfacente. r origine perfetta come l'assenza dell'origine consentono il plagio. The Snapper, il ghermitore, coglie al volo una vergine un po' sbronza all'uscita di una discoteca, e la fa sua. Si può possedere una vergine? Gli autori del settecento spesso lasciavano in bianco il nome di colui al quale dedicare l'opera. Veniva riempito, quel bianco, all'ultimo momento, a seconda della convenienza e dell'occasione. È quella che ho chiamato una «dedica vergine», che importa chi la possiederà? È il tempo in cui il romanzo nasce come storia di un bastardo, figlio di una vergine ambigua che ha concepito di nascosto. Ma ancora più vergine è la dedica di Sterne a Sir Pitt, per il Tristram Shandy: essa è un foglio bianco. Solo quando l'opera ha fatto il suo corso e si è assicurata il successo, su quel foglio bianco viene aggiunta la dedica. Allora, Tristram era dunque già nato e la sua origine, come sappia6

mo, era stata provocata dallo scarto occasionale del genitore occupato altrove ma richiamato dalla voce della moglie che gli chiedeva: Ma ti sei ricordato di caricare l'orologio? Così, per la dedica vergine, il Tristram Shandy nasce alla rovescia, con un parto difficile che gli rompe il ponte del naso e con una struttura che fa sì che si assista alla nascita di un uomo adulto, per cui lo scambio che ho segnalato tra il «luogo» in cui il personaggio collaterale di sostegno, zio Tobia, fu ferito, e la sua rappresentazione in fondo all'orto, il suo «luogo della fobia», si accompagni all'equivoco tra il luogo anatomico menomato, il condotto maschile degli spermatozoi, e la località geografica della sconfitta bellica. Eopera che appare rivela così il segreto del!'origine ed è forse per questo che Socrate non lasciò scritti. Tutta una famiglia circonda la giovane protagonista in The Snapper, il film di Frears, rimasta incinta. Ma il nome del padre è tenuto nascosto: forse, dice lei, un marinaio... Mai si saprà. Ma ecco che l'autore del furto, il plagiatore, dice in giro una parola di troppo, la ragazza esce di casa e si infila diritta nella casa del vicino. Ti accuserò. In cambio del silenzio, di un silenzio già rotto, di un segreto che già non esiste più, ma qui devo interrompermi perché, in sala, ero l'unica spettatrice di The Snapper. Apertura alle ore 16, ma possibilità di vedere il film solo se gli spettatori fossero stati almeno due. Ho risolto pagando due biglietti? Il sofisma è stato sufficientemente convincente per la cassiera e l'operatore? Bastava la rappresentanza, l'equivalente biglietto-entrata, come per l'origine del capitale, l'accumulazione originaria, o per la rappresentazione bisognava essere in due corpi, perché la rappresentazione avesse origine? Può un film nascere da una vergine? Nel momento in cui io venivo a sapere, la giovane vergine incinta riceve, in cambio del segreto, il punto bianco del 7

film: il triangolino delle sue mutandine trattenute come feticcio o come possibile bandiera: tra segreto ed esposizione. Il bianco è ciò che più rivela la mano dell'autore. Può essere biacca spessa come quella di Bonnard, o trasparenza della tela. Nel momento in cui il bianco viene reclamato, non più segreto e non più bandiera, svanisce il marinaio all'orizzonte. Il film decade a operetta familiare, il bianco a indumento personale, la vergine imperfetta viene ricondotta nell'ambito della famiglia, ormai accettata e accudita a gara. Soprattutto dal padre, cui solletica a quel punto il far da padre, se l'ombra dell'incesto è il filamento di colla scura che tiene insieme la famiglia dell'origine. Ma se ci si finge psicoanalista o scrittore mentre si fa l'architetto, e l'architetto di case che nessuno vede, se non gli amanti, che però possono sempre essere condotti bendati nella casa di qualcun altro, che farà il plagiatore? Come accusare il grande Dumézil se è capace di cambiare scaffale? Se non copiare gli scarti, le flessioni artefatte, se non abboccare agli ami aguzzi che il verme nasconde? Lorigine imperfetta rovescia il verso dell'opera, come la nota di Sade dicevamo l'Adelaide di Brunswick. Così è successo all'opera di Kieslowski. In Blu di metilene, ho visto Film blu, libertà come il successo del plagiatore, lo sceneggiatore cattolico, awocato, aiuto di Kieslowski anche nel Decalogo, anche lui di nome Krzysztof Blu, dicevo, era il rettangolo della piscina in cui la protagonista, finalmente libera, dal marito e dalla figlia, di ritrovare se stessa, andava su e giù. Blu, lo schermo dell'ecografia in cui appare il figlio, di un'altra, a darle una ragione di vita: ricondotta all'origine. E Blu, era anche un film su il plagio, giacché si è incerti per tutto il film se il vero autore della musica del marito musicista ora defunto fosse dawero lui o non piuttosto lei, la moglie vedova. Anche qui dunque rappresentanza e rappresentazione, personaggio e opera, oscillano nelle mani dell'autore. 8

Finché appare il bianco. Come la vasca bianca di Bonnard, la cassa che appare all'inizio di Film bianco, l'eguaglianza, secondo della trilogia di Kieslowski, è più che un contenitore. È la valigia che la moglie francese che ha appena chiesto il divorzio per impotentia coeundi del marito polacco, gli scarica sul piazzale del tribunale. È piena? È vuota? Quasi vuota, giacché, come si vede poco dopo, conteneva solo un certificato, un diploma di parrucchiere. Quasi piena, perché, come si scoprirà più avanti, farà apparire il consolidamento bianco del film. Bianco evanescente e puntinoso nell'evocazione della sposa vestita di bianco del giorno del matrimonio, vergine non vergine se il marito asserisce a sua difesa che, prima di tutto quel bianco, «andava bene». Bianco che cola nell'escremento del piccione che lo centra sulla scalinata del tribunale. Bianco che si rapprende nel simbolo della intera trilogia, bianco rosso e blu, la bandiera francese, la Marianna che il marito abbandonato ruba da un negozio riconoscendo nella statua il ritratto della moglie perduta. Bianco effetto marmo che si spezza, quando la valigia si apre oltre frontiera e, finalmente in Polonia, ne esce il marito viaggiatore clandestino «rubato» da una banda di ladri di bagagli, e la statua rotola con lui da un dirupo rompendosi in tre pezzi: «Siamo a casa!». Rincollata, riprende il gioco della nascita e della morte. Bianca la neve, bianca la colla, vergine la Madonna con il bambino in cui il parrucchiere si specchia, bianco il binocolo, in un incubo il parrucchiere si ritrova nel film blu, interamente blu è la stanza, e bianca la luce che lo risveglia. Ma ritorniamo daccapo e scopriamo che l'eguaglianza è la morte. Come può il parrucchiere abbandonato trovare i soldi per rifarsi una vita? Può fare il killer, gli viene proposto, di un uomo che vuole morire ma non vuole la responsabilità di abbandonare la famiglia, di lasciare moglie e figli: «vorreb9

be ma non può». Eeguaglianza è uno scambio, uno scambio di assassini e uno scambio di cadaveri. Con i primi soldi, in Polonia, il parrucchiere arricchito dall'aver sfruttato un'informazione carpita col fingersi addormentato, si compra un cadavere che passerà per lui. Rinuncia all'«identità», e la moglie arriva in gramaglie da Parigi a riscuotere l'eredità. Piange al funerale, e lui l'aspetta in albergo e, finalmente cadavere, la chiava come non mai. Lei si convince che lui è vivo, ma il mattino seguente la polizia non è dello stesso parere. Forse questa moglie è addirittura una vedova nera, e come tale viene rinchiusa in carcere. «Eavvocato vede una luce in fondo al tunnel». Il parrucchiere l'ama ancora, nella notte si reca a vederla alla finestra della cella e lei, dalla finestra gli fa due cenni d'alfabeto muto. Un cenno è un cappio al collo. Ealtro una vera al dito. E allora, i due segni in nota al film bianco rovesciano quanto sapevamo del film blu. Nella sua scena centrale quando sulla scala di casa la protagonista e il gatto del vicino si guardano e si fronteggiano, avevamo detto che Kieslowski sceglieva per la donna. Ma ora, in quell'«origine perfetta» garantita dall'ecografia finale, riappare la macchia. Eanimale che ne è portatore anche nei nostri sogni, il cane pezzato, dalmata, le palle, gli ocelli, che accompagnano le strisce nella storia dell'uomo e del soggetto, non era il perdente. Il suo urlo di rabbia quando la donna lo getta e rinchiude nell'appartamento, ritorna ora nel silenzio umano del finale del film bianco e permette la sopravvivenza, la vera continuità della stirpe. Non era la libertà, per Kieslowski, la piscina blu, l'origine perfetta che il matrimonio assicura è un cappio al collo, se l'eguaglianza è questo, che un cadavere ne vale un altro. Ma se si finge di essere morto, mentre in realtà si va in 10

giro a fare tante cose, a scrivere un romanzo, a trovare l'amata tornata di lontano, e fare l'amore come non mai, che sarà mai per lei essere in una cella e trovare vuoto il letto il mattino? Virginia Finzi Ghisi 11

una lettera Caro Sergio, cari amici di Il Piccolo Hans, sento il desiderio di dirti, di dirvi il dolore, che provo, nell'apprendere della morte di Mario. Proprio un anno fa, trovandomi a Milano, passai a salutarlo. Gli portai delle piccole rose gialle, che gli piacquero. Le mise subito in un vaso, ma non tolse la carta di cellophane, che le avvolgeva: una piccola incongruenza, che mi saltò agli occhi e che mi piacque. Parlammo poi di Croce, andò a prendere nello studio i volumi recenti Adelphi con gli scritti di Croce e questi sì, li tolse subito dalla custodia. Parlammo poi del piccolo giardino interno al palazzo di questa sua casa e di un mio lavoro su Croce (Padre Mio Benedetto), che gli avevo portato in lettura, ma non saprò mai se l'ha letto, perché ancora a fine gennaio scorso mi diceva che si riprometteva di leggerlo e che me ne avrebbe detto qualcosa. Parlammo pure di un mio recente viaggio a Mosca, gli dissi che m'ero lasciata condurre in quel viaggio passo passo dal ridirmi nella mente le poesie di Marina Cvetaeva come l'unica guida possibile. Lui disse che una volta aveva fatto un viaggio simile, ma lasciandosi condurre passo passo dalla musica (non ricordo di quale musicista). Convenimmo che la poesia e la musica sono gli unici Ciceroni possibili e attendibili. Perché non mi sono appuntata il nome di quel musicista? Perché non gli ho telefonato più 13

spesso? Pensavo ci sarebbe stato altro tempo, altre chiacchierate. L'ultima volta lui mi chiamò per dirmi che mi spediva per posta celere le locandine del convegno «L'atelier dell'artista e dello psicoanalista». Io gli dissi, peccato però che non potrò esserci (a causa di un'indisposizione), ma gli dissi verrò sicuramente al prossimo. Lui disse, sì è vero, siamo tutti un po'stanchi, nel suo essenziale riserbo, nel suo modo affettuoso e umanissimo di accogliere le preoccupazioni degli altri, senza mai far pesare le sue. Oggi mi sento tanto, tanto più sola, ho perso un amico. Grande. Insostituibile. Lo ricorderò vivissimo che va a spedire plichi alla posta celere (affinché un bellissimo convegno sia giustamente detto che ci sarà, anche qui in Calabria), interessarsi a piccole rose gialle, in viaggio sul ritmo di qualche poesia o della musica. Oggi mi sento davvero tanto, tanto triste, ma mi sono ricordata di avere il tuo indirizzo, Sergio e poter parlare di Mario con voi, mi ha un po' risollevata. Non era forse egli un gran «tessitore» di relazioni feconde, di cultura, di ritmi e viaggi da reinventare e da intraprendere? Allora so che dovevo scrivervi e dirvi tutto questo anche se di corsa, anche se scritto a macchina (ma ho una pessima grafia, che non si fa leggere), anche se di getto. Un'ultima cosa. Nel settembre di sette anni fa, in Sicilia, a Capo d'Orlando, mi raccontava di come sua nonna aveva conosciuto il marito (mi pare fosse accaduto a Cava dei Tirreni) e che se la nonna non fosse stata allora una fumatrice e se non si fosse appartata sulla terrazza della sua casa a fumare, per non essere vista dai genitori, il futuro marito, non l'avrebbe scorta passando lì per la via e alzando lo sguardo a quel terrazzo. Con quest'immagine di quella giovane donna un po' trasgressiva su quel lontano terrazzo (anzi io dissi: allora stava «fuori 'a loggia»), che Mario dinanzi a un gustoso piatto siciliano mi volle regalare, io adesso lo saluto. un triste sabato 9 aprile 14 �a)jfJR t{;o�

Il caffè di Kant (. . . ) «Dick Heldar - sillabò Emma. - Non riesco a immaginarlo come un vero pittore. Del resto, il tuo Kipling, mio caro René, non lo ama molto». Aveva chiuso il manoscritto nella cartella rossa con la quale glielo aveva portato lui, René, ed era rimasta per un attimo soprappensiero. «Se lo amasse e se tu lo amassi, Maisie non apparirebbe così bella nonostante la sua crudeltà; nonostante, lascia che te lo dica, la sua vigliaccheria. Perché Maisie scappa, non è vero René? Vorrei che il tuo Kipling fosse qui con noi, ora, vorrei potergli chiedere quanto abbia amato, o odiato, quel suo Dick e quanto invece abbia amato la ragazza. Ma non ce n'è bisogno. Basti tu, è sufficiente la tua presenza. È un gioco di scatole cinesi. Tu cerchi di riconoscerti, di rifugiarti in Kipling e Kipling in Dick Heldar. Tutto quel sangue e tutto quel tabacco per quattro cartelloni di réclame della guerra. Via, - ironizzò Emma - siate seri... Voi non amate nessuno all'infuori della vostra Maisie. L'aspro del sangue e del tabacco è solamente, come dici tu, una superstizione volontaria. In altre parole, una menzogna. Kipling immagina un se stesso che non esiste se non nella sua fantasia, e tu immagini di essere Dick e il suo autore. In realtà...» 15

Si era alzata, aveva traversato la stanza e, secondo il rito, cominciò a preparare un tè «forte e denso» come piaceva a René. Nel ricordo, René la rivedeva: gli occhi obliqui, orientali, il passo lungo, la vita sottile, i capelli tagliati corti contro l'usanza di quei primi anni del secolo. «In realtà- aveva detto- Kipling inganna se stesso senza saperlo: mentre tu inganni te stesso sapendo di ingannarti. Tu, René, sei doppiamente colpevole, perché sai bene che non è più possibile raccontare le cose come sono: non è rimasto niente dell'estetica di Dick, di quel povero pittore da quattro soldi, che vede persino la gente affollarsi davanti a una vetrina dove sono esposte le sue tavòle. Un pover'uomo, che si è meritato quella sciabolata e la conseguente cecità». Fissandolo disse: «Quello che conta sei tu di fronte alle cose, ciò che senti, ciò che pensi. Come hai scritto? "Il fiore dei raffinati e dei pervertiti". Sono o non sono parole tue?» Aprì la cartella, cercò la pagina e lesse: «"Il pubblico di Kipling, per quanto vasto, per quanto grosso, comprende anche le persone colte, il fiore dei raffinati e dei pervertiti"». La perversione consiste in quella menzogna, in quella superstizione. In quell'inganno nel quale andate a cacciarvi volontariamente». Versò il tè nelle tazze. Quella bella donna gli faceva un dono raro: lo accoglieva senza complicazioni sentimentali, aveva capito che René traboccava di sentimenti e perciò era incapace di riceverne ancora. Gli dava la sua simpatia e ne riceveva altrettanta. Stavano bene insieme. «Sei un uomo del tuo tempo, perfettamente incapace di amare. L'ho capito subito, appena ti ho visto. L'amore ti farebbe infelice, ti sarebbe d'impaccio. Non ti invidio perché sei incapace di amore: non ti invidio, perché anche io lo sono, ma non come te. Finirà così, che tu o io, uno dei due si stancherà, e allora ci lasceremo. Spero che in quel 16

momento non ci sia antipatia tra noi... L'antipatia è una specie di guerra, più forte del disamore. Oppure - disse dopo una risata- mi ucciderai?» «Sono incapace di uccidere- rispose René.- E questa tua domanda, questa tua ironia, non viene a proposito dopo il gran parlare che hai fatto di Dick e Maisie. Il mio Kipling, a questo punto, si nasconderebbe in quella filosofia del tabacco e del sangue. Ma io? Come posso rifugiarmi nel sopramondo, o superstizione, della vita forte e rude? Bombay o questa nostra città, che differenza c'è? Qui o là, riconosco la mia sconfitta, un uomo si uccide vivendo, nascondendosi nella menzogna di un personaggio che lo consoli. Dovrei chiedere la restituzione della mia cartella rossa, delle mie pagine e dirti: "Tante scuse, Emma, il saggio dev'essere scritto di nuovo dalla prospettiva della menzogna. Riscriverlo dalla parte di Maisie?"» «È quello che hai fatto. Il saggio è bello così com'è, proprio perché ti confessi nel tuo errore, voglio dire: mediante il tuo errore. Ciò che conta è la verità del tuo saggio, non la tua verità». Bevvero il tè in silenzio. Si voltò. La finestra dello studio di suo padre era ancora illuminata. Riprese il cammino. Sarebbe tornato a casa solo quando quella finestra si fosse spenta. Se avesse incontrato suo padre, avrebbero parlato del poker, della cattiva sorte di quella sera, e gli sarebbe toccato ricorrere alla bugia: sì, gli dispiaceva di avere perduto. Non era vero: non dispiaceva a lui, né a suo padre, giocatori tutti e due. «René, amico mio- risentiva la voce di Emma,- tu non devi scrivere di nuovo il tuo saggio perché quel che volevi dire di più sincero lo dici nell'ultima parte, là dove attribuisci al tuo Kipling la tenerezza che forse non ha e non 17

vuole avere. Il discorso si rovescia, da tutto quel sangue e da tutto quel tabacco germogliano rose e fiori. Il bello è tutto lì, nei prestiti che fai al tuo autore. Gli presti te stesso, la tua menzogna. Che cos'altro è mai la verità di un racconto? Ora smettiamo di fare la commedia. Non credo a una possibile, serena oggettività. Chi parla, parla di sé: è per questa via che lo scrittore costruisce, come dire, spinge in scena un altro. Prendi le autobiografie. C'è niente di più menzognero? Quel tale che si muove nelle pagine è uno che non ha niente a che vedere con l'autore della biografia. E fin qui, niente di nuovo. Il nuovo comincia quando si vive la propria biografia. Questa è la grande menzogna, il vero suicidio. Le arti del secolo sono la menzogna e l'impostura. Voi che vi fate immagini e superstizioni siete non solo bugiardi ma impostori. Predicate false dottrine, praticate filosofie della salvezza... » «Basta, basta! Pietà di me, pietà per il mio scritto. Grazia! -disse René alzando le braccia e ridendo. -Se i miei ascoltatori e i miei critici avranno la tua severità avrò di che farmi il piacere, di che cercare insomma, come Dick, una palla che mi attraversi il capo. -Abbassò lo sguardo e sottovoce disse: - Potrei avere un'altra tazza di tè?» René aveva poi letto e riletto lo studio, così lo definì dopo quel colloquio, e alla conclusione di un riesame aveva deciso di chiuderlo per un po' di tempo in un cassetto. Non c'era allegria in quelle serate trascorse al tavolo del poker. C'era accanita volontà di vincere nei compagni di gioco, e nella sua volontà di perdere non c'era che noia. Si annoiava, lo aveva detto a Emma. Si annoiava perché non c'era allegria nei suoi compagni. Per loro l'allegria scoppiava tutta insieme quando intascavano la vincita. In verità amavano il denaro, non il gioco. Erano persone serie e malinconiche, come quelle che popolavano certe sue vecchie letture: persone serie e malinconiche tra le 18

quali improvvisamente compariva quel personaggio gioviale e allegro descritto, anzi evocato da David Hume. La compagnia raccolta intorno al tavolo del poker si scompigliava e, sorridente, giungeva quel tale. Così si era figurato la scena, lì, a quel tavolo del Circolo. Nessuno se ne accorgeva, così accadeva soltanto a lui di animarsi, di sentirsi improvvisamente vivace. La conversazione rimaneva la stessa, poche parole, quelle del poker, pronunciate a mezze labbra, ma in lui acquistavano nuovi significati, persino un nuovo suono. I momenti erano distinti, il primo, annoiato da quelle persone serie e malinconiche e, il secondo, improvvisamente ravvivato dall'allegria. Quei volti seri suscitavano la sua reazione ironica. Molto meritoria era l'allegria, aveva ragione il filosofo. Soltanto René vedeva quel compagno gioviale e allegro; lo vedeva perché gli attribuiva una strana figura: panni secenteschi, alta statura, un volto aperto in un cordiale sorriso. Persone serie e malinconiche. Non era più d'accordo col filosofo. Le persone serie erano i suoi compagni di gioco. Lui invece era la persona malinconica. Da questo angolo visuale riusciva a far proprio il ragionamento secondo cui i malinconici amavano l'allegria, mentre gli allegri, o coloro che si dicono allegri, la odiano. Più semplicemente, non la conoscono. Così non conoscono neppure il piacere. Passando attraverso questi pochi prestiti personali, giungeva alla medesima conclusione: chi non ama l'allegria e il piacere, è pericoloso. Mille volte aveva riletto quelle righe e ora, camminando, se le ripeteva, le rileggeva sulla pagina stampata nella sua mente. Gli poteva accadere nuovamente di trovarsi faccia a faccia con esseri pericolosi. Dall'angolo di una strada, da uno di quei giardini notturni poteva uscire un uomo armato di coltello o di pistola, e derubarlo, ferirlo, ucciderlo. Poteva accadere. Tuttavia non avrebbe riconosciuto in quell'uomo l'essere pericoloso di cui parlava la pagina di Hume o il verso di Shakespeare. 19

Pericolosi erano i suo compagni di gioco, gli uomini incapaci di riconoscere quel sorridente intruso in abiti secenteschi: l'allegria in persona. Ma basta, disse a se stesso, basta con queste assoluzioni. Perché in tali pensieri egli si assolveva. Uscire dal gregge malinconico importava severità, serietà. Anche lui aveva la sua parte, era anche lui pericoloso a causa di quelle superstizioni volontarie che ancora non aveva ben chiarito con se stesso. Quando pronunciava quelle due parole, risentiva la voce di fine secolo che si proiettava nel Duemila, verso la fine del Millennio. Ne aveva ricevuto un piacere complice. Pericolosa era questa preoccupazione del futuro. Era quella bramosia di vincere dei suoi amici del poker. E lui? E la sua stanchezza? Stanchezza, altra parola carica di magia. La temeva. Per questo l'allontanò da sé, la rifiutò. Da uno di quei giardini notturni, una sera di due anni addietro, era saltato fuori un uomo armato di revolver. Gli aveva esploso un colpo all'improvviso con evidente intenzione di ucciderlo. Le cose erano andate nel modo seguente. René era uscito dal Circolo dopo una partita e si era avviato verso casa. Assaporava il piacere della sconfitta. Più perdeva più sentiva il bisogno di giocare. Si chiedeva il perché. Perché giocare è perdere. Non aveva finito di pensare questa frase che un lampo, uno sparo e un forte dolore al collo lo avevano colpito. Nel chiaro improvviso dello scoppio riconobbe l'aggressore, un marito tradito. Sempre, in seguito, il ricordo del fatto e del processo che ne era seguito si associava alla risata di Emma, quando le aveva raccontato quel suo amore finito in tribunale. La risata di lei lo aveva rallegrato. Dell'accaduto si era fatto una colpa come se fosse stato lui a sparare e a ferire. Quel marito tradito aveva tutte le ragioni. Al posto suo avrebbe fatto lo stesso. 20

Queste riflessioni lo accompagnarono durante la convalescenza. Si era abbandonato alla debolezza, ai pensieri lugubri, così insoliti in lui. Poteva essere morto sul colpo. Invece era vivo, comodamente seduto in poltrona ad aspettare il medico, che lo visitava una volta al giorno. Aveva scoperto la complicità. Il padre, la madre, il medico stesso e, alla fine, i giudici ebbero tutti cura di lui, e quando uscì di nuovo per le strade della città si accorse che gli sguardi della gente erano di simpatia. La sua trasgressione non pareggiava con quella del rivale. E poi, ne era uscito con un'aureola di martire. L'idea meno tormentosa, durante il mese trascorso in casa per guarire della ferita, era stata anche la meno adatta alla circostanza che lo aveva portato sull'orlo della sua giovane esistenza: morire non è passare di colpo dalla vita alla morte: è, invece, attraversare un vasto continente. Ora ne possedeva le prove. Quando aveva visto il lampo e sentito quel dolore al collo, si era abbandonato a una sensazione molto simile alla stanchezza. Si era piegato sulle ginocchia ed era caduto morbidamente sul selciato. Non sentiva più dolore, non si lamentava. Disse a se stesso: «Sto morendo» e subito rifletté sulla sorte che gli era toccata. La riflessione si perdette in uno spazio e in un tempo immobili. Vide i soccorritori, sentì che lo sollevavano per deporlo sulla lettiga, sentì le mani del medico intorno al collo, udì le voci e le parole del padre e della madre. Solo la stanchezza lo richiamava alla vita, al tempo che scorreva. Camminava tra la vita e la morte e un gruppo di persone, di soldati gli parve, camminava dietro a lui. La risata di Emma poneva il suggello del comico a una storia d'amore e di tradimenti. «Tu, René, sei un problema. Voglio dire che non hai niente del personaggio dei vecchi romanzi. In te s'intrecciano idee e sentimenti». La risata lo aveva ferito, la spiegazione invece lo lusing ò . 21

Rimpiangeva, le disse, gli ultimi giorni della convalescenza. La mattina un infermiere, che parlava con lui da pari a pari, da dongiovanni a dongiovanni, che di tanto in tanto gli strizzava l'occhio in segno d'intesa, lo aiutava a lavarsi e a vestirsi, finché gli porgeva il braccio per fagli scendere le scale. Giù lo aspettava la madre, qualche volta il padre, e l'uno e l'altra s'informavano della sua salute. «Come stai René? Stamani hai una bella cera, hai riposato bene...». Rispondeva con parole di gratitudine nonostante quell'inopportuna domanda che rivolgeva a se stesso fin dal primo momento: «Perché non mi sgridano? Perché non mi rimproverano?». Ma nessuno lo sgridò né lo rimproverò, né allora né mai. Aveva trascorso in seguito tranquille giornate di ozio. Dopo colazione, raggiungeva la poltrona e leggeva i giornali, poi si alzava e, un passo dopo l'altro, si avvicinava allo scaffale dei libri paterni. Fece due scoperte, una più importante dell'altra:/ fratelli Karamazov e un taccuino che il padre aveva lasciato sullo scrittoio. Il libro, in francese, lo conquistò, e ancor più lo prese una pagina del taccuino che poi il padre ripose tra le sue carte. «Non posso rivelarti il nome di colui, o di colei, che ha scritto i suoi pensieri in queste pagine. Si tratta - disse - di un "caso"». Del romanzo gli rimasero in mente poche parole di Zosima; del taccuino, soltanto due parole: stanchezza e incontentabilità. Zosima dice: «L'inferno è il dolore di non essere più capaci di amare». Chiuse il libro e si abbandonò a una riflessione che non lo trovava impreparato. Aveva ragione Zosima? O era vero il contrario? La parola che lo folgorò fu menzogna. La parola generò una frase: mentire a se stessi. Zosima, ne era convinto, mentiva a se stesso. Senza saperlo, ma mentiva. Nei suoi confronti egli poteva far valere, usando il linguaggio delle carte da gioco, qualche punto in più: Zosima no, ma lui, René, sapeva di mentire 22

a se stesso quando proclamava il suo amore per il genere umano. Questo era il senso riposto delle parole di suo padre, di quelle parole sconsolate sull'isteria e la catastrofe. Quell'uomo che cercava la guarigione della bella donna del quadro, l'isterica di Charcot, sapeva di mentire a se stesso. La guarigione era la sua superstizione volontaria. Farsi illusioni, mentire a se stessi: questo è l'inferno che l'amore aveva portato nel mondo. La salvezza: che orrore... Il quadernetto con la copertina nera era fitto di appunti qua e là cancellati. Quelle due parole erano parte di un lungo periodo interamente nascosto tra righe diagonali. La cancellatura era un invito a leggere. Più delle pagine piene dei Fratelli Karamazov, gli piacevano le carte graffiate, gli spazi bianchi, le cancellature trasversali del taccuino. René lo sfogliò per un verso o per l'altro, quindi fermò lo sguardo su una frase: « ...la stanchezza significa incontentabilità». Il caso generava collegamenti, suggeriva sensi riposti e li svelava: era sin troppo chiaro che si poteva prendere spunto dalla frase di Zosima e, traversando immagini e sensazioni, raggiungere quelle due parole. Gli parve chiaro che la prima lettura si prestava alla banalità. Invece era necessario riflettere a lungo per capire che la stanchezza genera bramosia di diversità e di novità. Stanchi di che? Intanto della stanchezza medesima..., e perciò desiderosi di benessere, di forza, di salute. Stanchezza: essere stanchi del dolore e per questa ragione desiderare l'amore, dire come Zosima che l'inferno è il dolore di non essere più capaci di amore. Non essere più... Dunque c'era stato un tempo in cui si era stati capaci di amare. Quando? La domanda non aveva echi, si perdeva nel tempo. Mai, disse a se stesso. La verità era sempre stata la menzogna, e ora quel mentire a se stessi. Molto dolore aveva prodotto l'amore: dolore e menzogna. Persino il gusto della menzogna, del mentire a se stessi. Quella vo23

ce, la notte della fine dell'anno e del secolo, quella profetica ironia... Si era contraddetto e perciò tacque. Se non c'era mai stato amore, come poteva l'amore causare danno o menzogna? Emma disse: « È tutto più semplice. Tu pensi al suicidio e non te ne accorgi. Non riesci a dire a te stesso che il vero suicidio non è puntarsi un'arma alla tempia e togliersi la vita: è vivere nella menzogna, mentire a se stessi, crearsi una superstizione volontaria. Il tuo Zosima: che mentitore». « È così! - disse René, entusiasmandosi - Dove hai letto la sentenza, nelle foglie del tè?» «Nella tua incertezza». «Perché hai parlato di me come di un personaggio?». «Ho parlato di romanzi e me ne scuso. Non ho detto che tu sia un personaggio, ho detto il contrario: ho detto che sei un problema. I personaggi sono tutti morti e il loro posto è stato preso dai problemi. Tu sei un problema, ma potrei anche dire che sei un personaggio problema. Non te ne offendi? Del resto, sei fatto di libri. Non ho letto quella che tu chiami la mia sentenza nelle foglie del tè: l'ho letta nella tua espressione, nella complicata ma chiarissima pagina che tu stesso leggi guardando in te, esprimendo le tue contraddizioni. Ascolta. Non credi che quel mentire a se stessi abbia un nome, che quel suicidio si possa chiamare anche con un altro nome?». Come personaggio di un vecchio romanzo, René esclamò: «Quale, in nome di dio?». «Assassinio. L'assassinio più raffinato che si possa immaginare. Assassinare se stessi con la menzogna. Non ti pare, questa, la più bella delle belle arti?» Thomas de Quincey, in quel libretto intitolato Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, descrive il filosofo allo stremo. La consistente dose di oppio che vorrebbe dargli, in verità, fa gola a lui. Perché de Quincey parla di sé, quel 24

Kant stremato è un personaggio autobiografico e, come tale, ci racconta la storia di un altro: di de Quincey, appunto. Sfogliamo quelle pagine e fermiamo lo sguardo sulle righe in cui l'autore, squarciando il velo dell'autobiografia, scopre una verità che egli non sospetta di offrire al suo lettore. Kant ha preso l'abitudine di bere sovente una tazza di caffè. Gli piace, fa parte dei rituali capricci della vecchiaia: di un'illustre decadenza. De Quincey si rende conto di contraddirsi? Pare di no, perché se così fosse scriverebbe parole diverse a proposito delle divagazioni di Kant medesimo sul verbo essere, anzi sul futuro del verbo essere. La scena è la seguente. Kant all'improvviso sente il desiderio di bere il caffè. Immaginiamo il servitore presso un fornelletto sempre acceso, pronto per servire la bevanda al padrone: perché Kant vuole il caffè sull'istante, non vuole aspettare. Quell'impazienza e quel volere il caffè tutt'al più in un attimo rivelano che la coscienza del filosofo è desta e vigile. Se egli chiedesse il caffè e subito se ne dimenticasse, la cosa non avrebbe nessun valore filosofico, e Kant sarebbe davvero quel vecchio malato che de Quincey descrive. Ma de Quincey ci dà armi sufficienti per confutarlo, ci fa sapere che il grande vecchio mette in contraddizione quel volere il caffè sull'istante e una riflessione. A chi gli dice che il caffè sarà pronto in un attimo, egli ribatte osservando che il verbo essere è coniugato al futuro. E conclude che l'uomo non è mai felice, ma lo sarà, sempre lo sarà. La filosofia lo assiste fino all'ultimo e la vecchiaia e la malattia acuiscono il suo sguardo. Avrà mai sull'istante il suo caffè il professor Kant? Sarà mai felice l'uomo? Nel verbo essere al futuro c'è la storia di quelle superstizioni volontarie di cui parla il nostro René. C'è anche la spiegazione di quel suicidio in forma di menzogna consistente nel vivere facendosi immagini di futuro felice. No25

nostante la sollecitudine e l'amore, Kant non avrà mai il suo caffè. René e la sua amica Emma forse non lo sanno (la passeggiata notturna di lui e le chiacchiere tra loro due s'immagina siano avvenute quando non erano ancora trascorsi cinquant'anni dalla morte di de Quincey), ma voi certo sapete che l'autore dello scritto sull'assassinio considerato come una delle belle arti non descrive mai il momento in cui Williams sgozza le sue vittime. Sia nel caso Marr sia nel caso Williams, lo strangolatore ci volta le spalle mentre affonda il coltello nella gola dei malcapitati. Si fa fatica a dargli un volto perché, nell'attimo in cui dovrebbe mostrarsi, si nasconde. Tutt'al più si fa vedere di tre quarti. Ci vengono descritti i suoi abiti eleganti e costosi, ma ci viene negato il bene di vederlo in faccia. Williams sarà catturato a causa delle iniziali di un nome e cognome, non per la descrizione del suo volto. Se ne deduce che de Quincey ha paura di vedere in faccia l'assassino. Non che abbia paura di essere a sua volta sgozzato: ha paura di guardarlo perché guardare significa essere guardati. Per questa ragione, de Quincey non lo fa mai voltare. Potrebbe riconoscersi e così fare la sua stessa fine, suicidarsi. L'ipotesi è suffragata dal fatto che gli assassini ai quali s'ispirò de Quincey per dar vita al suo Williams, gli assassini veri, finirono sul patibolo mentre il signor Williams si uccise. Ciò conferma l'ipotesi che de Quincey non abbia preso in considerazione che il peggior suicidio, la più bella delle belle arti, è la condanna a vita, a una vita da trascorrere fino all'ultimo nel mentire a se stessi. Del resto, egli che altro fece condannandosi a vivere, con l'aiuto dell'oppio, nella bugia della letteratura? Che, come l'assassinio, può essere praticata per necessità o per pura voluttà. Parole di de Quincey. Il vecchio Kant non è poi così rammollito se, chiedendo il suo caffè, maledice il futuro. E Williams non è poi così sciocco se si sottrae anch'egli al futuro suicidandosi. 26

Dunque il nostro René camminava nella notte. Aveva un leggero mal di testa a causa delle ore trascorse al tavolo del poker. Da poco si era voltato e di nuovo aveva visto che la finestra dello studio del padre era ancora illuminata. Lo immaginava assorto, vedeva la sua scrittura dritta e chiara e si chiedeva se in quella scrittura vi fosse la spiegazione della profezia, della sinistra previsione che apriva a lui, René, un campo infinito di congetture. Si ripromise di fargli una domanda precisa la mattina, quando, accogliendo la sua richiesta, e onorando la tradizione, lo avrebbe accompagnato al treno. Già ora d'altronde poteva immaginare qualche risposta riandando con la memoria ad altre parole di suo padre. Non le ricordava con precisione, ma il senso gli era chiaro nella mente: era possibile la guarigione? Ricordava che, riflettendo sulla guarigione di un malato, o meglio sulla guarigione di un individuo ammalato, suo padre si era interrogato sulla guarigione del mondo. «Malato non è il mondo - aveva detto senza pentimenti - ma chi lo vuol guarire». Aveva acceso il suo avana ed era passato ad altro. C'era, chiarissima, una continuità tra le parole sull'isteria che avrebbe pervaso il mondo nell'immediato futuro e questa riflessione che rovesciava i luoghi comuni. Era un luogo comune capovolto o una verità? René, sul momento, vi aveva scorto una segreta intenzione di abbandonare l'arte del medico. Egli si chiedeva se davvero i guaritori avrebbero provocato la catastrofe. E lui, suo padre, non era anche lui un guaritore, con le sue medicine, le sue teorie, con la sua volontà di prevedere? Era questa, senza alcun dubbio, la domanda che gli avrebbe rivolto. Pensava al padre, ma anche a se stesso, e di nuovo sentì la voce di Emma: «Tu, René, non sei un personaggio, sei un problema». Emma gli suggeriva pensieri lieti. Come quando parlava del modo e della necessità di perdere il tempo. 27

Ora René poteva disporre a sufficienza nei limiti della notte e della mattina successiva. «È facile. Basta non fare programmi», e Emma gli aveva letto un breve periodo appena tradotto dalla sua lingua. Era facile per lei, con l'aiuto delle sue droghe. Ma lui, come poteva non fare programmi, come poteva rinunciare a consolanti superstizioni e a rassicuranti fughe nella previsione? Mentre camminava, si accorse che poteva distendere i muscoli, sgombrare la mente, evitare ansiose prefigurazioni. Si sentì libero. Durò poco, perché quelle strade che percorreva lo riportavano al passato. Erano volti, fatti, sensazioni, profumi. Inutilmente cercò di fare il vuoto nella mente. Emma ci riusciva, ma lui no. Gli occhi obliqui di lei erano il segno di misteriose ascendenze orientali. La differenza tra loro due gli fu chiara: lui prefigurava l'avvenire, lei, con le carte o con le foglie del tè, più spesso con l'ironia, lo prevedeva. Ne aveva le prove. Perdere il tempo non era impresa per lui: voleva e sapeva solo guadagnare quel tanto che gli serviva per quietare l'ansia. Svoltò e gli apparve la piazza vuota. (. . . ) Ottavio Cecchi 28

Il critico nella pancia del Pescecane De la critique avant toute chose I et pour cela préfère l' Impair. La manipolazione un poco gaglioffa della formula famosa si autorizza almeno del mettere l'accento sull'ultimo termine: Impair. Quale sarà l'Impair della critica? Nell'Anatomy of criticism, Northrop Frye dà ragione a Ruskin contro Matthew Arnold per una pagina sui nomi in Shakespeare: «Ruskin cerca di fare qui della vera critica. Egli tenta di interpretare Shakespeare mediante un sistema concettuale che è rigorosamente critico... Arnold ha ragione di sostenere che questo non è il tipo di materiale che possa essere direttamente usato da un criticosaggista; ma d'altro canto sembra non sospettare nemmeno l'esistenza di una critica sistematica autonoma dalla storia del gusto...». Ma i critici, i critici-saggisti o quant'altri mai, contemplano almeno come possibile, e stimolante, l'esistenza di un discorso che si presenti impair rispetto sia alla storia del gusto sia alla pratica dei sistemi «fortificati» proposti dall'uso? È l'ambiguità del termine «sistema» a provocare i peggiori imbarazzi. La critica dispari potrebbe volere dire critica «fuori dal conto» degli approcci più noti: storici29

stico, formalistico, psicoanalitico, decostruzionistico ecc. (non, s'intende, abbandonata a ogni vento d'umori). Nello stesso Frye si trova la denominazione di «critica intermedia», che pare tuttavia debole e piuttosto incerta. lmpair, dispari è, almeno intuitivamente, un senso forte che fa uscire la critica dalle rotaie, a non dire dai gangheri. Harold Bloom (Agon) propone il cartellino di «antitetica»: critica antitetica in quanto oppositiva, «evasiva», epperò «non gradita come tale agli epistemologi di qualsiasi scuola». Antiteticità ed evasività valgono rispetto ai processi - sia pure fini, ricchi e fruttuosi - che hanno sostenuto le nostre entrate nei testi. Privilegerei l'evasività: non si tratta di sottrarsi ai modelli di lettura ma soprattutto ai modelli di testi che tali letture costruiscono, e ci impongono. Barthes ha distinto fra testi letterari «leggibili», che cioè si prestano alla lettura (all'ingrosso, quasi tutta la letteratura prodotta finora) e testi «scrivibili», che ogni lettore è chiamato a riscrivere, «des textes qui donnent à écrire». Forse qui, particolarmente, si affaccia un'allusione al modo di operare della critica in quanto assuma il suo còté dispari. Ma: la critica in effetti non riscrive il testo preso in consegna (o dovrei rettificare: dal quale è stata presa in consegna?), piuttosto ne attua la scrittura nel momento-perverso (Bloom)- in cui lo contrasta e ne evade, rifiutando di colarlo nei moduli di un sistema. Magari il prototipo non è altri che Pierre Menard. Tre aspetti di questo modo d'operare si possono dedurre dalle pagine di Agon: la negazione, l'evasione, la stravaganza. Da secoli si suppone che la critica sia chiamata a fare dei conti: soprattutto, a fare che i conti tornino. Il dispari della critica è quella componente messa in sottordine in 30

periodi, come oggi, di grandi macchine sistematiche classificatrici e giudicanti, che ha la funzione di rendere la critica, come dire? non contabile. Implica, peraltro, non la cancellazione ma l'attraversamento dei moduli e dei sistemi, per produrne lo scarto. Critica imperfetta, si suggerirebbe, nel senso appunto di evitare che le somme quadrino. La critica non funziona per eseguire un lavoro, per portare a termine, come è stato detto, «un'operazione semplice in modo enormemente complicato». Il suo dispendio, semmai, è dell'ordine del godimento - ma, ancora una volta: l'opposto della critica edonistica. È almeno curioso che in cinquant'anni e più di sperimentazioni radicali nella poesia e nel romanzo, il discorso critico sia rimasto in sostanza bloccato alle stesse forme di investimento dei testi, senza tentativi (o con pochissimi tentativi) di controperare sull'eredità di conoscenze e di moduli. Esso è diventato, in certo modo, irreprensibile (perfetto!) e pedante, ossia repressivo, nel senso di escludere ogni occasione di aprire all'estravaganza sia nei metodi sia negli scopi. Qui estravaganza significa ben altro che dilettantismo, sia pure elevato; in quanto si leghi al suo valore etimologico («vagari») è la forza di mettere in moto un testo e farlo uscire dal suo stampo. Esempi di tale critica oggi li troverei piuttosto nelle pagine di certi eccellenti scrittori che non la esercitano in modo professionale - qualunque cosa poi ciò voglia dire: non so se sia un caso. Parlo di Carlo Emilio Gadda, di Andrea Zanzotto: sfogliare dell'uno Il tempo e le opere, dall'altro Fantasie di avvicinamento. Quanto ai professionisti... Non si può sperare di moltiplicare casi d'eccezione come quello di Gianfranco Contini, sommità dell'establishment. accademico e insieme continuamente portato a separarsene per la capacità straordinaria a stravolgere, anche stilisticamente, l'entrata del critico. In questa linea, si capisce con proprie caratteristiche, posso indicare Stefano Agosti. 31

Sarebbe incoerente con la natura della supposta critica dispari o imperfetta o antitetica (al fantasma delle codificazioni anche più raffinate e à la page? o ai testi, addirittura?), ricascare nella trappola delle categorie e delle sottocategorie. Del resto, la si riconosce caso per caso. Così in certi libri ho creduto di intravedere ciò che, in mancanza di meglio, indicherò come critica endofasica. Una voce critica a sé, voglio dire qualificata dalla propria specificità, parla all'interno di queste opere, che nella mia esemplificazione sono tutte opere narrative. Parla dell'opera stessa, ma non si tratta di quella pratica autoriale di informazione, di autodifesa o apologia, piuttosto comune in letteratura. Per due buone ragioni: che l'analisi, il giudizio critico non vi si separa dalle articolazioni narrative, anzi ne è parte integrante e necessaria; e che, soprattutto, vi è avvenuto uno spostamento del soggetto «criticante» dall'autore, supposto giustificarsi, difendersi o emendarsi, a una istanza narrativa «seconda», che cioè opera dentro l'atto di enunciazione primario, per un suo fine particolare - slittamento la cui microalienazione può spingersi al punto di assumere la maschera di uno o più personaggi del racconto, come apparirà dai miei due esempi più perspicui. Le figure di cri.tica endofasica si moltiplicano, e s'imbrogliano, quanto più ci si rifletta sopra. Fenomeni da borderline avvolgono il nocciolo, l'Urform, pura e assurda di tale critica, che potrebbe essere rappresentato dal caso esposto nel racconto di Borges «Pierre Menard autore del Chisciotte», dove è mirabile giustizia - ossia economia - poetica che la discussione del caso sia fatta per fictionem. Menard, letterato del XX secolo, riscrive due frammenti del Don Chisciotte coincidendo parola per parola, virgola per virgola, con il testo cervantino. Il suo compito non era di «comporre un altro Chisciotte... ma il Chisciotte»; con l'intenzione squisitamente critica di dimostrare che il 32

Chisciotte è «un libro contingente, innecessario» (dice Menard) e riuscendo in effetti all'impresa di provarne l'assoluta «necessità» (diciamo noi). Così, la critica del romanzo inguanta perfettamente il romanzo: rimettersi a scrivere un testo è appunto critica per eccellenza. Certo, si passa per gradi di fenomeni spuri, di decifrazione non sempre univoca. Il Tristram Shandy è un caso di critica endofasica globale, diffusa pulviscolarmente per tutto il testo, che sembra ad ogni punto stuzzicato dalla volontà di riprendere in considerazione se stesso, fino a rendersi pressoché invisibile. Così negli Sposi promessi si contiene la digressione fra l'autore e un «personaggio ideale», a proposito della pittura degli effetti dell'amore in un romanzo e del caso Racine; digressione espedita con la frase apotropaica, direi più romanzesca che critica: «Sparisci; e torniamo alla storia». Per tornare a un contemporaneo, un artificio omologo, ma si capisce in tutt'altro tono, è reperibile nella Pietra lunare di Tommaso Landolfi, giudicata, alla fine, in una lettera, anch'essa «ideale», del «signor conte Giacomo Leopardi». Il rimando si giustifica in quanto è chiaro che l'animus della trovata landolfiana (che peraltro si accorda con l'essenza della Pietra lunare, come hanno rilevato Calvino e poi Zanzotto) è affatto estraneo a quello che indusse parecchi autori, anche famosi, a mettere in testa o in coda alle proprie opere giudizi, autentici o fittizi, di quelle opere stesse. Valgano per tutti i versi degli Accademici di Argamasilla in onore di don Chisciotte, Sancio e Dulcinea, che chiudono la prima parte del Chisciotte. Forse anche per questo risulta meno inconsulta la convinzione del già citato Bloom, che «la critica deve avere avuto origine nella satira e nella farsa». Senza abbandonare Cervantes, eccoci a uno di quegli esempi perspicui ai quali ho accennato. 33

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