Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

Saphiri species digitis aptissima regum egregium fulgens, puroque simillima coelo. (Che un anonimo traduce in antico francese: «Al ciel resemble kant est purs»). E poi nella prosa De duodecim lapidibus pretiosis in fundamento caelestis civitatis positis: Sapphirus habet speciem coelesti throno similem. A questa tradizione attinge ancora verso la fine del Cinquecento o i primi del Seicento il gesuita borgognone Étienne Binet, che nel suo libro La Fleur des Psaumes, dopo aver descritto il zaffiro così chiosa: «Or ce brun azurin sursemé de sable d'or ressemble fort le ciel quand en pleine beauté il marque clairement et allume toutes ses étoiles». Se Dante chiama la Vergine «il bel zaffiro», è probabile lo faccia anche per una ragione di simbologia mistica. Una santa tedesca, Matilde di Hackeborn, morta proprio l'anno prima del fantastico viaggio di Dante e identificata da alcuni dantisti con la Matelda del Paradiso terrestre, nel suo Liber specialis gratiae identifica il zaffiro col cuore stesso di Maria3 • Ma il poeta è specialmente sedotto dal dolce colore della gemma, da quell'azzurro che ha visto ferito dal sole nelle vetrate gotiche. Ed eccomi ancora una volta ricondotto a Chartres. Dice D'Annunzio, parlando d'una donna, a un certo punto del suo Libro segreto: «I suoi occhi hanno l'azzurro di certe vetrate sacre, l'azzurro di Chartres, quello della Vierge bleue». Ma no, questa prosa che ha il gusto di sacrilegio caro al peggior D'Annunzio, non fa per noi. Ricorriamo piuttosto, ancora una volta, al poeta di Chartres, a Huysmans: 156 C'était un pétillement de bluettes et d'étincelles, un tricot remué de feux bleus, d'un bleu plus

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