Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

Si vorrebbe pensare, almeno per i fiorentini tra codesti poeti, alle scintillanti bottegucce d'orefici che ancora oggi si allineano lungo Ponte Vecchio e mettono in mostra cartellini con parole di sapore dantesco, come «rubini balasci» e simili. Ma invece, come ben si sa, se Ponte Vecchio ebbe le sue botteghe già nel secolo XIV, quelle degli orefici vi si stabilirono con un privilegio che escludeva tutte le altre soltanto sotto il terzo granduca, Ferdinando I. Nel secolo XIV, come si può indurre dal Trecentonovelle del Sacchetti, e forse anche nel secolo precedente, gli orefici bisogna cercarli piuttosto a Por Santa Maria, dove il novelliere fiorentino ci mostra quel suo Gallina Attaviani, intento a scolpire «suoi intagli dentro allo sportello» della bottega. Nella Commedia stessa, quante mai gemme! e con quale compiacimento evocate!2 Dall'orientai zaffiro della prima alba purgatoriale al fresco smeraldo in l'ora che si fiacca della valletta dei prìncipi, dal fin balascio percosso dal sole a cui è paragonato Falchetto da Marsiglia al vivo topazio che è Cacciaguida. Se si facesse un po' di statistica, risulterebbe che Dante nomina più spesso gli smeraldi e i rubini. Ma quello che più parla alla sua anima di poeta è proprio il zaffiro, che del resto ha un posto d'onore in tutti i lapidari. Dice di esso Marbodo nel suo Liber lapidum seu de gemmis: Quem natura potens tanto ditavit honore ut sacer et merito gemmarum gemma vocetur. E l'autore dell'Intelligenza facendo eco: La quinta gemma Zaffiro s'appella, ed è d'uno colore cilestrino. Gemma dell'altre gemme, cara e bella... Marbodo gli attribuisce una quantità di virtù, perfino quella di liberare i carcerati. Ma soprattutto ne esalta la pura bellezza. Dice nel poema: 155

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