Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

In questo coincidere dei motivi d'arte con quelli di vita, i due grandi temi di Greta, quello del Nord e quello dell'attrice, si attirano l'un l'altro e s'intrecciano come in una sapiente sinfonia. La bambina che alla porta del Reale Teatro Drammatico di Stoccolma aveva atteso ansiosa per vedere passare il celebre Lars Hansen, ora si ritrova proprio a fianco di lui, e a dirigerla è chiamato Siostrom, un altro scandinavo. Questa gente del nord risente nella collaborazione quel tremore quasi sacro, quella missione della scena che aveva permesso ai loro paesi di creare forse la più alta poesia di teatro nella seconda metà del secolo scorso, e di mandarne un Ibsen messaggero al mondo. Questa scuola aveva allenato l'attore a modi di recitazione resi più intimi, espressivi, immediati dal calore raccolto degli «interni» nordici. E fin quasi dai primordi della cinematografia internazionale la Svezia, con interpreti come Asta Nielsen, aveva dato l'esempio di un giuoco (coevo ed opposto a quello italiano più pantomimico), tutto interiore, sobrio, suggestivo nell'estremo riserbo. A questa famiglia Greta si è saputa mantener fedele, malgrado l'America. Con la Donna divina ella passa definitivamente nel novero delle «stelle». Eppure «stella» non sarà mai. Il carattere tipico della diva americana è quello di divulgarsi attraverso una impulsiva e naturale vivacità di modi, mentre Greta difende prima di tutto il pudore dei propri sentimenti. La passione delle sue eroine, non per questo più fiacca, acquista una specie di sublimità dal severo controllo della maschera, che la tiene prigioniera e non ne lascia filtrare se non l'essenza più spirituale, quasi come un fluido magnetico. Sfumature, trasognamenti, un abbandonarsi senza concedersi, un contrarsi appena accennato nel riso e nel pianto. Nel frattempo pare che Greta lentamente si acclimati ad Hollywood: studia l'inglese per fare a meno degli interpreti in teatro, e un giorno esce perfino a dire: «Fra po144

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