Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

sentimento di Hollywood?). «Viaggiarono due giorni e due notti. Allora per la prima volta Karl comprese la grandezza dell'America. » Su questa nota si chiude la sinfonia non finita, accennando al tema del dileguare, smarrirsi, che è tema americano. È stata notata un'analogia fra l'America di Kafka e quella di Charlie Chaplin, ancora da scoprire a quel tempo. Ricordo un bellissimo dramma del cinema muto, The Crowd, dove l'emerso, il vincitore, si volge all'acqua perigliosa, a quei marosi di massa dove fu grazia o ventura non affondare. Kafka non viaggiò che in Francia e in Alta Italia; non fu mai in America. Né furono in Svizzera o in Egitto Schiller o Verdi; pure non vide meglio chi vide il vero di come videro essi in Guglielmo Tell o Aida. Kafka non fu, né forse si curò d'essere, da tanto. I particolari descrittivi sono, come direi?, irresponsabili. Dato il punto di partenza obbligato, che è il gigantismo dell'America - quella specie d'ipertrofia congenita della pituitaria, onde le stature ad libitum -, non c'è limite. A Ramses, città (mai esistita) nei paraggi di Nuova York, l'Hotel Occidental ha trenta ascensori, troppi anche per il Waldorf-Astoria. La giornata lavorativa è di dodici ore continue (cosa non troppo remota dal vero a quel tempo), ma il ritmo delle domande e risposte al banco informazioni nella portineria dell'albergo è così vertiginoso che nessun portiere vi regge più di un'ora. I capitani d'industria hanno dieci uffici a diversi piani dello stesso edificio, e si spostano dall'uno all'altro senza conoscibile perché. Le scrivanie sono a cento cassetti, che prorompono in svariatissime guise o si rincappucciano a moderata o pazza velocità secondo il girar di una manovella. Gigantismo e macchinismo vanno di conserva. In Oklahoma il palco presidenziale, istituzione improbabile in questa demo131

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