re, tutto fisso in quel segno alfabetico quale emblema cabalistico del suo implacabile narcissismo. Cappa e Kafka sono tutt'uno: Cappa, in tedesco Ka, è Ich, io. Ancora al protagonista di Amerika è concesso chiamarsi Karl; quelli degli altri due romanzi, Il Processo e Il Castello, saranno K. e basta. E si veda con che slancio, nella firma autografa, l'iniziale mandi la coda ad aggrappar le altre lettere; con che duplice impeto schizzi su il secondo cappa, che dovrebb'essere minuscolo; in quante equivalenze egli varii e moduli, nei racconti maggiori e minori, quel carissimo nome (che in ceco, come c'insegna Max Brod, vuol dir cornacchia). Brod vuol credere e farci credere che Karl, unico fra i personaggi maggiori di Kafka, troverà la diritta via; il romanzo di Karl- il quale, come e più del Processo e del Castello, è un torso; Kafka non finì nulla, tranne cose di forte ma corto respiro - sarebbe stato a lieto fine, egli suppone, se fosse stato condotto a fine. Stentiamo a credergli: non tanto per la ragione generica che Kafka fu poeta di dannazioni, non di redenzioni, quanto per il suggerimento specifico che viene dall'altro titolo ch'egli ebbe in mente: Der Verschollene, cioè Il Dileguato, Lo Svanito. Karl, i lettori ricordano, fratello fuori stagione degli orfanelli di Dickens e al tempo stesso esponente precoce della prima ondata freudiana, è espulso da Praga e da un'inverosimile famiglia per essere stato sedotto e reso padre, appena quindicenne e del tutto innocente, da una serva; è scaraventato in America senza né arte né parte per cavarsela come potrà; e, qui giunto, passa naturalmente (e freudianamente) di espulsione in espulsione, ripetendosi automaticamente la sua prima frattura; incolpevole e reietto la seconda e la terza volta, com'era stato la prima. Infine lo vediamo in treno, migrante con un impieguccio dalla zona atlantica all'interno, nell'agglomerazione immensa degli addetti al Teatro Naturale, Naturtheater, di Oklahoma, che era, va da sé, «il più gran teatro del mondo» (pre130
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