Il piccolo Hans - anno XV - n. 57 - primavera 1988

Il biologo (physiologist) può dimostrare che grazie a questo incessante ricambio di individui e alla permanenza della specie la quantità di godimento nell'intera creazione è aumentata infinitamente rispetto a quella che ci sarebbe se gli stessi individui continuassero a vivere senza interruzione, senza cambiamenti, esenti da morte (ibid, p. 28). Buckland non lo diceva chiaramente - anzi la lettura del brano testé citato sembrava incautamente escluderlo - ma lo stesso ragionamento poteva applicarsi all'intera storia della vita sulla terra, col suo susseguirsi di creazioni e distruzioni: ad un certo punto, era giusto che una specie intera si facesse da parte per lasciare il posto ad un'altra che scalpitava per uscire dal regno del possibile e godere della gioia dell'esistenza. Presentando la distruzione come uno strumento di massimizzazione, come si direbbe oggi, della felicità, le razionalizzazioni di un Buckland avevano qualcosa di paradossale, soprattutto se contrapposte alla rozza semplicità, alla brutale immediatezza di chi vedeva nella vita uno sforzo e nello sforzo l'espiazione di una colpa. Per costoro l'esistenza del male doveva essere accettata, non indorata. Su costoro non aveva alcuna presa il trionfalismo ideologico di una nuova casta professionale in ascesa. Le loro resistenze persero presto ogni credibilità scientifica e non lasciarono traccia alcuna negli sviluppi della geologia, cedendo il passo ad una visione giustificativa della realtà naturale (e sociale) più aggiornata scientificamente. Anche perché - e questo è molto importante - la nuova razionalizzazione assorbiva alcune importanti istanze razionalizzanti che in quelle resistenze trovavano espressione. Buckland ce ne offre un esempio proprio in quel sermone del 1839 in cui più netta è la sua contrapposizione alla visione pessimistica, e si passi il termine, colpevolistica della morte. Come le ostilità fra gli animali contribuiscono alla felicità della creazione, così, egli dice182

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