Nuova Repubblica - anno V - n. 21 - 26 maggio 1957

(tM) nuova republ11ica 3 L'INTELLIGHENZIA COMUNISrÌ'A E J.-P. SARTUE PERSONALIT A' E LAVORO Se per Sartre l'officina si limita a ridurre gli uomini allo slalo di cose, senza educarli alfallo, anche l'organizzazione politica degli operai diviene una macch.ina, una pura disposizione di cose che deùbono lasciarsi guidat·e dal!' "apparato,, di Ili D OPO molti altri interrogativi, Sartre si era chie– sto che cosa fos~e la letteratura. La risposta po– neva in luce le incertezze di cui ho parlato; che erano la conseguenza del rifiuto di scegliere e non, come lui pretendeva, dell' «impegno». Poiché riduceva gli intelleltuali al romanziere, al drammaturgo o al saggi– sta, Sartre non concedeva loro che una forma di im– pegno piuttosto attenuata: la tesUrnanianza. Poco alla volta la testimonianza ha finito per divenire acquie– scenza, e, quel che è peggio, acquiescenza alle direttive generali dell'apparato staliniano del partito comunista. Si erano inseriti sotto sotto i temi filosofico-letterari più congeniali a Sartre: la scelta, il fallimento, il tra– dimento. Per lui, tutto ha origine dalla coscienza, dal soggetto, che è la sola certezza esistente, tutto il resto essendo contingenza e probabilità. E siccome la co– scienza non può esser percepita che per mezzo del lin– guaggio e della comunicazione, ciò vuol dire che la fun– zione dell'intellettuale dipende in definitiva dall'idea che esso si fa della propria parola. Per Sartre la parola è onnipotente: introduce la dialettica nel mondo e nella società. Come si' vede, si tratta di una concezione piut– tosto antica! Perciò lo scrittore ha sempre delle riserve, di fronte agli altri, e non può aderire « senza riserve» ad alcun elemento sociale: se intende testimoniare, e in particolare testimoniare a favore degli oppressi, deve in qualche modo trasferire la sua opjnione a coloro che egli crede li rappresentino. La loro causa diviene la sua senza esserlo affatto nella realtà. In breve, l'intellettuale è lacerato tra la crea.zione e la politicci. Non volendo adattarsi alla politica, egli Si mette a offrire ogni sorta di confuse rappresentazioni della politica, della borghe– sia, del movimento operaio e del marxismo, e quando vorrà polemizzare all'interno del movimento rivoluzio– nario, cadrà nella battuta di spirito, nel sotterfugio, nella malafede, nel puro e semplice pettegolezzo irresponsabile. Altro è pronunciarsi genericamente contro il « co– lonialismo >>e la «borghesia», e per il «socialismo)); idtro giudicare la realtà quotidiana, e in particolare gli individui e i gruppi che rientrano nella sfera del con– tingente e del probabile, e non in quella degli assiomi. Altro spiegare l'accaduto << a posteriori»; altro è cer– care di costruire l'avvenire. Affiancarsi non è mai troppo disagevole, ma contare su se stessi è più difficile, e più rischioso. Non pretendo affatto che gli scrittori si pon– g:mo questo dilemma a ogni piè sospinto, ma almeno non debbono cercare di risolverlo senza prima rendersi conto di quello che fanno. Per questo, un atteggia– mento riservato val più di un impegno irragionevole. Le sottigljezze di Sartre a questo riguardo non hanno fatto che cacciarlo in una impasse che si ripete conti– nuamente. Egli distingue diverse categorie, tra gli scrit– tori, e comincia coll'isolare il poeta, individuo che non può (<impegnarsi)) perché crea dei termini assoluti, cioè delle astrazioni che hanno vita autonoma, gratuite e inutili: è una concezione degna di Jourdain, ma che in realtà ha origine in una distinzione tra l'utile e l'inu– tile tutt'affatto arbitraria. Per Sartre il poeta dev'es– sere inutile, mentre io lo ritengo invece di qualche uti– lità, anche se non nello stesso modo del giornalista o del cuoco. Per converso, lo scrittore in prosa cade in– teramente nella sfera dell'utilità: <( la prosa è essen• zialmente utilitaria>>, poiché il prosatore utilizzn le pa– role. (< Lo scrittore è anche un parlatoTe: indica, dimo– stra, ordina, respinge, domanda, prega, ingiuria, persua– de, insinua ... La parola è un certo momento particolare dell'azione e non è comprensibile al di fuori di essa>>. Di conseguenza, si sarebbe portati a credere che J'(< aspet– to peculiare>> dello scrittore sia la nullità, dato che la sua parola è inutile. E perché poi? Perché essa non ha prezzo: ((In fondo, lo scrittore non viene pagato: viene nutrito, più o meno bene p seconda dei tempi. Le cose non potrebbero andar diversamente, poiché la sua atti– vità è inutile: infatti non è per niente utHe, anzi spesso è addirittura dannoso, che la società prenda coscienza di se· stessa. Lo scrittore è un parassita dell'élite diri– gente, che, a causa delle sue funzioni, si oppone agli interc-ssi di coloro che lo fanno vivere». In breve: lo scrittore non serve a niente. Ma rilevate la contraddi– zione: sarebbe inutile, infatti, precisamente perché si. serve di uno strumento utilitario, la prosa. Egli serve a qualcosa (poiché con la sua prosa « utilitaria>> può riu– scire come minimo ((dannoso>> alla società dominante) e contemporaneamente non serve a niente, poiché la sua attività viene considerata inutile per principio. Sartre non mancherà di osservare che la contraddi– zione è proprio qui, che io faccio il finto tonto rifiu– tandomi di rilevarla o di ammetterla, e che i fatti stanno così e non per colpa sua; piuttosto, bisogna (< su– perare)> tale contraddizione. Ma si tratta di una con– tt·addizione inammissibile nel modo com'è stata for– mulata, perchè derivante da una concezione de1l'utile PI ERRE NAVILLE e dell'inutile del tutto arbitraria. Secondo Sartre, l'uti– lità viene a identificarsi con la <(strumentalità>> e costi– tuisce il modo d'essere degli oggetti opposto a quello dei soggetti, vale a dire di un mondo essenzialmente diverso da quello umano. Gli oggetti, ossia le cose, sono stru– menti, utili e utilizzabili solo a condizione che vi siano dei soggetti capaci di utilizzarli per i loro fini; di per se stessi, invece, sono inutili e inutilizzabili poiché il loro modo di esistere è la libertà. Tale distinzione, oltre ad essere piuttosto sommaria, caratterizza fondamen– talmente l'idealismo e sta all'origine della contraddi– zione dianzi accennata, che non esiste altro che nella testa di Sartre. Gi_à Engels aveva sostenuto, a suo tempo, che, per comprendere il reale significato dell'utilharismo, occor– re ricondurlo al suo aspetto sociale, cioè lo sfruttamento d-et lcwo,o, anziché collegarlo alla metafisica astratta dell'« oggetto>> e del «mezzo>>. Il fatto di servire, di uti– lizzare o di essere utilizzati, in principio non implica che dei rapporti d'uso, e questi rapporti non sono affatto peculiari all'uomo, ma riguardano anche gli animali e, sotto un certo aspetto, tutta la natura. Il rapporto d'uso, e quindi anche quello di utilità, è un rapporto di li– bertà e di disponibilità verso le cose: distinguendo, con Aristotele, il rapporto di scambio da quello d'uso, Marx è pervenuto a ravvisare nella forma capitalista del rap– porto di scambio (lavoro contro salario, lo scambio fondamentale della società) un rapporto di utilità in senso di sfruttamento. L'uso e l'utilità non sono affatto, in sé e per sé, considerati come concetti, dei modi di esistere degli oggetti-cose opposti al modo di esistere dell'uomo. L'uso e l'utilità sono affari umani, implicanti il rapporto di mezzo a fine, rapporto che è impossibile far sparire; la esclusione scambievole del fine e del mezzo è pura metafisica. A questo lo scrittore non fa certo eccezione: chiun– que esso sia, autore di prose o di versi, serve a qual– cosa. Ma a che cosa? ecco il punto. In ogni caso, non è possibile richiamarsi all'opposizione fittizia tra la gra– tuità dei· .ni e il carattere utilitario del mezzo, ossia il linguaggio. 1 Questo lo fa Sartre, quando scrive: <(Sosten– go che la letteratura di una determinata epoca resta alienata se non perviene alla consapevolezza esplicita della sua autonomia; essa si sottomette al potere tem– porale o a quello ideologico se non considera se stessa come fine incondizionato invece che come mezzo>>. Ma io obietto: come è possibile Che una attivHà che si serve di uno strumento « utilitario >>non ne resti a sua volta condizionata? Anche se tale condizionamento non è identico al fine, purtuttavia esiste, e senza di esso nean– che il fine esisterebbe più, e viceversa. Come Ca lo scrit– tore a proclamarsi <( autonomo))>- senza mistificare se stesso, senza cadere nel solipsismo e nutrirsi di vuoto? I L CHE NON vuol dire affatto che l'intellettuale debba sottomettersi al <(potere temporale))'. vuol dire soltanto che non può vivere di niente. Altrimenti viene costretto, dato che è per lo meno un essere vivente, a ripiegare sulla sua corpo,raz·ione e a divenire l'intellighenzia <(di classe)), ambigua e melanconica, che sviluppa lo spi– rito di disciplina di pari passo con l'apparente <(auto– nomia >>.Tra soggetto e coscienza pura, e classe bastarda, Sartre non sa più come definire il <( fine incondizionato>> dello scrittore. Tutto quello che gli si può chiedere è che parli dell'accaduto mantenendosi alla dovu'ta distan– za: « La praxis, azione nella storia e verso la storia, sin– tesi fra la relatività storica e l'assoluto metafisico, che ci rivela un mondo ostile e amico, derisorio e terribile: ecco il nostro argomento>>. E' chiaro che, in tale pro– spettiva, lo scrittore non deve più (< slanciarsi in mezzo al proletariato, ma al contrario considerarsi un borghese messo al bando dalla sua classe e unito alle masse op– presse da una comunanza di interessi >>. A questo punto viene alla luce la relazione tra la concezione sartriana della funzione intellettua1e e l'af– fermazione, strana in apparenza, secondo la quale « il marxismo, in Francia, si è fermato >>.Già quando si do– mandava cosa fosse la letteratura e invitava l'intellet– tuale a corìsiderarsi (<un bo'rghese bandito dalla sua classe>>, Sartre sosteneva che la sua~ iniziativa avrebbe prodotto « un movimento di idee, una ideologia aperta, contraddittoria, dialettica. Il marxismo sarebbe sicura– mente prevalso, ma si sarebbe colorato di mille diverse sfumature e avrebbe dovuto assorbire le dottrine rivali, e assimilarle, restando aperto>>. Invece il marxismo si è aO'ermato, in particolare contro i prudhoniani, « non con la potenza della negatività hegeliana, che supe– rando conserva, ma perché forze esterne hanno elimi– nato puramente e semplicemente uno dei termini del– l'antinomia: in mancanza di contraddittori ha perduto la sua vitalità. Se esso fosse risultato la dottrina più valida, costretta continuamente a combattere e ad evol– versi per prevalere, e per di più rubando le armi ai suoi avversari, si S(lrebbe identificato con Io spirito urnu- no: rimasto isolato, si è trasformato in Chiesa, mentre, a mille miglia di distanza, altri scrittori di buona fami– glia custodivano una concezione astratta della spiri• tualità ». Questo è un giudizio che risale a dieci anni fa, ed è lo stesso che Sartre ripete oggi. Solo che, nel frat– tempo, è andato anche lui jn chiesa a dire Je sue pre– ghiere. Pensare che è proprio l'autore di quello scritto a tacciare oggi Hervé di riformismo! A PRIAMO alcuni libri di Sartre, e vedremo dove con• duèa il voler riunire la storia con « l'assoluto meit.a– fisico >>: la storia non vi giuoca ruolo alcuno, mentre l'as– soluto metafisico è tutto. Di qui prendono origine le pap– pardeHe economico-metafisiche, ridicole anziché no, dove Sartre passa in rassegna gli avvenimenti del giorno e ingiuria con pesantezza pari al candore qualsiasi scritbo– re che al momento lo infastidisca. L'ispirazione prima di tutto ciò sono i giuochi di prestigio del soggetto e del– l'oggetto, così come lui li vede. Ecco, per esempio, come egli censura Lenin, colpevole di non aver compreso la funzione della (<soggettività >L Vale la pena di citare il passo per intero, poiché è uno dei più caratteristici; « Le– nin, il primo teorico del centralismo, dimenticando del tutto la teoria della Verdinglichung (secondo la quale 1a fabbrica organizza i lavoratori solo come oggetti), può giungere a scrivere queste frasi addirittura mostruose: " (L'lskrn ...) mi accusa di concepire il Partito come una immensa officina, con alla testa un direttore, il Comitato centrale ... Questa officina, che a qualcuno pare null'altro che una cosa spaventosa, è la forma più progredita della cooperazione capitalista, che ha riunito e disciplinato il proletariato e gli ha insegnato i principi dell'organizza– zione ... Il marxismo, in quanto ideologia propria dal pro– letariato educato dal capitalismo, ha insegnato e insegna tuttora agli intellettuali disorientati la differenza che passa tra l'aspetto sfruttatore della fabbrica - e cioé la disciplina basata sulla paura di morir di fame - e l'a– spetto organizzativo della medesima - e cioé la disci– plina determinata dal lavoro in comune come risultato di una tecnica altamente sviluppata". "Lenin è un. niisti– fìccitore >>,conclude Sartre. <(La disciplina di fabbrica si attua per mezzo del taylorismo e degli altri sistemi di razionalizzazione, in modo da· perfezionare la "reifica– zione" dell'operaio coll'obbligarlo al lavoro a catena, col distruggere in lui ogni rapporto concreto col prodotto e con se stesso, col ridurlo in definitiva allo stato di mac– china. Questa disciplina che consegue a una tecnica alta– mente sviluppata realizza per gli, uomini una disposizio– ne altrettanto 'ben regolata di quella della macchina. La sua efficacia è considerevole, tanto che, trasportando tale disposizione sul piano dell'azione rivoluzionaria, se ne ottengono dei resultati sorprendenti. Se non che l'orga– nizzazione di lotta proletaria non fa altro che perfezio– nare la "reificazione" dell'uomo iniziata per opera della borghesia >>. Ecco dunque i paralogismi della metafisica, in tutta la loro cristallina confusione! Secondo Sartre, non esiste alcuna dialettica delle cose: la « soggettività >>passeggia soVrana tra oggetti inerti, e le cose - nella fattispecie l'o!Tlcina - non dispiegano alcuna influenza formatrice sul pensiero degli uomini. L'officina si limita a ridurre gli uomini allo stato di cose, senza educarli affatto. Com'è naturale, Sartre applica questo ragionamento formalistico ad ogni sorta di « circostanze » e a tutti i rapporti pos– sibili tra uomo e natura, compreso i prodotti del lavoro umano: l'officina non è affatto una creazione umana, e tanto meno un'opera di civiltà. Anzi, ogni lavoro che .:;i esercita sulle cose per mezzo dì una tecnica - e non c'Z lavoro di altra sorta - è essenzialmente estraneo all'uo– mo e non può che ridurlo allo stato di e< cosa>>: tra l'uo– mo e i suoi prodotti c'è una separazione assoluta. Neìlo stesso modo, l'organizzazione politica degli operai, quando combatte per i suoi principi nella struttura sociale, di– viene anch'essa una macchina, una pura disposizione di cose che trasforma i suoi membri-oggetti in ingranaggi di macchina. Poiché la (<soggettività>> e l'« oggetto» sono eterogenei tra di loro, ogni dialettica del reale è impossibile: non resta altro da fare che condannare senza appello l'officina e il partito operaio in nome della libertà dello spirito. Sartre non vuole rendersi conto che i rapporti degli uomini con Je cose di cui si appropriano per la produ– zione costituisce l'origine di ogni dialettica reale nella vita· e non capisce nemmeno che l'officina è mezzo di asse~·vimento e di liberazione al contempo, purché al suo interno si dispieghi la totta, come negatività reale e con– creta. Secondo il suo schema, la storia delle lotte ope– raie contro l'industria capitalista non si potrebbe spie– gare altro che come pura e semplice ribellione della « sòggettività ,, contro le circostanze, vale a dire come una· specie piuttosto antica di mistificazione. Certo, (segue a 1mg. 4, 3.a coi.)

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