la Fiera Letteraria - XV - n. 21 - 22 maggio 1960

Domenica 22 maggio 1960 PaJ?. 3 Il terzo libro dell'''Eneide,,· di Virgilio LA VIA DELL'ESILIO Disperdere piacque agli Dei la potenza dell'Asia e di Priamo la gente incolpe\·ole. Cadde cosi Ilio superba; tutta ora fuma. fatta di polvere. al suolo Troia che fu da Nettuno un giorno edificata. Il monito sacro, oscuro, ci spinge a un esilio remoto, verso terre deserte. Fabbrichiamo alle falde dell'Ida una flotta proprio lì, sotto Antandro; e senza sapere do\"e mai il destino ci porti né dove ci fermi. raduniamo i compagni. L'estate era già cominciata. e secondo il volere di Anchise mio padre. affidiamo le vele alla sorte: lascio le rive della patria e i porti piangendo, lascio i campi dove un tempo Troia sorgeva: esule vado sul mare con mio figlio, con gli altri superstiti. coi Penati e coi Xumi più grandi: dio?tro l'incerto. POLIDORO Esiste lontana una terra di vaste pianure protetta da Marte: la Tracia: su cui ebbe regno una volta Licurgo feroce. antica sede ai Troiani ospitale e fraterna finché resisté la fortuna. Vi approdo, e su la spiaggia di seno profondo una città comincio a fondare col fato contrario e chiamo Eneadi, così dal mio nome. gli abitatori. I riti sacri compivo a Venere madre. chiedevo un segno lieto agli Dei per l'opera mia e offrivo un toro bianco sui lidi all'alto re dei Celesti. Si trovava un rialzo li accanto e in cima ad esso virgulti e una pianta di mirto. rigida. fitt3 di rami; mi accosto. strappo dal suolo un cespuglio a coprire di fronde le are. e vedo un orrendo prodigio, mirabile a raccontarsi. Dal primo arbusto che schianto da terra con le radici scorrono gocce di sangue e macchiano il suolo di nero: una fredda paura mi scuote, mi stringe le membra e il sangue mio si rapprende più freddo de} gelo. Provo ancora a strappare un ramo flessibile da un altro arboscello; volevo tentare. scoprire più in fondo la causa occulta del sangue. e viscido sangue spruzzava anche da quello. Le Ninfe dei campi adorai con mente confusa e il padre Gradivo, cui sacra è la terra dei Geti: perché la visione mi fosse propizia, e il senso di arcani portenti rendessero lieve al mio animo. Ma quando con sforzo maggiore contro la terra dura puntai le ginocchia a strappare la pianta (devo parlare o tacere?) odo un triste lamento venire di sotto la balza, un gemere cupo; ed esce, quasi a rispondere, una voce nell'aria: e Enea, perché mi laceri? Così tu contamini, violando un morto, le tue mani pietose? Estraneo a te non mi diede Troia alla luce, né questo sangue zampilla proprio da un albero. Fuggi da una terra crudele, da un lido avaro! Polidoro io sono; una ferrea selva di dardi qui mi trafisse e tutto il mio corpo ha coperto. ed alta in rami pungenti. è cresciuta>. Parole e sangue allora mi !ecer tremare: stupisco, le chiome si rizzano, un brivido mi toglie la voce. Priamo infelice. ormai disperando dell'armi troiane. e vedendo le mura cinte d'assedio aveva affidato in segreto questo suo Polidoro al re della Tracia con grande cumulo d'oro. l\Ia quando mutò la fortuna e la forza dei Teucri s'infranse, quello seguì la vittoria dei Greci e ruppe ogni legge divina: uccide il ragazzo e si appropria dell'oro. Che cosa non fai tu osare agli uomini, tu brama esecranda dell'oro? Appena il terrore fu calmo e scomparve, narro il prodigio divino ai capi scelti del popolo, a mio padre per primo. e chiedo il loro pensiero: è uguale in ciascuno: partire dal paese nefando. dall'çspizio violato, e riprendere il mare. Preparo intanto esequie solenni a Polidoro: a tumulo alziamo la terra ed are ai Mani adorne di fosche bende e di neri cipressi. Vengono intorno meste le donne col crine scomposto secondo l'usanza; coppe offriamo di spumanti di tepido latte, versiamo sangue di v;ttime sacre. adagiamo !"anima quieta dentro la tomba e lei a gran voce chiamando saluto per sempre. IL RESPONSO DI APOLLO Quando ti.darsi del tempo sereno è J?OSSibile e j venti ci porgono un mar~ tranquillo e l'aria in murmure lieve c'invita a salpare, i compagni traggono all'onda le navi dal secco e tutta la riva si affolla. Usciamo dal porto e campi e città dispariscono indietro lontane. Nel mezzo del mare si estende una terra, cara a Nettuno Egeo e alla madre delle Nereidi: terra che prima vagava pe' lidi e che ~pollo grato fermò, legandola a Mìcono e a Giaro: immota la rese. abitabile, e sicura dal vento. Là. stanchi, ci accolse un placido po~o. Adoriamo, appena sbarcati, la terra ~1 Apollo. Anio, il re. che pur sacerdote era dt Febo, con bende e con rami di sacro Jau~ alla fron~e. incontro ci viene, e Anchise, vecchio suv am!co, riconosce: stringiamo le destre in patto ospitale. 11 tempio di pietra, antico, adoravo del Nume: e Dacci, o Timbreo, una dim?ra nost:a, una terr3 dona a questi uomini stanchi, una stirpe, una città che duri nel tempo. Un'altra rocca serbaci; serba gli ayanzi ~fuggiti a~a _strage. 1 dei Dànai e di Achille spietato. Cht et trascma. Dove c'imponi di andare, di fondare ~a ~ed_e? ., Dacci tu, padre, l'oracolo, e invadi gli an1m1 nostri. > Avevo appena parlato che ogni cosa v~demmo tremare improvvisa: il tempio, i bosch,i_ di lau:1, e t~tto muoversi il monte grande ali intorno. e udimmo dagli àditi aperti il fragore del timpano sacro. Irrompe una voce. cadiamo suppli~i a.I suolo: e Dardànidi forti, la terra dei padn che a v01 diede l'origine prima, è quella che attende nel grembo fecondo il vo~tro ri~omo. C~rcat: l'antica madre! Ivi la stirpe d1 Enea,_ 1 figi! dei figli e quanti vedranno la luce det sec_oh saliranno alti al dominio su tutte 1~ g~~ >. . Cosi Febo; e un tumulto nacque di g1ub11o: tutu ora chiedono quale sia questa terra ov~ F!bo chiama gli erranti, ove Febo coman_da 11 rtto~o. Mio padre, seguendo nell'animo ant~che memone, dice: e Uditemi, le vostre speranze. 10 posso illuminare. Creta giace sul mare, isola_ ~rande di Giove; ivi c'è una montagna, l'Id3:; _1v1_la culla di nostra gente; e cento città gli uomm1 abitano nella fradozione di e cento regni. Di là il nostro padre maggiore, Teucro, se bene ricordo, giunse per primo ai lidi Retèi, e scelse quel luogo a suo regno. Ilio alta. le sue rocche, non c'erano an=ora: abitavano valli profonde. Di là \·ennero a noi la Madre che sta sul Cibelo, i cimbali dei Coribanli e il bosco Ideo, e il si1enzio arcano dei riti e l'uso di aggiogare i leoni al carro divino. Andiamo dunque dove ordina il dio; plachiamo i venti; salpiamo verso i regni di Cnosso: il terzo giorno ci scorga sui lidi di Creta! > Parlò cosi; e su le are offerse vittime degne dei Numi: un toro a Nettuno, e un altro a te. splendido Apollo; quindi uccise una pecora nera alla Tempesta ed una ai Zefiri lievi, Pianca. Fama correva che dai regni paterni era scacciato ldomeneo e che i lidi di Creta aveva il nemico abbandonati, e quasi li ci aspettassero. Lasciamo a vele spiegate il porto di Ortigia: rasento le rive di asso, là dove suona su per le cime dei monti la festa di Bacco, e Dònisa verde, Olèaro e il candore di Paro, le Cicladi sparse. i flutti agitati fra sponde vicine. Sorge alto in fervida gara il grido teli.ce dei naviganti, esorta l'un l'altro a raggiungere Creta. L'ISOLA DI CRETA Il vento ci spinge da poppa e accompagna la corsa, finché dei Cureti toccammo i liti vetusti. Innalzo ardente le mura alla sede bramata. le impongo il nome di Pergamo, esorto la gente lieta del nome all'amore del fuoco domestico, a elevare la rocca nei luoghi più alti. Già erano in secco sul lido quasi tutte le navi. j giovani andavano a nozze !! al lavoro dei campi. io davo leggi. i luoghi assegnavo alle nuove dimore, quando dal cielo corrotto un'afa maligna scende nefasta alle membra. un anno di morte su alberi e campi; e gli uomini anche lasciavano il dolce respiro o traevano i corpi malati. Sirio bruciava, spogliava del verde la terra; arida l'erba, la messe infetta impediva di vivere. 1lio padre ci esorta a percorrere il mare di nuovo, a tornare all'oracolo, a Febo in Ortigia, a chiedergli ancora un responso per grazia, quale termine segni alla nostra stanchezz:1. che cosa, quale rimedio si deve tentare all'affanno e dove rh·olgere ancora il corso marino. I PENATI Era notte e in terra il sonno teneva i corpi mortali. quando i Penati troiani. le sacre figure che meco. tra fiamme e ro\·ine. avevo portato da Ilio. mi parvero stare davanti ai miei occhi mentre sveglio io giacevo. in chiara luce visibili, ché piena era la luna e il raggio mandava per le finestre. Essi parlavano, per alleviarmi l'affanno, così: e Quello che a te, se ritorni ad Ortigia. Apollo direbbe, qui Jo rivela; egli anzi ci manda nella tua stanza. Dalle ultime fiamme di Troia noi ti seguimmo armato; noi su le navi al tuo cenno solcammo il turgido mare; noi siamo gli stessi che i tuoi nipoti venturi alzeremo alle stelle e impero daremo alla città. Tu grandi mura prepara a quei grandi: del tuo errare sarà lungo l'affanno, e tu non respingerlo. Partiamo di qui: queste non sono le spiagge dove Delio t'invita; non disse Apollo 1ii fermarsi a vivere in Creta. Un luogo c'è, che i Grec.i chiamano Esperia, una terra antica d'armi potente e di glebe feconda; gli Enotri, uomini forti, già l'abitarono; è fama adesso che i posteri dissero Italia quel popolo, dal nome del condottiero. E' questa la sede per noi stabile: là Dardano nacque, là il padre fasio: la nostra progenie ebbe inizio da Darciano. Or lèvati, e al padre longevo queste cOSe riporta certissime: cerchi Cerilo e i campi d'Ausonia. Lo vedi che Giove ti nega i regni di Creta Dittèa >. Attonito per tale visione e per le voci divi.ne (non fu già un sogno quello, ma proprio davanti mi stavano i volti, le chiome velate, lì nella notte aspetti veri e presenti a me di freddo spavento sudato) balzo dal letto, al cielo sollevo le mani supine e la voce, e doni spargo su l'ara incontaminati. Lieto del rito compiuto, espongo ad Ancbise og?li cosa per orciine. Egli ravvisa la duplice prole e i gemini padri: l'inganno recente che i luoghi· vetusti confuse al pensiero. Poi dice: e Figliuolo che i fati di Troia affaticano, Cassandra soltanto cantava a me questi casi. Adesso ricordo com'ella svelava che al popolo nostro era questo serbato; e spesso invocava l'Esperia. spesso un regno in Italia. Ma chi avrebbe creduto che i Teucri giungessero ai lidi d'Esperia? Cassandra chi mai allora poteva convincere? Si obbedisca al comando di Febo, al destino migliore >. Questo egli disse, e tutti obbediamo plaudendo. · Lasciamo ancor quella sede, tranne alcuni che restano; e alziamo di nuovo le vele su !'acque distese. LA TEMPESTA Le navi solcavan sicure di già ralto mare né più si vedevano terre: per tutto era cielo, acqua per tutto. Ed ecco mi scende sul capo un cumulo fosco di pioggia che in furia si ruppe di nera tempesta e l'onda tremò nelle tenebre. I venti scompigliano il mare. le acque salgono grandi, immensi gorghi ci sperdono. I nembi coprono il giorno. un'ombra bagnata ci toglie la vista del cielo, terribile sfonda le nubi la luce dei fulmini. Erriamo all'oscuro sbalzati fuori di rotta. Palinuro ci avverte che non sa più distinguere la notte dal giorno, che più non ricorda la via nel mezzo del mare. Così per tre giorni d'incerto chiarore erriamo sul mare sotto la nebbia, cosi per tre notti senza lume di stelle. LE ARPIE Finalmente Ci parve vedere, e fu il quarto giorno, affiorare una terra, quindi scoprirsi allo sguardo monti lontani e volgersi globi di fumo. Raccogliamo le vele, remiamo con forz.a veloce: al vigore le spume si levano e segnano il golfo. Scampato alle onde, ml accolgono prima le spiagge delle Strofadi. Sono le Strofadi, cosi chimate dai Greci, isole in mezzo al grande Ionio solinghe. Ivi Celeno crudele e le altre Arpie vivono, poi che per loro la casa fu chiusa e sgomente lasciaron la mensa. ~on c'è mostro di quelle più tristo, né peste o disgrazia dal fondo di Stige esce più orrenda. Il viso hanno di femmina ed ali deformi di volucri, un ventre allungato che puzza, le mani distorte, rapaci con unghie ricurve, e livide facce. un pallore di fame perpetua. Qui, dove in porto entrammo sospinti, ecco al pascolo armenti si vedono sparsi, un gregge pingue, senza guardiano: armati di ferro corriamo alla preda: gli Dei. Giove medesimo invoco partecipe. E li, sopra l'erba del lido sinuoso. stendiamo le mense, e tutti sediamo a banchetto. Ma sùbit-0 calano in volo pauroso dai monti le Arpie: il rombo orrendo dei vanni si unisce al grido d'assalto, arraffano il cibo in disordine. l'immondo contatto ogni cosa contam~a e guasta, e lugubre suona di mezzo al fetore la voce. Troviamo un luogo appartato, un antro rupestre. chiuso da alberi intorno, e da ombre. Di nuovo stendiamo le mense. accendo il fuoc~ su rara: e da un altro punto del cielo ecco di nuovo la turba strepitosa verso la preda s'abbassa coi piedi adunchi: le bocche voraci corrompono il cibo. Ordino allora ai compagni di prendere l'armi. di star pronti a lottare coi mostri. se tornano. Tra l'erba nascondon le spade e gli scudi. Appena dall'alto fecero l'ali sui cun-i lidi fragore, la bronzea tromba squillò di Miseno alla guerra. Accorrono tutti a tentare la strana battaglia, a ferire di spada quei turpi uccelli di mare. Le penne respingono i colpi, né il corp.;:, riceve ferite. In alto si levano in fuga, mezza sbranata lasciando la preda e sudice impronte. Sedé in altissima rupe Celeno soltanto, e a noi infausta mandò sue parole profetiche: e Avete abbattuto, ucciso i nostri giovenchi, e adesso volete portarci perfino la guerra. figli di Laomedonte? Scacciare dal regno paterno le Arpie innocenti? Ascoltatemi bene, e restino incisi nell'animo vostro i miei detti veraci, le cose che il Padre supremo a Febo predisse. e Febo a me, quelle che massima Furia a voi riferisco: si volge ai lidi d'Italia vostro cammino, e andrete in Italia, sì; in quei porti entrerete. Ma prima di cinger di mura la città destinata, una fame violenta. per la strage tentata su noi. vi aprirà le mascelle a sbranare le mense>. Questo ci disse. e volò scomparendo nel bosco. Eru.io Cetrangolo In un quadro di Nino Caffe Spavento agghiaccia le vene ai compagni. e il coraggio mancò: depongono !"armi. ìtr.plorano con sacri riti. con voti la pace. siano pur quelle o Dee o Furie d'Averno o volucri osceni de-I mare. Anchise, stendendo davanti al mare le mani. implora dai grandi Numi l'aiuto, indlce l'offerta dei riti dovuti: e Vogliate impe:iire, o Celesti. l'avvento di queste minacce. tenere lo;itana da noi questa sciagura, e miti chi vi adora salvare>. Egli ordina poi di troncare le funi dal lido. di scioglier le gòmene tese: e sùbito il vento gonfia le \'ele. E fuggimmo per l'onde spumose là dove il vento e il pilota ci portano. Appare Zacinto selvosa tra i flutti e Dulichio e Samo e 4 ·erito ardua di rocce; schh;amo le arcigne punte di Itaca. tl regno esecrando di Laerte, la patria di Ulisse feroce. Ma ecco le cime del monte di Leucade coperte di nuvole, ecco allo sguardo il tempio di Apollo là su la rupe temuta. E qui ci volgiamo. stanchi. a sostare. All'esigua città ci accostiamo. gettiamo da prora l'ancora: stanno sul lido le poppe !"frolte alla terra. J Il viaggio di Enea da Ilio all'Italia\ I LIDI DI AZIO Toccammo infine una terra fuor d'ogni speranz.a salvi; ivi bruciammo su l'are le vittime sacre a onore degno di GiO\"'e, purificati. I giochi troiani affollano i lidi di Azio: nudi, aspersi di olio i lucidi corpi si esercitano alle patrie contese, e a tutti ride una festa, scampati con fuga rischiosa tra !'isole argoliche. Il sole compie frattanto l'intero suo giro, l'inverno sconvolge le onde coi gelidi venti: appendo all'entrata del tempio lo scudo rotondo. bronzeo, che Abante famoso portò nelle mischie, e incido, a ricordo del fatto, queste parole: Enea affisse quest'anna tolta a, Dana.i che vin.sera. Orciino allora ai compagni di mettersi ai remi e salpare; solcano il mare in gara veloce. Indietro lasciammo le rocche sperdute nell'aria, i paesi dei Feaci. sfioriamo le rive d'Epiro. entriamo ne} porto Caonio: e all'alta Butroto approdiamo. ANDROMACA Apprendo qui la notizia di un fatto incredibile: un figlio di Priamo, Eleno indovino, regna su terre greche, e possiede la moglie e lo scettro di Pirro Eacide; Andromaca è sposa di nuovo a un troiano. Stupisco, e un gran desiderio mi brucia nel petto di parlare a quell'uomo, d'intendere eventi sì strani. Lascio le navi, la spiaggia, e m'inoltro dal parto. Nell'ombra di un bosco Andromaca offriva quel giorno con rito solenne, vicino alle sponde di un finto Simoenta, i doni funerei al cenere d'Ettore: e triste chiamava i suoi Mani dal vuoto sepolcro elevato fra verdi cespugli insieme a due are che al pianto la muovono. Appena s'accorge di me che venivo ed armi troiane si vede d'alterno, come davantr a un prodigio uscita di mente, fredda si fece nel corpo e, vit.reo lo sguardo, così scolorita vacilla al suolo cadendo. Finché, lungo tempo trascorso, a stento riesce a parlare: e Il vero tuo aspetto mi porgi? Sei tu presente davvero a me? Sei vivo tu, progenie divina? O se più non brilla per te questa luce, allora dov'è Ettore?> E pianse, e riempì la campagna di grida. Da un sì acuto e furioso dolore r.imasi turbato; mi venne appena la voce per qualche parola: e Io vivo, si, vivo: affannato da rischi mortali. Non dibutare, il vero tu vedi. Oh, ma te quale caso, strappata a si grande marito, risollevò? Ma te quale sorte, pur degna di Andromaca, donna di Ettore, ha visitato? Sei ancor moglie di Pirro?> Il volto chinò verso terra e parlò con fievole voce: e Oh solo beata la vergine, la figlia di Priamo. che uccisero là su la tomba nemica. sotto le mura alte di Troia! L'onta lei non pati del sorteggio, né schiava, obbediente, sui letti sali del padrone vincitore. Ma fo, poi che la patria fu arsa. io condotta oltremare, soggiacqui all'impeto fiero del figlio d'Achille, a un parto servile costretta. E quello si accese di Ermione, stirpe di Leda, e a nozze Ermione condusse, a spartano imeneo; e volle unita me come schiava a Elena suo schiavo. Ma Oreste rovente d'amore per la sposa rapitagli, a nuovi delitti in preda alle Furie travolto, lo afferra improvviso. lo sgozza su l'ara patema. Così spento Neottòlemo, fu dovuta parte del regno ad Eleno, che disse Caonie le terre d'intorno e l'intera Caonia dal nome troiano Caone; poi diede alla rocca sul monte il nome dì Pergamo. Ma te quale fato ha spinto fin qui, quale vento? Un dio verso noi fu la guida, a te inconsapevole? E il piccolo Ascanio, che fa?' E' vivo? Cresciuto? Lui che a te un giorno in Troia ... Come sostiene il dolore della madre perduta? Come al coraggio, all"antico valore lo alle\·ano l'esempio paterno di Enea, l'esempio di Ettore? ~ Mentre questo diceva con lunghi, va!U lamenti. viene a noi dalle mura, seguito da molti, l'eroe Elèno Priamìde: i suoi riconosce, lieto alle soglie ci scorta, ad ogni parola gli cade una lacrima. Cammino, e vedo rinata una piccola Troia, una rocca in figura di Pergamo grande, un arido rivo che appellano Xanto. Entrando abbraccio la porta Scea: i Troiani godono meco nell'amica città. Il re li accoglieva ospitale nei portici vasti; a Bacco nel mezzo delfatrio libavmo coppe di '";ne e offrivano al dio le vivande in patere d'oro. IL VATICINIO DI ELENO Quel giorno ed altri passarono, e un placido vento spirava invito alle vele: tento. interrogo il vate: e Troiano che interpreti i segni divini. che senti la voce di Febo e il tripode e j.l fremere sacro dei lauri, che intendi le vie delle stelle. i canti e i voli velocj dei vòlucri; parla. Un corso felice promise l'oracolo. m'idussero tutti gli Dei a migrare in Italia, a scegliere terre lontane: soltanto Celeno. l'Atpia. nefanda mi annunzia strani partenti, un"ira celeste. una orribile fame. Prima i pericoli svelami tu da sfuggire, e come tanti travagli potrei superare.> Eleno sacrifica allora i giovenchi di rito, invoca la pace divina. si toglie le bende dal capo augusto, e al tempio tuo mi conduce sospeso. o Febo, lui stesso per mano, e già pieno di te. Cosi dalla bocca divina suonò il canto del vate: e Che l'alto mare tu navighi spinto, figlio di Venere, da un volere supremo, è cosa per sé manifesta: dispone i fati cosi il re dei Celesti, e volge perpetuo l'orciine umano in vicende mutevoli. Delle molte cose future poche io dunque dirò, perché più sicuro tu scorra sui mari stranieri e possa approdare sui lidi d'Ausonia: le Parche mi vietano apprendere il resto, né del futuro quello ch'io so m1 fa dire Giunone Saturnia. L'Italia. o ignaro, che pensi vicina, e ti appresti a invaderne i porti, un lungo duro cammino separa da te. I remi saranno piegati dal mar di Trinacria fendere l'onda tirrena dovrai con le navi, ' vedere il lago d'Averno e l'isola bruna di Circe prima che in terra sicura tu ponga le basi di una città. I segni ti dico da imprimersi in mente. Quando incerto vedrai presso l'onda di un fiume solitario giacere grande una scrofa all'ombra di un leccio di trenta feti sgravatasi, bianca, e posare? • al suolo, e bianchi intorno alle mamme i porcelli, i campi tuoi saran quelli, termine quello al tuo a!fann04 I morsi futuri alle mense non temerai, ché i fati per te. con l'aiuto di Febo, apriranno la via. Le rive e terre d'Italia, queste che il mare bagna qui avanti, vicine, fùggile: son tutte in mani nemiche, abitate dai Greci malvagi. Qui alzaron le mura i Locri di Nàrice, i campi del Salento occupò ldomeneo con anni cretesi qui Petelia fondò su la rupe l'eroe Filottete. ' Quando giun~e di là dalle acque solcate, saranno ferme le nav1, e tu, alzate le are sui lidi, scioglierai con fervore i tuoi voti, vela i capelli di panno purpureo, perché non acceda tra i fuochi sacri a onore dei Numi una faccia nemica a turbare i presagi. E tale costume i compagni mantengano sempre e mantieni tu stesso e sia c;i,uesta dei casti nipoti la reliilone.'

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