la Fiera Letteraria - XI - n. 26 - 24 giugno 1956

Domenica 2-f gìugno 19-6 T~ E T T E R '.~R T 'N. 6ALLERIA DEGLI SCRITTORI ITALIANI CHE COSA FA NO GLI SCRITTORI ITALIA I *' SALVIA)IO LA SINCERITA' dice JL\.UIO SCIIE1.'TINI Mario Schettini Il nuovo romanzo. che ora pubblica Jll!ondadori, è di ambiente 111Uanese. S'in– titola I ragazzi di Milano. E' vero. sono meridionale. E in parte ho vissuto a Na– poli. Ma una città come Milano, così pro– fondamente nazionale e attuale 11elle sue virtù e nelle sue mancanze, credo che in– teressi ogni romanziere. Ci siamo tutti a Milano, siciliani e calabresi. pugliesi e veneziani, co.n le nostre ambizioni e le nostre necessità. Ma tutti ci ritroviamo come in un momento decisivo determi– nante, per noi e per gli altri: ci ritrovimno nel nostro tempo, di cui Milano esprime il carattere più genuino. ma come noi lo abJiamo voluto e capito. I personaggi del mio romanzo sono milanesi, appartengano alla società i11dustriale. Tuttavia. il ro– manzo 11011 ha ambizioni dialettali: Mi– lano vi conserva tutti i suoi caratteri. se cosi posso dire. ma come essi sono venuri forma11dosi e defi111mdos! 11ella sua ~e– cente stoTia: l'avventura industriale la guerra. il dopoguerra, cioè in una vic~nda 110n solo milanese. ma italia11a. E del re– sto, non credo si possa scrivere oggi un romanzo milanese. in quei termini di lin– guaggio e di ambiente. originali. caratte– ristici, che invece possono vivere così be-ne in un TOman:o napoletano o romano o siciliano. J\,lilano è una città sempre meno antica, Per così dire. permanente. co11 il volto del passato, ormai defi11ito, come ogni altra citrà italiana. ma ogni giorno essa acquista un nuovo aspetto, sfugge11do al suo passato: la sua origina– lità è in questa fisio1101nia ancora provvi– soria, incomposta. come alla ricerca di definirsi socialmente e moralmente. La vicenda del mio libro, segue un po' da vicino, quella di certa societd industriale milanese, negli ultimi an11i: dal 40 al 50, anni avventurosi. 1 miei personaggi sono ragazzi. ma le loro avventure, le loro esperienze, si svol{10no all 1 01nbra dei pio- 11ieri dell'industria milanese che senza mezzi e con forti ambizio~i. creano la grande Milano. Sono figure interessanti, inedite, da un certo punto di vista: man– cano di una defini:ione. ... IL romanzo comprende due volumi. 1na ciascuno con un racconto. uno sviluppo a se stante. Il volume che seguirà I ragazzi di Milano. è quasi già scritto. Ma ci vorrà del tempo. prima di metterlo fuori. Pe11so anzi, di pubblicare qualche altra cosa. dopo I ragazzi di Milano. Un episodio del secondo volume, è stato già pubblicato da Nuovi Argomenti l'an110 scori:o. Tutta la vicenda si sviluppa e si conclude a Napoli, nel dopoguerra. U11a Napoli. appunto del dopoguerra. E se le cose sono andate bene. i due volumi dovrebbero formare un rac– conto del nostro tempo: com'esso è stato vissuto da una certa soci.etd itaHana. e da ttna generazione di 1nezzo, oggi tra i tren– ta e i quarant'anni. ••• Il mio Primo romanzo, TI Paese dei Ba– stardi, è di ambiente calabrese. E' una Calabria occasionale, da un certo punto di vista. 11ei fatti esterni: cioè sotto la spinta dell'immediato dopoguerra. con tut– ti i suoi ent1,siasmi e le stte lotte. Ma tutto il succo del romanzo, ciò che più mi premeva di dare. · 11elle lotte elettorali e sociali c.he raccontavo. era una Calabria permanente. che per me era quasi un ri– cordo di famiglia: mia patria di origi11e, essa era Timasta come nei momenti più. sinceri, nella parlata più genuina di casa. Il romanzo lo scrissi in Calabria, tra Co– senza e Reggio, me11tre si svolgeva sotto i miei occhi l'accesa campagna de! refe– rendum. E 11ella passionalitd della lotta, che agitava paesi interi, mi tornavano alla memoria, starei per dire nelle orec– chie, le voci di casa, le voci quotidiane, quelle che si ascoltano tra la cuci11a e la sala da pranzo. Era il richiamo ad una realtà più vera, oltre ogni suggestione. Così i miei personaggi. non sono mai riu– sciti degli eroi fi110 in fo11do: a11che quan– do se lo meritava110. poiché nel gesto mi– gliore. u11a parte della loro 11atura. del loro più genuino carattere, riusciva sem– pre a smentirli. Ma anche 11el 11uovo ro- 1nanzo, la mia preoccupazione principale è stata quella di salvare la sincerità del personaggio, la sua i11dividuale verità, buona o cattiva che sia. da tutte le av- venture. MARIO SCHETrINI 1\ARRATORI. DELLA " FI.ER l LETTEl11IRI.A,, * RAGAZZI DI MILAN Tornata dalla villeggiatura, Eva era stata con Paolo dal nonno, Lodovico Ge– novesi. Il famoso industriale non si muo– veva da Milano che dopo ferragosto. Ma dovettero andare di domenica per trovar– lo in casa: era sempre in giro, continua– va a lavorare fr~neticamente, nonostante l'età. Tanto che il vecchio Genovesi pas– sava la domenica 11 più delle volte ripo– sato in una poltrona, leggicchiando. « Ma come!... E' a Milano ... Non s'è an– cora mosso! • gli gridò Eva ailegramente. Era il rimprovero che gli faceva ogni e– state, con quel sorriso illuminato che il Genovesi guardava sempre un poco in– fastidito. Li ricevette neilo studio, dopo averli salutati sedette subito nella solita poltrona, aspettando, muto e svagato. Eva coninuav a ad essere allegra. Le mani de, vecoh.io le sembravano ad un tratto tro•,– po lunghe e secche. E le unghie sporge– vano ingiallite, non erano curate. « E' stato male?• gli chiese: « Un poco influenzato> rispose il Genovesi, chinan– dosi da un Iato. e Ma ora .non ho più nul– la •· e Forse disturbiamo in questo mo– mento• disse Paolo. Il Genovesi restò ml)– to, oome non avesse ,proprio sentito. « Non siete venuti a farmi visita?> esclamò poi, quasi risentito. • Volète fare della musi– ca? ... Li c'è il radiogrammofono. Perchè non ve ne servite•· Eva rispose tutta tran– quilla ohe più tardi avrebbero suonato qualche disco: • A noi due piace la musi– ca• aggiunse. Era contenta di trovarsi col vecchio: si sentiva viva e spigliata. Avrebbe fatto subito della mu ica. Tutte le volte che veniva in casa del Genovesi si esaltava. « Tuo padre è sempre pazzo? • domandò il vecchio, sorridendo. « E' il solito > ri– spose Eva. Paolo si sentiva impacciato, nerv-oso. Eva lo guardava ogni tanto con la punta di un occhio, sorridendo ironica– mente. « Ma siete fidanzati?• chiese il vecchio, con tono divertito. Adesso era del tutto ser&no. « Siamo amici> rispose Eva. Passarono un pomeriggio intero in casa del Genovesi. Tanto che li portò poi a ce– na con lui in una trattoria all'aperto. Pao– lo continuò ad essere imbronciato. Eva per tutto 11 tempo che restarono col vecchio, non parlò che della famiglia, con una pre– concetta ostiliià. Era contenta di elencare i difeUi, l'inettitudine dei padre. li Geno– vesi interrompeva spesso aggiungendo del proprio. e Si rovina e non se rie accorge:. diceva con calore, le pieghe del volto ar– rossate. e Ma una volta non era cosi. L'ho conosciuto ragazzo e mi sembrava intelli- di illARIO gente. I !asc1stf lo hanno rovinato ... Suo genero, mi dicono quei mascalzoni, è un poeta. un vero artista del cemento arma– to. Intanto gli tolgono 1 danari dal porta– foglio, e lo fanno lavorare a vuoto!... E anche tua madre è pazza!• concludeva il Genovesi. Eva approvava. impaziente di riprendere la polemica contro il padre. Si sentiva liberata come da una grossa in– giustizia. « Ma almeno tua madre aprisse gli occhi • continuava il Genovesi con ac– canimento. Eva ammirava profondamente il Geno– vesi, ne aveva sentito l'influenza fin da bambina. E non apprezzava il padre. I! Genovesi era stato il grande nome della sua infanzia: il potente, famoso industria– le che sembrava dare paternità a tutte le persone e le cose che erano in rapporto con lui, aveva forse &Vegliato primo del tempo giusto una !orte ambizione nel suo animo, un acceso orgoglio, tanto che si ve– deva già nella ricca veste dell'ereditiera, che per lei conservava tutta l'autorità, la popolarità del nonno. Non sapeva L-1 che modo sarebbe stata come il Genovesi. Ma la sua aspirazione era ancora inconsulta le accendeva la fantasia rendendola re– frattaria ad ogni pensiero concreto. Anche lei passava per una Genovesi. Il potente nome se lo sentiva addosso come un fermaglio di valore, un che di lucc1- cante e di personale. L'immenso patrimo– nio del Genovesi, ohe presto o tardi lei avrebbe avuto, si presentava alla sua men– te come un tesoro di favola. L'attesa per la grande eredità era stata continua per parecchi mesi. Certo non augurando la morte al vecchio. Era un'attesa tranquilla, serena: non aveva importanza se l'eredità sarebbe venuta anche tra molti anni: l'a– spettava sempre come qualcosa ohe potes e avvenire dalla sera alla mattina. Ma al– lqptanandosi nel tempo ella non perdeva la fiducia. Eva viveva abbastanza bene nella !ami– i,lia. La ricchezza già c'era, sentiva con gioia il sen o di pienezza, la pigra e dura– tura forza ohe la ricchezza le aveva dato fin dall'infanzia. Ma era una ricchezza sen– za autorità. In realtà Eva non aveva mol– ti desideri. Era sobria anche nel vestire. Ma l'eredità del Genovesi aveva un incan– to particolare. Era convinta ohe ereditando il grande patrimonio, tutta la sua vita sa– rebbe mutata di colpo. Come al segno di una bacchetta magica. Insieme al patrimo– nio del vecchio Genovesi pareva ereditas– se anche la sua potenza. Pensava a quello che avrebbe potuto fare Genovesi se fos- SCHE'.fTINI se stato giovane: alla fantastica vita che avrebbe .fatto lei al suo posto. Esce un so– gno già vero. Altro ohe i passionali pro– getti del padre! Era incantata dalla popo– larità di Lodovico Genovesi in tutta l'Ita– lia: notava come un'intima sicurezza il grande nome sui giornali, segnato a tutte lettere lungo le strade. Avrebbe cambiato il mondo lei con qu<?l nome. L'attesa per la grande eredità era an– data poi spegnendosi con gli anni, con le amicizie, con il collegio. Era sicura che qualche cosa di grande e di bello sarebbe avvenuto per lei. Ma non ci pensava più come prima. Anche perchè quando era ragazza, per una serie di circostanze, spes– so si trovava sola a passare lunghe ore di ozio fantasticando con se stessa. Ma era rimasto un ricordo felice l'immagine della sua soliturune di bambina: sembrava un punto !ermo della sua vita. qualcosa che avesse raggiunto con uno sforzo. Erano passati degli anni da quel tempo; eppure lo ritrovava sempre intatto, bello e sor– prendente come il tempo di un viaggio. Pareva che avesse visto iniatti molte più cose allora che negli anni che erano ve– nuti, con le amicizie, il collegio e 1 veri viaggi che aveva fatto. Si rifaceva a quel tempo quando si sentiva sfiduciata, ritro– vando subito una forte tranquillità: ritor– nava contento, sicura che i pross1m1 an– ni le ri rvavano delle sorprese. In col– legio provava improvvisi sconforti, un sen– so di paura istintivo, praticamente assur– do. Erano intervenute esperienze dolorose. La sua vita era cambiata senza ohe se ne fosse accorta, tutto ad un tratto, lascian– do indietro pensieri inconclusi, e ohe già non le appartenevano. E si domandava spesso ohe cosa si aspettasse con la gran– de eredità. Erano aspirazioni ad una vita diversa da quella che a~va davanti. era– no anche astrazioni quelle calde fantasie che le correvano per la mente? Era dav– vero sicura di poter trasformare la sua vita ereditando il patrimonio di Lodovico Genovesi? Il padre non avrebbe potuto capire ciò che lei andava fantasticando, con quello orgoglio profondo, ohe, certo, non le pro– veniva da lui. Ma Eva lo sfuggiva, come si sentis e colpevole. Ella non lo ammira– va, non lo temeva. Aveva una faccia piut– tosto ingenua l'arch.itetto Vitale: lunga e puerile, i capelli biondi e ricci, le orec– chie lunghe. Gli occhi erano così limpidi e azzurri che smentivano i suoi frequenti scatti di rabbia: quando diventava più rosso del solito e cercava di parlare seve- ramente. Nessuno aveva la sua tenacia e la sua passione nel lavoro. • Quando si mette In una impresa, è capace di sfon– dare le pietre per riuscire bene! • diceva– no i colleghi e lo ammiravano sinceramen– te. Ma la sua passione irritava. Era forse troppo scoperta: quasi era anche recitata. Vitale parlava continuamente dei suoi pro– getti, li spiegava a tutti, se li lodava. Era fortunato, aveva successo. Ma pochi si fi– davano di lw. Non l'amavano a Milano. Si interessava molto degli edifici pubblici che costruivano a quel tempo alti e massicci come monumenti: erano il suo orgoglio. Aveva Idee con!use sull'urbanistica, per sua stessa ammissione, ma non ragionava d'altro tutto il giorno con i colleghi: ''Cer– co... apprendo" diceva dilatando gli occhi azzurri sotto le folte sopracciglia. Nè si accorgeva di parlare a vuoto, molte volte. Come quando progettava di trasformare la periferia milanese in una cintura di città– giardino. « E le fabbriche dove le metti' • gli gridavano i colleghi. Tuttavia un pro– getto per una città-giardino da costruire all'estrema periferia milanese, tra Piaz– zale Loreto e Sesto S. Giovanni, gli era stato accettato con molte lodi dal Comune, i giornali ne avevano parlato riproducendo i disegni del progetto: • Oredete che se ne farà qualcosa?• dicevano alle sue s;:.'alle. Neanche i familiari avevano troppa fidu– cia. « E' un progetto bello, rivoluzionario ... ma te lo faranno realizzare? •· La moglie, Caterina Genovesi, ne parlava con entu– siasmo, ma temeva le invidie dei colleghi: la città giardino. Gioagio non l'avrebbe fatta. Era inutile illudersi. Giorgio ribat– teva che la sua città sarebbe stata costrui– ta, perchè il progetto era giunto ormai a Roma e il Ministero non poteva più tirarsi indietro. • E' quello che dico » risponde,·a Caterina. e Tieni però gli occhi aperti •· Un altro sogno di Giorgio era di costruire a Milano grattacieli come quelli di New York. e Autentici grattacieli, alti centinaia di metri• diceva, spiegando anche in che modo dovevano essere fatti. « Tu devi decidere• gli gridava II vec– chio Lodovico Genovesi. « O lavori solo per te e per la gloria, allora fai qualcosa di serio. O lavori per il guadagno, senza pen- 6are ad altro. Cosi come fai, sprechi ener– gie, getti denaro>. Eva 6pesso aveva ac– compagnato i genitorj dal nonno, assisten– do compiacente a quelle sue paternali. Un tempo ogni giovedì c'era la visita ai Geno- MARJO CBE'ITIXI (Contrn.ua a. pogh,a. 8) Ne IL TESTIMONE, il suo se– condo Tomanzo di cui i imminente la comparsa, Mario Pomilio si è mantenuto sostanzialmente fedele, pure nella diversità d'impianto e di metodi, alla tematica de L'UC– CELLO NELLA CUPOLA. Dram– ma delle responsabilità d'un sa– cerdote, L'UCCELLO NELLA CU– POLA, dramma di quelle di un commissario posto a un tratto di fronte ai risultati del proprio ope– rato, IL TESTIMONE; e se in questo secondo libro appare atte– nuata l'urgenza problematica del primo, il discorso vi si fa forse ptù. cordiale mentre senza dubbio ne guadagna il respiro narrativo. IL TEST IRONE tlal ,iuovo 1·011ia1i;o ,li ]IARI.O PO Ili.LI.O IL TESTIMONE s'ispira a un fatto di cronaca e si svolge a Pa• rigi. Afa non è sui motivi ambien. tali che Pomilio preferisce pun.. tare, quanto su.Ua carica umana dei suoi personaggi; e it suo pessi• mismo, che net primo libro aveva cercato uno sbocco cristiano net secondo diventa più esclusi ~o e più. scopertamente rivela la sua natura esistenziale. E' quasi mezzanotte e Rue Rouelle è da un pezzo immersa in un silenzio sotteso in cui anche i richiami dei clack5ons ac– quistano un che di canoro. Il fruscio del– le carte che Il vento sospinge conti o J mu– ri fa pensare a un vibrare di canne lun– go l'alveo secco d'un fiume; e fors'anche per l'alternarsi di luci e ombre prodotto dalle lampade la strada sembra flettersi in una concavità di parabola per entro la quale le distanze si fanno ;;,calcolabili. Si può esser tristi, a quest'ora: ma so– prattutto si è colti da un se:1so penoso di isolamento che Ci rende angustiosamente estranei a tutto ciò che non ci appartiene E vien .fatto talora di pensare che si po– trebbe anche morire senza clie un nostro rantolo possa indurre a riscuotersi chi veglia a pochi passi da noi o che la no– stra assenza venga appena notata da chi pure ogni mattina ci ha osservati dalla finestra di .fronte, dalla donna che un giorno cl ha sorriso o dal vecchio che ha seguito mille volte i nostri gesti. E Mr. Jacques dalle undici ha contin– c:ato a morire. La porta del Cafè de la Paix è spalancata, nessuno sè curato di spegnere la radio. un filo di suoni ne trapela senza propagarsi, ma il bancone è vuoto e lo specchio, anch'esso vuoto, privo com'è della sua fila di bottiglie, non ripete che una logora nudità di pa– ret1. Mr Jacques è stato bene tutto il giorno Stamani ha voluto alzarsi ed è sceso ad ai•1tare la moglie, ma soprattutto a rac– contare ai clienti gli avvenimenti della notte. Venti, trenta volta, nel suo argot fitto e chiuso, ha narrato la sua avven– tura, ha descritto le mosse del lad ro, ha imprecato contro Jeanne. Ogni vo:ta M.me Louise è stata chiamata a testimone: « Dillo tu, almeno, dillo come la tene– vamo! >. E rivolto all'avventore: e: Aveva un figlio, figuratevi, a pochi passi da qui. all'Hotel de la , uit: e ogni ora, andare e ven,re, andare e venire ... E immagina– tevi nel caifè, che disordine. Eppure la tenevamo: per pietà, vi giuro, solo per pietà. E ,·edete adesso, vedete che risul– tato? •. Si toccava con la mano la som– mità della testa e il suo viso, già rosso. si faceva di porpora. Col capo cosi fa– sciato appariva ancor più massiccio. Lo sbilanciava di tanto in tanto, per meglio farsi osservare, se appena un cliente mo– strava un po' di curiosità. Mr. Jacques ha anche bevuto molto. Più d'un avventore ha voluto brindare con lui alla sua salute: un Martin!, un Dubonnet, un altro Martini. Più d'una volta la moglie ha inutilmente tentato di r:chiamarlo: • Smettila adesso, Jacques: non vedi che ti fa male? •. e Zitta tu... Mi !a male, mi fa male ... Ma non hai niente da fare, in cucina?>. Ma poi verso le undici di botto Mr. Jac– ques è crollato. E' stato solo un tonfo e uno scroscio di vetri: s'era voltato per tirar fuori una bottiglia dalla scansia, quando ha perduto l'equilibrio. Mentre tentava d'aggrapparvisi, se l'è trascinata dietro nella caduta; e lo specchio nudo, fumoso, spoglio di forme e d'oggetti, fa ora pensare a un grande occhio senza palpebre. Ci son voluti quattro uomini per tra– sportare il vecchio al primo piano. Dal forno è dovuto correre anche Mr. Riquet col suo gar~one. E Mr. Jacques è stato teso al centro dei uo letto colle gambe rigide, il petto ansante, una guancia stranamente infarinata. A entrare nella stanza e a veder i di fronte le sue scarpe ciondoloni e più in là, in piena luce, il uo viso molle, col turbante intorno ai capo che nasconde i capelli e quel velo di farina che fa meglio spiccare il cupo ros– sore dell'altra guancia, si ha l'impressione d'esser di fronte a un fantoccio. E' quanto ha provato il medico entran– do. E' lo stesso di ieri sera e gli è bastato uno sguardo per rendersi conto che l'uo– mo sta morendo. Di minuto in minuto lo spasimo del diaframma si fa più convul– so e il respiro a lunghi intervalli se ne la– scia risucchiare denso e schiumoso prima d'ingolfarsi rantolando nella trachea. Dopo averlo osservato in silenzio, il me– dico gli affonda per qualche attimo una mano nei ventre, proprio sotto le costole; scruta poi in vi o gli astanti, incontra lo sguardo di Mme Louise in piedi accanto al letto. e. quasi si sentisse a disagio in mezzo a tutto quel silenzio, prova a do– mandare: e Ma perchè oggi non l'avete fatto stare a riposo? •· Sa che è una domanda inutile e subito aggiunge: e Beh. adesso bisogna attendere: aiutatemi a sollevarlo•· E vol– gendosi a Mme Louise: • Non avete del ghiaccio? Ce ne vuo'Ie molto, sulla fronte•. Così sollevato, col cuscino sotto la nuca, il volto di Mr. Jacques sembra avere ac– centuato la sua rigidità. Solo la bocca continuava ancora a vivere, a vibrare a ogni respiro. a contrarsi ogni volta che la pezzuola sulla fronte ,iene cambiata o che Mme Louise la sfiora con le dita qua– si ad assicurarsi che nel fiato ci sia an– cora dei calore. La donna non sembra essersi re a con– to che il marito è in uno stato d'incoscien– za. « Jacques! •: di tanto in tanto ne pro– nunzia il nome senza imprimere alla vo– ce alcuna intonazione particolare: si di– rebbe che sia troppo avvezza a chiamarlo a quei modo per provare solo adesso il bisogno d'alterarla. Quindi, come se fo se ce, ta che !'altro l'ha udita e che semplice– mente non si preoccupa di risponderle, si rannicchia nella sua sedia e aspetta pa– ziente che sia giunto il momento di clua– marlo di nuovo senza rischiar d'in-itarlo: perchè anche nel modo di soffrire e di ve– der soffrire portiamo il peso d'inclinazioni lontane, e soprattutto di quelle abitudini tutte particolari alle effusioni e al rite– gno che abbiamo contratto senza saperlo in circostanze assai diverse. nei momenti di. !enerezza. magari o nelle ore d'inti– m:ta. A uno a uno frattanto tutti gli altri, in pllnta di piedi. hanno lasciato la stanza. Anche il medico è uscito, preso dalla vo– gl.a di fumare e basso com'è e corpulen– h', ha sceso le due rampe di scale con cautela infinita. Giù nella sala ha trovato ad attenderlo Mr Riquet: e Ebbene, dottore? Non c·è prnprio nulla da fare? •· I! medico ha scosso il capo e fatto una smorfia. • Ma di che siamo fatti. dottore? Era qui mezz'ora fa. D1 che siamo fatti? •. Il medico non si cura di rispondere. • ,\ vele dei fuoco? •. chiede semp!lce– mente. Il fornaio gli accende la sigaretta e poi dc,manda: e E può durare? •. « Un'ora, due ore: chi sa? Spesso an– che molto di più•. • Tanto? •. Mr. Rlquet sembra incerto. • Allora faccio forse in tempo a sistemare il mio pane. Non volevo lasciarlo, vi giu– ro. ma voi capite ... •· Giunto sulla soglia, s~ \"Olge: « l\1a datemi una \"0Ce. se serve: sono qui di fronte•· Rimasto solo, il medico s'è guardato in– t.::,rno e, accostatosi alla radio, ha cercato d: cambiare stazione. Poi, forse urtato dal suo raschio, ha riportato l'indicatore al punto di prima e s'è messo a passeggia– n per la stanza: ogni tanto s'affaccia alla porta. ogni tanto incontra il proprio volto riflesso nello specchio e s'acciglia in un'e– spressione d'insofierenza o di noia; op– pure si fa più accosto al banco, osserva la propria immagine. si tocca con le dita le venature sanguigne delle gote e le borse sotto gli occhi. Di che siamo fatti?: che stia pensando alla domanda del for– naio? Dopo qualche tempo è risalito al pri– mo piano. Più tardi la radio, quasi si sen– tis e, abbandonata a se stessa, ha smesso da sè di suonare, ed è ormai possibile percepire lo scrichiolio dei passi nella stanza di sopra e quasi fuori il rumore del vento che coniinua a screpolarsi sul– la latta dell'insegna, tra le carte, sui vetri. Frattanto, ola nella sua cella, Jeanne era caduta finalmente addormentata. Ma il suo petto vibrava ancora degli stessi us ulti. degli stessi istantanei trasalimen– ti che l'avevano scosso per tante ore. Era certa che bastava un moto del capo per– chè l'impressione che il letto fosse stato spostato le si dissipasse. uno sforzo del braccio per a sicurarsi che il figlio le dor– miva accanto. Ma ne era trattenuta da u– na greve sensaz,one d'impossibilità: un cercare invano un raccordo tra i muscoli del braccio e quelli della spalla, un tra- scorrere d'ondate che la rovesciasse al– J'indietTO tutte le volte che voleva solle– varsi. Era sicura che l'uscio era chiuso dall'interno e che le chiavi erano accanto a lei sul comodino, ma s'affannava ugual– mente a domandarsi dove fossero e udiva intanto che qualcuno era dietro la porta e si riiiutava d'entrare, che era entrato finalmente e la porta veniva richiusa, e c'era adesso una presenza, dei passi, un respiro nella stanza. Ma il cervello le ri– peteva che non era possibile, che non era possibile, che doveva essere successo chi s.: quando: frugò affannosamente in fon– do alla memoria, a uno a uno cercò di sol– Ie,·arne gli strati, man mano rotolò di nuovo nel sonno. Cominciò a risvegliarsi con l'impressio– ne che qualcosa di caldo, una mano forse, ma più molle d'una lingua, le si stesse in– smuando tra le vesti. Ne seguiva impo– tente i movimenti mentre la mano le lam– biva le gambe, risaliva fino al ventre, la frugava dolcemente. Ne provava una sor– ta di smania, un piacere angustioso. Ten– tò di rifiutarvisi, di resistere, alla fine si destò con un gemito. Il suo primo ic,tmto fu di rassettarsi le vesti. Lo fece con gli occhi chiusi. Si sentiva la testa pesante, la nuca indolen– zita, avrebbe voluto riaddormentarsi, ma un senso d'oppressione, come d'un corpo chino su di lei, o d'un fiato misto al suo, la costrinse a restar sveglia. Mugolando apri gli occhi, scorse un vi– so. due gote flaccide. due labbra tinte con ,·iolenza, due occhi bistrati che la scru– tavano. Guardò imbambolata: c06i, a po– ca distanza dal suo, quel viso era enorme. Le parve d'averlo già visto altre volte: ma dove? Si sforzò d1 ricordare, le sembrò quasi d'esservi riuscita, ma fu a un trat– to sorpresa da un'affiuenza rabbiosa di fitte nel petto. Gemendo si strinse le ma– ni sul seno e dovette richiudere gli occhi. « Lasciatemi stare > 1 mormorò fiacca– mente, • lasciatemi stare •. Sentiva una mano sfiorarle la fronte, e la fronte le restava avvolta in un velo di nebbia; udiva una voce che le chiedeva cosa aves– se, ma non riusciva ad afferrare il signi– ficato di quella domanda. el riaprire gli occhi rivide il viso di pr;ma, avvertì di nuovo la nausea di quel fiato. Piegata verso di lei, la donna la osservava: « Ma tu hai la febbre! », escla– mò toccandole le tempie. Jeanne si limitò ad annuire: continua– va a domandarsi dove mai l'avesse già vista, come se questo solo fatto, averla già conosciuta prima, dovesse bastare a rassicurarla. 1 otò che la mano dell'altra le stava sfiorando la gola. - Ma perchè ,·uo! toccarmi? -, si chiese, e cercò di sottrarsi a quel contatto stringendosi più forte Je mani contro il petto. e: No, no>, mormorò. e: Ho sete, vi giuro. solo un po' di sete •. La donna accennò di si e si ritrasse e lo sguardo di Jeanne la seguì come ail'e– strl'mo limite d'una nebbia. La scorse al centro della tanza. il collo tozzo, il tor– so pesante, un blusa di raso verde, la vide tornare con in mano un bicchiere. E come accade nei sogni, dove un nulla dà senso a un'idea, al suo modo di tenerlo sollevato fu finalmente sicura d'averla già vista: chi sa dove, ma l'aveva vista. S'aggrappò a questa certezza, si senti più tranquilla e lasciò che la donna le so– stenesse la nuca e le avvicinasse alle lab– bra il bicchiere. Bevendo la fissava: e: Ma io vi conosco! >, esclamò alla fine. • Ah sì? Può darsi. E chi non mi co– nosce? •. Ridendo si scostò per andare a posare il bicchiere. • Anche qui mi co– n05cono: vuol vedere? •. S'acc06tò alla porta cominciando a picchiare. Lo spioncino fu aperto: s'udi una voce ruvida: e: Che c'è? •. • Oh, Jà là! Avete una sigaretta? •. Lo sportello .fu richiuso e la donna si volse delusa: • Dev'essere nuovo•· Len– ta, goffa si riaccostava, e qualcosa dava a Jeanne l'impressione di vederla muo– versi attraverso un fiwdo. • Adesso stai meglio, eh? •· La donna le toccò di nuovo la fronte e Jeanne serrò gli occhi riflettendo questa volta intensamente: uno, due tre secon– di, il tempo di recuperare ~ ritroso la coscienza del proprio stato. Finalmente vi riu ci: annaspò con le braccia allon– tanò con la mano la mano dell'alh'a, vol– le balbettare qualcosa ma il suo fu in– vece un lamento che invano tentò d'arti– colare e che si ruppe in un rantolo Pre– se a singhiozzare tutta chiusa in i;e· stes– sa, incurante ormai che la donna cercasse di parlarle e piuttosto in preda a quel desolato bisogno di pietà che Ja presenza d'un altro ci fa provare così forte nei mo– menti d'angoscia. Fu la stessa intensità di quel pianto, al– la fine, a stremarla. Rivide tra le lagrime i tratti dell'altra: controluce, adesso, le apparivano più dolci, quasi segreti. La sentiva respirare a poca distanza ma il disgusto provato prima le si er~ atte– nuato. • Che ora è? •, domandò debolmente. • Le due, .forse le tre. Era già l'una quando m'hanno presa •. Jeanne dové fare uno sforzo enorme per riu cire a calcolare: « Le tre>, ripetè levandosi a sedere, • le tre! Ma non è possibile! Trenta ore! Trenta ore che m'aspetta, e io qui. Non è possibile! •· « Su su, adesso: che c'è, che t'hanno fatto? •· Invece di rispondere, Jeanne sl strinse con ambedue le mani le mammelle e– mettendo un breve gemito. L'altra par– ve intuire: • Lascia vedere! •, comandò imperi06a: e slacciandola rapidamente le mise a nudo il seno. Jeanne non osava guardare, non osava opporre resistenza. Tre, quattro volte en– ti le mani dell'altra intirizzirle le car– ni. • E questo? •, esclamò la donna solle– vando. la palma bianchiccia di latte. Jean– ne la osservò con una sorta di ribrezzo, come se fosse tata piena di sangue: • Avete vi to? Sono trenta ore, trenta .::,reche non l'allatto! L'ho detto, l'ho chie– sto di portarmelo qui! Ma non vogliono, vogliono prima che parli... •· Mario Pomilio Da quel momento per lei fu tutto un ribaltare d'immagini: ,ide la donna cur– varsi, accostarle le labbra a un capezzolo, cominciare a succhiarvi. Avrebbe voluto opporsi, reagire in qualche modo, ma le braccia le restavano inerti. • Basta, adesso, basta >, continuava a ripetere in un residuo di pudore e .forse più di ripu– gnanza. Ma intanto sentiva il suo petto allentarsi e il dolore defluire e lasciarla sfinita. Solo alla fine, quando la donna si fu risollevata, pote ancora guardarsi e rimase a ]ungo stupefatta a .fissare il segno del rosso delle labbra intorno ai suoi capezzoli. • Ebbene, va meglio? ... Vieni, appoggia ti qui•· Mitemente Jeanne lasciò che la donna le si sedesse accanto e l'attirasse a poco a poco contro la pripria spalla. Sensi la mano dell'altra introdurlesi sotto l'ascel– la e s'abbandonò spossata a quel con– tatto. e: Come vi chiamate? >, mormorò. • Che t'importa come mi chiamo! Che funporta! Dimmi tu piuttosto: perchè non vuoi parlare?>. « Ma si tratta di Charles! E se poi lo prendono?•. • Imbecille! Per un uomo! Tutto que– sto per un uomo ... E magari ti sfrutta, è vero? Magari ti manda a battere il mar– ciapiede ... •· Cominciò dolcemente a cullarla, men– tre Jeanne le si rannicchiava sempre più contro il petto. • Anche ,·oi avete un iiglio? •. • Zitta, adesso. Che t'importa? Prova piuttosto a dormire •· E poco dopo: • Una volta sapevo cantare. Dì, vuoi che provi?•. Cominciò a mezza voce. Per qualche istante la nota salì roca, ma poi subito si spezzò. La donna tentò ancora, ma anche stavolta, dopo uno strappo, il can– to ricadde. - Ecco, riflettè Jeanne, ora ricordo. Debbo averla vista una volta al caffè ... Ma quando? -. E s·ostinò invano a inseguire quest'idea mentre man mano si lasciava assopire dal respiro di quel petto e dal braccio che continuava a cullarla. )IARIO POMILIO [Queste P«g111e fa11110parte del roman– :o che uscmi prossimameme pres,;o la Casa Editrice Massimo].

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