La Voce - anno III - n. 3 - 19 gennaio 1911

488 LA VOCE posson fare e disfare nelle cose ddi' ist, u– zione; il che s1rà una prol'a di più J'una Yerità dolorosa: che in lialia le questioni che meno appassionano e preoccupano son precisamente le questioni di cultura, cioè quelle che più fo,temente son legate al mi– glioramento e all'onore della n.1zione. Giovanni Papini. Il rapporto tra morale nella filosofia del e religione Vico.e') li timore interno, il pudore, la coscienza morale è svegliata negli uomini dalla reli– gione: il limore è timore di Dio, il pudore è l'ergogna innanzi a lui. Gli uomini primi– til'i errano per la terra solitari, sell'aggi, fe– roci, sen2a lingue articolate, senza certi con– cubi1i1 in preda alle loro disordinale violen– t1ss1me passioni : piuttosto che uomini « be• stioni n. Chi li frenerà? Da quale parte yerrà il soccorso che loro impedisca di di– struggersi a vicenda? Non possono indiriz– zarli uomini sapienti, che non si sa donde o come s' introdurrebbero in mezzo a loro; oon può salvarli l'intervento di Dio: Dio si è ritirato nel suo popolo eletto e non ha nessun commercio con la restante umanità, con l'umanità genti Iesca. Ma quei « bestioni n son pur uomini: Dio, nell'abbandonarli, ha lasciato nel fondo del loro cuore una favilla dell'esser suo. Ecco: il cielo fulmina, i be· stioni stupiscono, si fermano, temono; si accende in essi la confusa idea di qualcosa che li supera, di una divinità. Ed essi pen– sano, o piuttosto immaginano, un primo Dio, un Cielo o un Giove fulminante; e a quel Dio si rivolgono per pi).carlo o per invocarlo a soccorso. Ma per placarlo e averlo soccor– ritore debbono conformare la propria l'ila a questo intento: umiliarsi alla divinità, do– mare l'orgoglio e la fierezza, astenersi da certi atti, compierne altri. Dal pensiero della divinità riceve forza dunque il conato ossia la libertà, che è propria della volontà umana, di tenere in freno i moti impressi alla mente dal corpo per acquetarli o per dare loro altra direzione. E con questi alti di dominio sopra sè stesso, con la libertà, è naia insieme la mora– lità: il timore di Dio ha posto il fonda– mento alla vita umana. La terra si copre di are; le grolle dei suoi monti, dove il maschio trascina ora la femmina, vergognoso dei concubiti innanzi al volto del Cielo o di Dio, assistono ai primi riti nuziali, proteg– gono le prime famiglie; il grembo della terra si apre ad accogliere il pio deposito dei morti corpi. Le prime e fondamentali istitu– zioni eliche - culto religioso, matrimoni, sepolture - sono sorte. Questa potenza etica e sociale dell'idea di Dio si riafferma nel corso della storia poste– riore; perchè, quando i popoli sono infieriti con le armi, e nessun potere hanno pi(1 so– pra di loro le umane leggi, l'unico mezzo di ridurli è la religione. Si riafferma nello svolgimento individuale della vita umana: ai fanciulli, infatti, non si può altrimenti inse– gnare la pietà che col timore di qualche di– vinilà; e, nella disperazione di tutti i soc– corsi della natura, l'uomo desidera un essere superiore che lo salvi, e questo essere è Dio. Tutte le nazioni credono in una divinità prov– vidente: popoli che Yivano in società senza alcuna coscienza di Dio, p. e,· in alcuni luo– ghi del Brasile, in Cafra, nelle Antille, sono novelle di viaggiatori, che procurano smal– timento ai loro libri con moslrnosi rag– guagli. Se è cosi ( e cosi è certamente}, nessuna dottrina è più stolta di quella che pretende concepire morale e civiltà senza religione. Come delle cose fisiche non si può avere certa scienza senza la guida delle verità a– straile fornite dalle matematiche, delle cose morali non si può senza la scorta delle ve– rità astratte metafisiche, e, quindi, senza I' i– dea di Dio. Quando si spegne o si oscura la coscienza religiosa, insieme si spegne e si oscu,a il concetto di società e di stato. Ebrei, cristiani, gentili e maomettani ebbero quel concetto perché tutti credettero in qualche divinità, sia come m~nle infinita libera, sia come più dèi composti di mente e di corpo, (*) È il capitolo \'Il del libro: La filosofia di C. R. Viro in corso di stampa presso l'editore Laterza. sia come un unico Dio, mente infinita libera in corpo infinito. Ma non lo ebbero gli epi– curei, che attribuivano a Dio il solo corpo e col corpo il caso; nè gli stoici, che lo fecero sogge1to al fato. E ottimamente Cicerone di· ceva ad Attico, epicureo, di non potere isti– tuire con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non 11li concedesse che vi sia prol'– videnza divina. L'Hobbes, che rinnovava l',– picureismo, e lo Spinoza, rinnovatore ciel.lo stoicismo, si è visto che non intesero n(1lla di quel che siano società e staio. Tra gli empi uomini primitivi, brutti, irsuti, squalli– di, rabbuffati, do,•rebbero andarsi a disper– dere quei dotti della « sfumala letteratura », dei quali è capo Pietro Bayle, che sostengono che senza religione possa \"Ìvere, e viva di fatto, umana società. La mancanza dell' idea di Dio costituisce il principale argomento della critica che il Vico muove a due di coloro che egli alta– mente onorava como « principi » del diritto naturale, al Grozio e al Pufendorf. Né l'uno nè l'altro (egli dice) s1abilisce per primo e proprio principio la provvidenza divina. Il Grozio non già che propriamente la neghi ; ma, per lo stesso grande affetto che porta alla verità, ne vuol prescindere, e professa che il suo sistema regga, tolta anche ogni cognizione di Dio; onde il Vico lo taccia di · socinianismo, perché pone la naturale inno– cenza in una semplicità di natura umana. Peggio il Pufendorf, il quale addirittura sem– bra sconoscere la provvidenza e comincia con un'ipotesi scandalosa ed epicurea, supponen– do l'uomo gettato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio (senza neppure quella scintilla chiusa in petto, che si dila– terà in fiamma morale); della qual cosa es– sendo stato ripreso, cercò di giustificarsi con una particolare dissertazione, ma non giunse a scorgere il principio vero che solo rende possibile spiegare la socielà. Ora, perché mai, essendoci note tutte co– deste energiche affermazioni e polemiche del Vico sulla condizionalità religiosa della mo– rale, abbiamo asserito che il solo punto in cui egli si trovi veramente d'accordo col Grozio, col Pufendorf, e in genere con la scuola del diritto naturale, sia nella conce– zione affatto immanente dell'etica? - Per– chè, se ben si osservi, il Vico non si op– pone al metodo tenuto dai giusnaturalisti; chè anzi anch'egli costruisce la sua scienza della società umana prescindendo, come il Grozio eia ogni idea di Dio, e come il Pu– fendorf, ponendo l'uomo senza aiuto e cura di Dio, e cioè prescindendo dalla religione rivelata e dal Dio di essa. Come per quei due, materia della sua indagine è il diritto naturale e non il soprannaturale, il diritto naturale e non quello del popolo eletto, il diritto che sorge spontaneo nel le caverne e non quello che scende gi(1 dal Si11ai. L'op– posizione del Vico (da lui esposta con la consueta confusione e oscurità) si aggira non sopra codeste affermazioni, ma sul concetto stesso di religione. La religione, insomma, della quale egli parla, non è la medesima di cui parlavano, o non parlavano, il Grozio e iI Pu fendorf. Religione, come già sappiamo, vale per il Vico non gih rivelazione ma concezione della realtà ; o che si affermi, come nei tempi della mente tutta spiegata, in forma di me– tafisica intelligibile, e mova dal pensiero di Dio per schiarire la logica nei suoi raziocini e discendere a purgare il cuore dell'uorno con la morale; o che si concreti, come nei primordi dell'umanità, in forma di metafi– sica poetica. Dalla religione rivelata, quando si ricerchi il fondamento della morale si può ben prescindere; ma in qual modo si po· trebbe da quella religione naturale, che ~ tutt'una cos,1 con la coscienza della verità? BiblotecaGino Bianco Plutarco, descriYendo le primitive religioni spaventevoli, pone in problema se inl'ece di l'enerare cosi empiamente gli dèi, non sa– rebbe stato meglio che non fosse esistita re– ligione alcuna; ma egli dimentica eh~ da quelle fiere superstizioni si svolsero luminose civiltà e sull'ateismo non crebbe mai nulla. Senza una religione, mite o feroce, ragionata o immaginosa, che dia l'idea più o meno determinata o pi(1 o meno elevata di qual– cosa che superi gl' individui e in cui gli in– dividui tutti si raccolgano, mancherebbe alla volontà morale l'oggetto del suo volere. E a quest9 punto si chiarisce quello che abbiamo dis1into come il secondo significato, pratico o etico, della parola e religione • nel Vico. Nel qual significato egli rivendica e giustifica il detto degli empi che « il ti– more fece gli dèi > ; o, anche, addita la ra– dice della religione nel desiderio che gli uo– mini hanno di vivere eternamente mos.;i da 11n senso comune d' immortalitil nascosto nel fondo della loro mente. La religione é, in questo secondo significato, un fatto pratico ossia la moralità stessa, come nel primo era 1a verit3 stes~a. Intesa dunque la religione dal Vico o (nel primo significato) come condizione o (nel secondo) come sinonimo della moralità, é chiaro che, col censurare il Grozio e il Pu– fendorf per la loro trascuranza di questo im– portantissimo concetto, egli 110n faceva altro in sostanza che ribadire la critica ali' insipi– do moralismo e al larvato utili1arismo di quei due pensatori. E pel medesimo scopo ebbe anche altre volte ricorso all'efficace stru– mento del concetto di religione. Perchè se alla filosofia attribui talora il còmpito di gio– vare il genere umano sollevando e reggendo l'uomo caduto, tal'altra giudicò che la filo– sofia sia piuttosto adatta per ragionare, e che le massime ragionale dai filosofi intorno alla morale servano solamente all'eloquenza per accendere i sensi a compiere i doveri della virtù, laddove la religione unicamente é effi– cace a far virtuosamente operare. Nella· ~cien · za empirica, poi, che corrisponde a questa parte della filosofia dello spirito, il Vico, mutate in due epoche storiche la religione (o metafisica poetica) e la filosofia, fatto/della prima il carattere dell'epoca barbarica•~ della seconda quello dell'epoca civile, é ovvio che dovesse sostenere, come sostenne, ché sola fondatrice di ogni civiltà e della stessa filo– sofia è la religione, e rigettare il detto di Po– libio che, se ci fossero al mondo filosofi, non farebbero uopo religioni. Come potreb– bero sorgere lilosofi (egli obietta), se prima non sorgano le repubbliche ossia le civiltà? e come le repubbliche potrebbero sorgere, senza l'opera delle religioni? Quel detto si deve Junque invertire: senza religione, nessuna filosofia. Fu la religione, fu la provvidenza di– vina, che addimesticò i figliuoli dei Polifemi e via via li ridusse all'umanità degli Aristidi e dei Socrati, dei Leli e degli Scipioni Afri• cani. Anche il concetto dello stato ferino, che nei libri dei giusnaturalisti serviva da ipotesi e da espediente didascalico sia per volgere la trattazione indipendentemente dalla teolo– gia mistica senza sollevare troppi scandali, sia per insinuare le loro teorie utilitaristiche, nel Vico ricompare con nuovo ufficio e nuo– vo contenuto. Cattolico di pure intenzioni, avendo <l,1to p2ce al suo :1nimo col separare la religione rivelata da quella umana, egli é in grado di assumere lo stato ferino cnme una vera e propria realtà. Reahà idea Ie, in quanto rappresenta nella dialettica della co– scienza pratica un momento necessario per la genesi della mora Iità (il momento premora le) ; realtà storica ed empirica, come appros– s.imativa condizione di fatto in quei periodi di anarchia e fermentazione che precedono il sorgere delle civiltà o seguono alle crisi di queste. I giusnaturalisti facevano ossequio, ora più ora meno, alla dottrina tradizionale della chiesa, e cioè che l'umanità gentile, nel– ,a dispersione seguila alla confusione babelica, avesse portalo seco un residuo di religione rivelata, un vago ricordo del vero Dio, donde la possibilità della vita sociale e degli déi falsi e bugiardi, barlume del Dio vero; e, perciò, lo « stato ferino > veniva proposto nel loro sistema come astratto e irreale. Il Vico eseguiva sul serio la distinzione tra ebrei e gentili, e concepiva lo stato ferino come privo di ogni aiuto che provenisse dall'ante– riore rivelazione: uno staio nel quale l'uomo era, per cosi dire, da solo a solo con le proprie sconrnlte e turbolente passioni. Stato di fatto senza morali1il, ma (diversa· mente che nell' ipotesi utilitaria) tutto pre· gno di esigenze morali, e dal quale si esce col farsi esplicito di questo implicito. ~la si esce natura Ime n te e non già per effetto della grazia divina: la ,·era grazia divina è la stessa natura umana, di cui partecipano i gentili al pari degli ebrei, tutti irraggiati nel volto da un lume divino. L'uomo ha libero arbitrio, ma debole, di fare delle passioni virtù; e nel suo trava– glio verso la virtu é aiutato in modo natu• raie da Dio con la provvidenza. Di certo, il \'ico non· intende disconoscere l'efficacia al– tresl della diretta~ personale grazia divina; ma, col suo solito metodo, la separa dalla provvidenza naturale, che sola gl' importa e sola considera. A lui piacque sempre per quel che concerneva le controversie sulla grazia, di tenersi lontano dai due estremi, tipicamente rappresentati, secondo lui, dal pelagianismo e dal calvinismo; e fin da giovane, studiando le opere del Ricardo, teologo della Sorbona, ne accettò la dimo– strazione circa l'eccellenza della dottrina agostiniana, appunto perchè media tra que– gli estremi. Siffatta temperata dottrina gli sembrava propria (diceva} per meditare un principio di diritto naturale delle genti, che spiegasse l'origine del diritto romano e di ogni altro gentilesco, e per tenersi nel tem– po stesso in accordo con la religione catto– lica. Era disposto a concedere che vi sia una nazione privilegiata, l'ebrea; e che l'uo• mo cristiano, nella lotta contro le passioni, sia pi(1 forte del non cristiano, perchè, dove non giunge la grazia naturale, può essere soccorso dalla soprannaturale. Ma, infine, il miracolo é miracolo, e la Scienza nuova non é scienza di miracoli. Che tale non sia, è confermato dalla cri tica del Vico al terzo dei tre « principi ~ del diritto naturale, a Giovanni Selden, ce· lebre ai suoi tempi quanto dimenticato poi, autore del De iure 11a/11raHcl ge11/i11mi11xla discipli11a111 ltebra,or,1111 ( 1640). Di versa mente dal Grozio (e avversario di lui anche in al– tre questioni), il Selden non negava anzi sublim,va l'efficacia della religione, né con– cepiva altra possibilità di vita morale e ci– vile per il genere umano, fuori della rive– lazione. La quale, fatta da Dio al popolo ebreo, da questo sarebbe passata ai gentili per molteplici vie di trasmissione : Pitagora, p. e., avrebbe avuto per maestro Ezechiele; Aristotele, al tempo della spedizione di Ales– sandro in Asia, si sarebbe stretto in amici– zia con Simone il giusto; a Numa Pompilio sarebbe giunta qualche notizia della Bibbia e dei pro-feti. C'era di che soddisfare ogni spi– rito credente che si ritraesse timoroso dai libri degli altri giusnaturalisti avvertendone le tendenze eterodosse. Ma il Vico non vuol sapere di quel sistema ultrareligioso. Se il Grozio prescindeva dalla provvidenza e il Pufendorf la sconosceva, il Selden aveva il torto (egli dice) di supporla, di farne cioè un Deus ex macltina, senza spiegarla con l'intrinseca natura della mente umana. Cou• trario alla filosofia, quel sistema non era meno contrario alla storia sacra, la quale anche per gli ebrei ammette in certo modo un diritto non rivelato ma naturale, e sola– mente perchè essi ne persero coscienza du– rante la schiavitù d'Egitto, fa intervenire l'opera diretta di Dio con la legge data a Mosè: - e non era conforme, nell'asserita trasfusione di cognizioni e leggi dagli ebrei nei gentili, a quel che dicono Giuseppe ebreo e Lattanzio, come in genere era privo di qualsiasi più elementare sussidio di do– cumenti. Cosicchè, la conclusione del Vico è sempre la medesima: gli ebrei si giova– rono altresl di un aiuto straordinario del vero Dio; ma le restanti nazioni s' incivili– rono per opera dei soli lumi ordinari della provvidenza. Se poi il Vico inlerpetrasse o no esatta-

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