Una città - anno V - n. 42 - giugno 1995

Sarajevo, giug o'95 I Il 30 settembre del '92, quando il quartiere di Grbavitza fu diviso da Saraievo e risuonarono le grida che dicevano "balia fuori". L'incredulità di tanti nel grande condominio interetnico dove già erano attivi turni di guardia contro i cosiddetti banditi. La vecchia signora che non volle lasciare i ricordi e forse i marchi nascosti nell'appartamento. Il "nostro" e "i loro" cetnici. Appartamenti scambiati, a volte espropriati, a volte tenuti come "in prestito". Il cammino verso un ponte che porta dove bombardano. Intervista a Leila Music. Lej/a Music, 40 anni, di famiglia di origini mussulmane, vive da sempre a Sarajevo, è in Italia da due mesi. Il 30 settembre '92, alle 9 di mattina, sentimmo sparare e urlare sotto casa nostra. Non si capiva bene cosa urlassero, si sentiva solo: "balja fuori dalle case". (Balja è un modo dispregiativo di chiamare i mussulmani. N.d.r.). Ci affacciammo: c'era un soldato da solo che sparava in aria. Che fare? I serbi nel condominio avevano affisso un cartello che diceva di aiutare le autorità a mantenere l'ordine e a denunciare i banditi, cosicché il rappresentante del condominio decise di recarsi al posto di polizia denunciando l'accaduto. I poliziotti caddero dalle nuvole e dissero che probabilmente era un soldato ubriaco e che non erano a conoscenza di nessun ordine cji espulsione. Ci tranquillizzammo. Dopo due ore, durante le quali nessuno era uscito di casa, un'anziana signora serba, che viveva in un palazzo vicino, venne a portarci i saluti di un'arnica che partiva perché cacciata dal!' appartamento. "Ma chi l'ha cacciata via?". "Come chi l'ha cacciata, anche voi dovete andarvene entro oggi, non l'avete saputo?". "No, ci hanno detto che si trattava di un soldato ubriaco." "Non siate sciocche! Stanno buttando fuori dalle loro case tutti i mussulmani, fareste meglio a prepararvi." Siamo corsi fuori e vedemmo un gruppo di persone con pacchi e pacchetti, chi piangeva e chi si disperava e fra guesti la mia amica Bilijana che mi venne incontro e mi restituì i soldi che le avevo dato per la spesa della settimana. Tornai a casa e dissi ai miei vicini cosa stava succedendo. Il nostro rappresentante tornò allora alla polizia e lì gli confermarono che in effetti gli ordini sembravano essere quelli: fuori tutti i mussulmani dalle case. Ma nessuno sapeva chi avesse dato quell'ordine. E così anche noi cominciammo a preparare i nostri pacchi. Ma cosa impacchettare? Non è che potessimo trasportare tanta roba. Cosa scegliere? Mia sorella Adela aveva abitato in quell'appartamento per 11anni, suo marito per 17, la madre di lui si era stabilita lì dopo 50 anni di matrimonio portando con sé tutti i propri ricordi ... Dovunque giravo lo sguardo vedevo giocattoli di mia nipote, regali di matrimonio, souvenirs che io stessa avevo portato dall'estero, tutte quelle piccole cose che una famiglia mette insieme in tanti anni di matrimonio. Poi pensai che stava arrivando l'inverno e che mia nipote quando era fuggita nell'altra parte di Sarajevo non aveva trovato abiti della sua misura e così misi in valigia sei tute da ginnastica. E poi alcuni vasetti di salsa, alcuni di marmellata, alcune uova che a Sarajevo nessuno da mesi aveva più visto, -mentre a Grbavitza il mercato era abbastanza fornito perché approvvigionato dai serbi-, infine qualche caspo d'insalata. Dal!' altra parte, se lo trovavi, un caspo costava 15 mila lire! Per la seconda volta fuggivo. Il 21 aprile del '92 avevo lasciato il mio appartamento a Sarajevo. Durante un bombardamento i vetri erano andati in frantumi e poiché era ancora freddo, i bombardamenti non cessavano e i vetri sarebbero rimasti rotti, mia madre ed io avevamo deciso di trasferirci lì, a casa di mia sorella Adela, nel quartiere di Grbavitza. A quel tempo ancora si poteva passare il ponte e nessuno poteva immaginarsi una divisione della città. Dopo due settimane sì, perché successe. Era il due maggio e Grbavitza rimase sotto il controllo dei serbi. Solo allora la gente cominciò a realizzare che la situazione stava rapidamente deteriorandosi. Eravamo proprio in guerra. Molti giovani mussulmani fuggirono per non essere fatti prigionieri, molti giovani serbi fuggirono per non essere costretti a combattere contro i loro amici del resto della città. Anche mia sorella, insieme a sua figlia e a nostra madre fuggì e riuscì a raggiungere la parte controllata dai bosniaci e andarono a vivere nell'appartamento che avevo lasciato per venire da lei. Ci rimasero poco, di lì a due mesi si sarebbero ritrovate in Italia, dove vivono tuttora. Ma questo allora nessuno poteva immaginarlo. L'appartamento di mia sorella era in un palazzo di 17piani, abitato da serbi, croati e mussulmani, che continuarono a vivere insieme. Non ci furono mai problemi, anz( Organizzammo dei turni di guardia 24 ore su 24, di giorno le donne, di notte gli uomini, per difendere gli appartamenti dai banditi che s'aggiravano nel quartiere, cercando le case vuote da saccheggiare e, a volte, non si fermavano se la casa non era vuota. I turni di guardia erano di quattro ore, ma eravamo senza armi. La prima volta che entrarono alcuni soldati serbi non potemmo fare altro che affidarci al rappresentante del nostro condominio, una brava persona che seguì i soldati appartamento per appartamento continuando a pregarli di non commettere cattive azioni, e contemporaneamente tentando di rassicurare gli inquilini mussulmani. Non successe nulla e, nonostante la paura e la tensione, i rapporti nel condominio rimasero buoni. Ma il segnale c'era stato e così impacchettai tutte le mie cose di un certo valore e le affidai a una famiglia serba che tuttora me le sta custodendo. Il mio problema era il nome, potevo dire Lela, che è serbo, ma se quelli avessero voluto vedere la carta di identità, lì era scritto Lejla e così, per la spesa, mi facevo aiutare da una mia amica serba il cui marito, fra l'altro, viveva sempre nascosto in casa perché non voleva essere arruolato dai serbi. Un giorno che ero da lei sentimmo bussare alla porta, il marito della mia arnica si precipitò nel suo nascondiglio e quando aprimmo ci trovammo di fronte questo soldato serbo, con l'elmetto, armato e facemmo un balzo. "Non preoccupatevi, mi manda sua mamma, da Belgrado ..." Era successo che la madre della mia amica, che viveva a Belgrado, un giorno, casualmente, aveva incontrato una profuga di Sarajevo il cui marito era un sottufficiale serbo che operava proprio a Grbavitza e le aveva chiesto se suo marito poteva portare cose e soldi alla figlia. Quel sottufficiale serbo sarebbe diventato il "nostro cetnico". I "loro cetnici" erano invece quelli che rubavano, che molestavano le donne o potevano cacciarti di casa. Piano piano aveva preso l'abitudine di scherzarci sopra anche lui. Quando bussava diceva subito: "nessuna paura, sono il vostro cetnico". Lo posso dire con certezza che ci sono ancora, fra i serbi, persone che non hanno ucciso né rubato. Non tutti sono di quelli che lavorano a 500 marchi a persona abbattuta o di quelli che dopo aver lavorato normalmente per cinque giorni venivano a passare il week-end al quartiere per tornarsene via carichi di valigie ... I cetnici avrebbero deciso chi parti va e chi restava. In base a cosa nessuno lo sapeva. Così aspettammo in casa il nostro momento e vedemmo entrare nel palazzo alcuni militari che, cominciando dall' ultimo piano, appartamento per appartamento, stabilirono chi doveva uscire e chi poteva restare. Ci vollero ore perché arrivasse il nostro turno. Nel frattempo finii di preparare i pacchi da consegnare ai miei vicini che me li avrebbero custoditi. Il gatto di mia sorella trascorse tutto quel tempo appiccicato alle mie gambe, seguendomi ovunque, come sentisse che qualcosa di strano stava per succedere. La situazione per molti era tragica. Di là sapevamo che non c'era da mangiare e sentivamo anche che bombardavano. C'era chi, non avendo nessuno dal!' altra parte, non sapeva dove andare, da chi farsi aiutare. C'era una coppia di anziani che s'erano trasferiti a Sarajevo quando erano andati in pensione, non avevano parenti e ora, in un attimo, stavano per perdere tutto. Altre famiglie stavano per essere divise perché i giovani sarebbero stati trattenuti per motivi militari o per scavare trincee o per essere mandati nel campo di Lukavitza in attesa di essere scambiati con prigionieri serbi. Per un caso della fortuna proprio quel mattino "il nostro cetnico" venne a sentire se avevamo bisogno di qualcosa. Ci rimase male e disse: "non muovetevi, state qui", avrebbe provato a fare qualcosa. E il mio vicino anziano, serbo anche lui, mi diceva: "Lejla, se vuoi stare, puoi nasconderti da me. Qui non ci sono granate, i mussulmani non bombardano Grbavitza ...". Un bravo signore, perché se i cetnici si accorgevano che aiutava una mussulmana avrebbe avuto più problemi di me. Intanto erano arrivati all'appartamento di una signora anziana con cui ero diventata molto arnica, ci eravamo fatte molta compagnia in quei mesi. Le avevo già chiesto se, nel caso fossimo state costrette a partire, voleva venire con me. "Io sono sola, tu sei sola, ci faremo compagnia anche a Sarajevo", ma sapevo che non voleva partire. "Voglio vivere tra i ricordi di mio marito, tutto quello che avevamo è qui ...". Un soldato di una certa età chiese ai tre che giravano per l'appartamento di farla restare perché era anziana. Quelli acconsentirono. Quando i cetnici sono arrivati nell'appartamento della mia arnica e di suo marito dissero: "la moglie deve andare, il marito deve prendere le sue cose e andrà a Lukavitza, al campo". E la mia amica: "no, io non me ne vado senza di lui, potete uccidermi adesso, qui, ma io non lo lascio". Così il nostro cetnico si mise in mezzo e riuscì ad ottenergli il permesso di partire col gruppo, ma senza garantirgli che sarebbe riuscito ad attraversare il ponte, perché i serbi non volevano che maschi giovani andassero dall'altra parte, perché avrebbero potuto combattere contro di loro. Decisero comunque di andare. Giunsero infine nel mio appartamento, la porta era aperta perché i mussulmani non potevano chiuderla a chiave quando dei LE IMMAGINI l'I SCEI Cos'è ancora Sarajevo? Sarajevo è una città che scorre. Alla fine della città c'è un piccolo buco, dentro c'è sempre confusione. Alcuni escono dalla città e altri ancora escono. Pochi sono quelli che entrano, colonne continue scorrono verso la libertà. Sarajevo ha fornito al mondo i lavapiatti più qualificati. Dottori delle scienze, giuristi, giornalisti, musicisti, medici, ingegneri, scrittori. Tutti loro stanno sgrassando piatti in Canada, America, Australia. Alla notte, quando cerco di riscaldarmi sotto la coperta lisa e fuori è -19°C, ricordo le facce degli amici che ho perso. A me, che pure sono l'unico a trovarsi in una situazione senza uscita, fanno pena. Questo sicuramente è ilmodo sarajevese contro la verità. Attribuire ad altri la tua sofferenza ti farà sentire meglio. Chi esce per ultimo deve spegnere la luce. I bambini sono l'esercito più forte. Non ci sono bambini nella sala giochi, così come non ce ne sono in cortile. Alcuni sono a Zagabria, altri a Pale, altri nell'androne. Questi ultimi invece delle biglie raccolgono schegge, è da tanto che non prendono le sculacciate e tutti imparano l'inglese. Come siamo messi! Un giorno questa sarà la loro madre lingua. All'iniziodella guerra la città era piena di cecchini, di Sds. Prima della guerra il partito gli ha dato i fucili e adesso sparano contro la gente. Un giorno, all'inizio di maggio, visto che non si era sparato per tutta la mattinata, i bambini si sono rincuorati e sono usciti in giardino. Un genitore molto apprensivo li ha cacciati via tutti, urlando di sbrigarsi perché icecchini potevano cominciare a sparare da un momento all'altro. Una bambina molto dolce di tre anni si è girata verso l'uomo e ha detto: "non sparerà, dado, perché adesso ilmio babbo sta dormendo". Così i difensori della città hanno rintracciato il primo cecchino. Cade la prima neve. Indicembre, quando cade la prima neve, il silenzio diventa il suono dominante. Non ci sono le auto, non c'è il tram, non c'è nessun rumore. Per la strada passa un uomo con la cariola e un bambino. Una coppia disarmonica, l'uomo e questo suo bambino. Lui è vestito senza alcuno stile: stivali di gomma, pantaloni da operaio, la giacca della protezione civile, i guanti spaiati. Il bambino ha tre anni al massimo e fa da antipodo all'uomo: i vivaci, complementari colori della tuta da sci, la cuffia di lana con un grande pon pon che salta da sinistra a destra. Il piccolo è vivace, sorridente, la strada risuona delle sue risa. Alla fine riesce a convincere il padre e sale sulla cariola, grida dalla gioia quando l'uomo lo spinge. Dalla finestra del palazzo davanti al quale passano liguardano due bambine. Sorridono. A questa immagine, per essere completamente sarajevese, manca solo un dettaglio, non dovete sforzarvi di indovinare quale. Manca solo un cecchino, luiapparirà tra un minuto e mezzo, quando l'uomo e ilbambino sbucheranno all'incrocio e senza alcuna emozione premerà il grilletto. Il colpo fa sbalzare ilbambino dalla cariola e gli spacca la testa. Il padre dallo shock diventa muto. La gente scappa via, ma questa è solo la prima reazione. Non passerà nemmeno mezzo minuto e tutti torneranno all'incrocio. Un tassista prenderà ilbambino e guidando come un pazzo sparirà verso Kosevo. La gente si avvicinerà al padre, ma nessuno lo potrà aiutare. Lui guarderà davanti a sé, non sentirà niente, non vedrà nessuno. In pochi minuti di tutta questa immagine rimarrà solo la cariola rovesciata e il sangue accanto. Prima che cada la neve, un pechinese abbandonato leccherà il sangue. Prima che si faccia buio, sparirà anche la cariola. Itempi sono difficili,non

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