Studi Sociali - anno III - n. 17 - 21 febbraio 1932

,, 6 f.lue quando questo lusso non sia necessario per vin– cere la lotta per la vita; oppure sono industrie no– cive come quella cosi poderosa degli armamenti. Si tratta, in genere, di esigenze proprie della struttura attuale della <;ocieta, dove i meno sono coloro che lavorano alla produzione fondamentale ed i phi sono i parassiti o quelli che vivono sulla gerarchia im– produttiva, economicamente passiva, su cui si basa la vita in regime capitalistico. D'altra parte la struttura industriale é un feno– meno quasi recente nella vita economica; data sopra– tutto dall'avvento del macchinismo ed ha tenuto la linea di evoluzione che vediamo, piuttosto che un'al– tra qualsiasi eventuale, solo perché dessa conveniva .alla speculazione dei monopolisti e dei privilegiati. Per6 questo non vuol dire che lo sviluppo della tec– nica non avrebbe potuto seguire altre rotte più uma– ne e più henefiche per l'insieme della societa. L'opposizion,e alla civilta industrialista, nella qua– le ultima il bolscevismo russo vede il suo ideale su– premo, e che viene esaltata come una delizia dal sindacalismo, non significa in modo alcuno rinuncia alla tecnica, il che sarebbe ritorno ad un assurdo primitivismo, bensi l"affermazione, qui esposta solo in generale, che la tecnica e l'ing-egno umano posso– no svilupparsi anche in una forma non essenzialmente industriale, come fin qui lo volle e stlmol6 il capi– talismo per l'aumento dei suoi guadagni. Per noi una cosa é fondamentale nella nuova ri– costruzione: la comunita. La comunit:i umana, come espressione di solidarieta e di convivenza, é stata disfatta da questa decantata civilta che alfine ago– nizza. Invece di comunit.i ha costituito agglomera– zioni artificiose, dove da individuo a individuo non v'é atfinit3. alcuna, né relazione o sentimento di so– lidarieta. La citta capitalista non é una comunita, é una agglomerazione di g,ente che non si conosce e tra la quale non esiste relazione né equivalenza cli sentimenti. Nel nostro quartiere, in mezzo a migliaia d'inquilini, possiamo vivere venti anni senza scam– biare una parola né un servizio col nostro piu pros- 6imo vicino di casa, ed alla nostra porta pu6 morire di fame un uomo, una donna o un bimbo, senza che noi ci giudichiamo colpevoli di tale sventura. In una comunité. effettiva, condizione previa di ogni socialismo, la liberté. e la solidarietà, invece, pro– spererebbero e farebbero dell'insieme una vera uni– ta sociale. Queste comunita potrebbero essere più grandi o più piccole, ma non potranno esser mai le citté. mo– derne di milioni di abitanti. Per conseguenza non sara sufficiente il cambiamento dell'apparato poli– tico del capitalismo; sara necessario anche un cam– biamento economico, un cambiamento nella struttura del sistema di produzione e d'intercambio, nonché una riadattazione de la tecnica e della vita alle nuo– V<>- forme s-0ciaU. Si pu6 dubitare delle ben,,mo,enze dell'industria, specie se si nutre un po' di rispetto per la personalita dell'uomo, senza per ci6 dubitare del valore della tecnica e dei progressi scientifici volti ad alleggerirci ogni sforzo pesante. I lunghi anni di vita passati sotto la schiavitù del capitalismo ci hanno impedita la chiara visione de– gli ampi panorami della liberta e del libero giuoco d-elle forze umane. Nello stesso modo che gran par– te degli uomini s'immaginano che non sia possibile vivere senza un governo che ordini .e disponga da un centro qualsiasi, cosi si é arrivati a considerare come una condizione "sine qua non" dell'esistenza la struttura dell'industria ed il culto del macchini– smo tali come si sono sviluppati al servizio dei pa– droni dell'ora. Ebbene, noi voglia.mo liberarci non solo dell'apparato politico di oppressione che é lo Stato, ma anche dell'apparato economico che é l'in– dustria moderna, altrettanto soggiogatrice ed op• pressiva! Che cosa pu6 mai l'individuo nella fab– brica razionalizzata all'infuori che ubbidire e tacere? Quali altri diritti fuori che di obbedire e tacere gli Jas.cia il regime fascista o dittatoriale moderno? E le cose non cambieranno pel fatto che si arrampi– chino sull'apparato economico e sull'ingranaggio po– litico gli odierni diseredati. Il male non sta negli uomini, bensi nelle istituzioni. • .... Col gia detto abbiamo implicitamente anticipato l'idea nostra, che la futura organizzazione sociale del mondo e la cultura che deve crearsi per la supera– zione di un passato di obbrobrio e di misel·ia non d•eve essere, come lo fu col capitalismo, predominan– temente urbana, bensl in modo particolare agraria. Sa i destini del mondo furono fin qui in mano delle potenze politica, finanziaria, industriale ed intellet– tuale concentrate nelle citta, in avvenire il capo sara in ogni parte ed il centro in nessuna; e invece di alcune citta gigantesche da cui irradia il falso splen– dore di un regime dispotico ed inumano, avremo un'infinita fioritura di comunita !ibere, che sapranno ingegnarsi per conservare la propria indipendenza e felicita, per l'abbondanza ed il godimento, per au– mentare il proprio sapere e la propria coltura senza necessita delle forti centraliz.zazioni, come senza ab– dicare 'Sotto nessun aspetto ed in nessun momento alia liberta madre della felicita e della prosperita. Per6, benché il nostro ideale di vita non sia nelle caserme d'inquilini delle grandi citta, né nelle caser– me della produzione, né nelle caserme per l'addestra– mento intellettuale, non dovremmo per questo muo– ver guerr-a a coloro che vedessero il proprio ideale supr-a.mo in tutto quel guazzabuglio che a noi pare tanto nocivo ed angusto. La liberta soluziona tutto; e cosi come riconosceremmo anticipatamente con piaeere il diritto di viv-ere come fin qui nelle grandi . STUDI SOCIALI citta a coloro che lo preferiss-ero, nello stesso modo vorremmo che si riconosca a noi il diritto di costi– tuire le nostre comunita di vita autonoma, che entre– rebbero in libera cooperazione solidale con tutte le altre comunita per i fini d'intercambio e di aiuto rec~proco. La rivendicazione della nostra autonomia non significherebbe guerra alle altre autonomie, ben– si al contrario la possibilitA di una cooperazione vo– lontaria e naturale per le cose d 1 interesse comune. In tal modo potremmo mantenere le m"igliori rela– zioni di buon vicinato e di mutuo appoggio con quei centri socialisti, comunisti o sindacalisti che si for– massero usando della med-esima liberta esercitata d•a noi. E allora le lezioni· dell'esperienza saranno superiori e infinitamente più convincenti delle dot– trine. Esse avrebbero per ultimo la parola. O questa soluzione, o la soluzione dell'esclusivl– ta e dell'uniformita! Bisogna scegliere; e noi ab– biamo scelto, benché la nostra voce stu-0ni nel con– certo delle voci dell'ora che volge. L'esclusività e l'unitormit:-i. significano dittatura, governo forte, mano di ferro. Ed il nostro postulato tradizionale ripete invece: "Né governanti, né go– vernati!" DIEGO ABAD DE SANTILLAN. Montevideo, 12 ottobre 1931. La piccola proprieta agraria e la Rivoluzione Non dir6 cose nuove in questo articolo. Quel!e che esporr6 sono gia state dette frammentaria– mente altre volte, da altri e da me stesso; ed au– <:he recentemente qualche amico vi i,nsisteva in un periodico anarco-sindacalista d'Europa (vedi "Guerra di Classe" di Bruxelles, n. 15 del decem– bre 1931). Le stesse citazioni che dovr6 fare non sono fatte tutte per la prima volta. Ma credo ne– cessario raccogliere, una volta per tutte, queste membra sparse d'un pensiero ormai divenuto or– ganico e preciso 1 se non altro per spezzare quella specie di dogmatismo in veste comunista - ma non meno pernicioso di qualsiasi dogmatismo - in cui a torto non pochi compagni fanno consistere la coerenza anarchica. Il comunismo, - nel suo significato tradizional~ ed etimologico, da non confondersi con le falsifica– zioni che ne han fatto i dottrinari ed i politicanti del marxismo e del bolscevismo, - come forma d 1 or– ganizzazione della produzione e del consumo assi– curante a tutti la sodisfazione integrale dei bisogni materiali - é sempre l'ideale da raggiungere: la mìgTiore applicazione pratica dal principio di soli– darieta, la condizione economica più ampia della realizzazione della liberta, il modo di cooperazione umana che promette i maggiori risultati col mini– mo sforzo, il terreno più solido, insomma, per I 1 at– tuazione dell'anarchia. Me., appunto perché abbagliati dalla bellezza e dalla superiore giustizia d'un tale ideale, non pochi si sono lasciati portare a dimenticare -che il comu– nismo é un mezzo, non il fine; che il fine da rag– giungere non é in realta questa o quella forma di organizzazione economica, bensf la liberté. indivi– ùua1e e collettiva; che il comunismo yale in quan– to pu6 servire a rendere pill libero l'uomo, piti li~ beri i popoli; e che senza liberta esso diventerebbe parola vuota ài senso, e potrebbe anche diventare sinonimo di schiavitU. Da qui é derivato in parec– chi, anche anarchici, un unilateralismo che ha fini– to col far loro subordinare il fine al mezzo, la li– berta ad una sua unica forma. di attuazione, lo spirito alla lettera. Alcuni sono giunti ad una spe– cie di totalitarismo comunista, per cui la rivoluzio– ne appare loro non più la liberazione di tutti, per– ché tutti possano organizzare la propria vita nel modo che credono meglio senz'altro limite che l'u– guale liberta altrui, bensi come la via per realizza– re a forza per tutti quell'unica forma d'organizza– zione economica ch'essi credono migliore. Es-si, pur senza rendersene conto, non vedono che l'organizzazione economica comunista pu6 es– sere migliore - ed anche secondo noi lo é - solo a patto di essere accettata volontariamente da tut– ti, senza coercizione, o di essere liberamente attua– la solo da coloro che l'accettano: ché la condizione prima di successo per qualsiasi realizzazione comu– nista é che tutti coloro che non l 1 accettano siano ugualmente liberi di organizzare la propria vita di– versamente, senza che per ci6 debba spezzarsi fra gli uni e gli altri il legame d'una solidarieta supe– riore né fra loro si renda impossibile la pratica del– l'intercambio e del mutuo aiuto. + •• Queste riflessioni d'indole generale mi sono state suggerite da qualche recente polemica fra com– pagni francesi a proposito della questione agraria nella rivoluzione. Vi ho alluso anche in un mio ar– ticolo precedente. Alcuni compagni, che s'atteggiano a "revisionisti" sostenevano che nella rivoluzione non sia necessario, e possa essere nocivo, distrug– gere la piccola proprieta rurale - la proprieta in– dividuale o famigliare di campi coltivati dagli in– teressati (con esclusione, s'intende, di qualsiasi forma di lavoro salariato), - mentre altri vede– vano nell'affermazione dei primi un opportunismo pericoloso per la rivoluzione ed in contrasto coi principi anarchici. Per altre ragioni più importanti e meno... av– veniristiche io mi trovo più vicino per idee e ten– denze ai secondi che ai primi: per esempio, sulla. questione della "responsabilita <:ollettiva", su quel– la dell'organizzazione interna degli anarchici, sul l'atteggiamento di fronte ai diversi organismi sin- - dacali, ecc. Ma su qu-esta speciale questione della proprieta agraria mi pare che stiano più dalla parte della ragione e sia,no più in coerenza con lo spiri– to libertario (a parte certe forme di linguaggio "giuridico" fuori posto) i cosidetti "revisionisti" o minoritari. Mentre gli umici della U .A.C.R. e del "Libertaire" mi sembra che -cadano per l'appunto in quel difetto di totalitarismo comunista, in ger– me antianarchico, di cui ho parlato pili sopra. Er– rore, quest'ultimo, verso cui si é venuto bensf orien– tando insensibilment-e un po' tutto l 1 anarchismo-co– munista durante lo sviluppo -del movimento, ma che non si potrebbe dire tradizionale, perché l'anarchi– smo, neppure quello comunista, non conteneva al– l'inizio tale errore; al contrario esso ha più volte, per bocca de' suoi scrittori, protestato contro di esso o sostenuto !dee diametralmente opposte. Non mi riferisco qui che di volo a B a k u n i n , agll anarchici di prima del 1876, all'anarchismo spagnuolo fin verso il 1900, che furono (i primi completamente e l'ultimo in gran parte) collettivisti, non comunisti. Pure si pu6 dire che il loro pens:~ro, in specie quello di Ba– kunin prima e di Riccardo Mella in fine, era assai più lontano da qualsiasi "totalitarismo" o "unici~ smo" di molti comunisti-anarchici odierni. Non ho qui i volumi di Bakunin per consultare quel che scrisse sulla questione agraria; ma non credo di sbagliarmi. Per Riccardo Mella mi basti l'icordare quel che diceva in un suo scritto del 1900 (vedi "Ideario" Gijon, 1926) sulla "contradizione in cni si cade quando alla parola anarchia si associa un sistema chiuso, invariabile, uniforme, soggetto a re– gole predeterminate" e sulla necessita che l'orga– nizzazione sociale anarchica sia "conforme alle ten– denze, alle necessita e allo stato di sviluppo socia– le, senza affermare procedimenti o risultati obbli– gatorii". Negli anarchici collettivisti per6 il concetto della possibilita dello sfruttamento privato della terra é piuttosto implicito che esplicito. Pjll. esplicito inve– ce fu James Guillaume, pili vicino forse ai colletti– visti ma accettato a suo tempo anche dai -comuni– sti anarchici. Nel suo opuscolo del 1876 "Idee sulla riorganizzazione sociale" (tradotto da Malatesta e pubblicato in Italia nel 1878) il Guillaume comincia– va la seconda parte del suo lavoro, dedicata alla questione agraria, con queste parole: "Ecco in qua– le posizione si troveranno i contadini la dimane del– la rivoluzione. Gli uni, ch'erano gia piccoli proprie– tali, conserv"no 11 pezzo di terra che coltivano e che continuano a coltivare colla loro famiglia. Gli altri, e sono i pili, ch'erano fittavoli di un gran pro– prietario, o semplici manuali al soldo di un fitta– iuolo, si sono impossessati in comune di una vasta estensione di terreno e debbono coltivarla in co– mune ... I contadini possono, se cosi lor piace, di– videre il terreno in parti ed assegnarne unà parte a ciascun lavoratore; o al contrario, mettere la ter– ra in comune ed associarsi per coltivarla ... E' pro– babile che dopo poco tempo quei contadini, restati proprietari individuali, trovino utile trasformare il loro sistema tradizionale di lavoro [in collettivo] ... Ma se restassero degli anni colle antiche abitudini, se, in certi comuni, dovesse anco passare una inte– ra generazione prima che i contadini si decidess&– ro per la proprieta collettiva, non vi sarebbero, per questo ritardo, gravi inconvenienti: il proletariato delle campagne sarebhe ugualmente scomparso, o nel seno stesso di questi comurti restati indietro non vi sarebbe che una popolazione di liberi lavoratori viventi nell'abbondanza e nella pace" (1). Il Guillaume, insomma, fin •dal 1876 ammetteva come possibile in una sociata di liberi e di uguali la coesistenza <li forme di piccola proprieta accan ... to ad altre di proprietà collettiva o comunista. A proposito di questo problema, e delle discussio– ni fattene ultimamente, io mi son domandato se gli anarchici hanno mai I-etto un certo opuscolo di UIL certo Eliseo Reclus: "A mio fratello contadino". E' stato ristampato una infinita di volte, da quasi ses– sant'anni, in tutte le lingue, da quando si pnhblic6 primieramente nel 1873 col titolo: "Alcune parole– sulla proprieta". Mi son domandato se spesso dei compagni ristampano certe cose per gli altri, sen– za curarsi di leggerle essi stessi pai primi. Quel vecchio scritto di Reclus, sotto la semplice e hella forma d'una specie di lettera ad un contadino, - e precisamente ad un piccolo proprietario, lavorato– re del suo campicello - é una trattazione si pu6 dire completa del problema che qui c'interessa. Non é vero (egli dice in sostanza al contadino) che si voglia spossessarti del tuo campicello; esso. é tuo, perché tu lo coltivi, e tale restera finché lo vorrai. Noi vogliamo espropriare la terra dei grandi proprietari, che vivono sul prodottsi di quella senza lavorarla; e cosi pure la terra di quei coltivatori diretti che ne possiedono più di quanta possono col– tivarne da sé, facendo coltivare il di più dagli altri. Vogliamo liberarti dello Stato che ti opprime con le imposte e ,col servizio militare, dei commercianti (1) Da "Il Pensiero" di Roma (n. 11 del 1° giugno 1909, dove il lavoro di Guillaume fu ripubblicato, in quello ed altri tre numeri successivi). Ricopiando questi periodi, trovo che tutto il capitolo sulla questione r agraria del Guìllaume sarebbe anche ora ulile contri– buto a1lo studio di tale argomento. Lo ripubblicheremo. intero, spazio permettendolo, una prossima volta. 1.1'.

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