Lo Stato Moderno - anno VI - n.4-5 - 20 febbraio 1949

96 LO STÀTO M-QDERNO dipendenze extraeuropee dei paesi europi. Si pensi che quegli stessi paesi europei che nei primi 10 mesi del 1948 ci hanno mandato il 20% delle nostre importazioni, ante– guerra (1937-38) e nell'i·nterguerra (1928-29) ce ne invia- 1 vano il 45·%; e le Americhe che ci mandano oggi il 60% delle importazioni ce ne inviavano meno del 30% nel 1928-29 e il 22% nel 1937-38. Il nostro commercio prima del 1940 era passivo verso ognuna delle aree considerate nel prospetto, e quindi anche verso i paesi europei e ver– so la Gran Bretagna; e questa diffusa passività rappre– sentava la normale distribuzione della nostra bilancia ne– cessariamente passiva. La passività poi era larghissima verso il complesso delle dipendenze imperiali della Gran Bretagna, men tre oggi il commercio con l'area della ster– lina è quasi in pareggio. E' nell'ordine naturale ·pensare che l'attuale distri– buzione del nostro commercio estero si andrà modifican– do man mano che la ricostruzione europea procederà, ma questa modificazione (in meglio) presenta anche una pos– sibilità negativa, perchè il miglioramento del nostro in– terscambio europeo potrebbe anche significare minori possibilità ~lative) di esportazioni o di determinate e– sportazioni in Europa senza che abbiano a maturare mag– giori sbocchi nei paesi extraeuropei, assai più indu– strializzati che anteguerra. La < ricostruzione >, ove non effettuata su una premessa unitariamente europea, po– trebbe significare minor bisogno di acquisti reciproci da parte dei paesi europei e rincrudita loro concorrenza sui mercati lontani. L'Italia, senza dipendenze ·proprie po– litiche ed economiche, deve poter fare affjdamento sui mercati europei più di altri paesi _europei che, in equi– librio èconomico e monetario precario come il suo, posso– no fare un sostanziale affidamento su dipendenze e su mercati d'oltremare dove hanno potuto conservare i le– gami che già anteguerra detenevano più solidamente di noi. Si tratta di un dato dì fatto del quale va tenuto mo– netariamente conto, perchè rende la lira più debole e reca appoggio alla esigenza di una sua valutazione ade– guat11 alla nostra decaduta posizione .politica ed econo– mica. 6. - Le constatazioni del precedente paragrafo dimo– strano anzitutto la necessità, più forte per noi che per altri Stati-E.R.P., che venga ricostruita < una> economia europea, su basi di collaborazione e non di concorrenza. Viene cosi in primo piano l'esigenza di potenziare l'in– terscambio europeo e di ricercare lungo questa via quel risollevamento economico (li fronte al quale l'E.R.P. de– ve apparire quale un semplice strumento inteso a soste– nere transitoriamente l'economia europea affinchè e men– tre questa viene unitariamente ricostruita. In quest'ordine di idee trova la sua interpretazione e la sua giustificazione il recente accordo intervenuto con la Gran Bretagna per quanto riguarda il tasso di cambio lira-sterlina. La logica dell'accordo sta nel giudizio da dare sulle finalità della politica monetaria inglese. Con– sentendo nella previsione che l'Inghilterra sia in grado di potenziare la sua economia e il suo commercio estero in modo da conseguire fra tre anni la piena au!onomia della sterlina sulla base della attuale parità sterlina-dol– laro (4,03), segue l'oportunità di accogliere fin d'ora il cross-rate di 4,03 anche per il tasso di cambio lira-ster– lina. E' vero che momentaneamente tale cross-rate ci nuo– ce, perchè minora la nostra ragione di scambio senza che possa seguire un più che proporzionato incremento del volume del nostro commercio con l'area della sterlina. Ma l'attuale cambio sterlina-dollaro è artificioso non sulla base della parità dei poteri di acquisto della sterlina in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma in causa del < vuoto > della bilancia dei pagamenti inglese, dovuto al venir me– no di partite invisibili attive. IJ cross-rate a 4,03 non im– prime sviluppi inappropriàti alla nostra economìa, ma, al contrario, rende taH sviluppi aderenti alle esigenze del ricostituendo equilibrio economico e monetario eu– ropeo. Sarebbe maggior _danno per noi dare alla nostra economia un.o sviluppo presumente anche un cross-rate, più sfavorevole alla sterlina destinato a risalire a 4,03 entro tre anni. Meglio impostare fin d'oggi, anche in que– sto punto, la nostra economia su basi durevoli viste nel– la luce della massima e della più libera collaborazione europea. 7. - L'equilibrio monetario italiano deve perciò ve– nire considerato in primo luogo· nell'ambito dell'equili– brio monetario generale dell'Europa. Una tendenziale so– pravalutazione delle monete europee può trovare un a– dattamento relativamente agevole. in consiclerazione della forza economica combinata dell'area degli Stati-E.R.P. e delle loro dipendenze e dell'area della sterlina che - come la tabella palesa - conserva ancora un forte peso eco– nomico e monetario. Il dollaro e la sterlina, in altre pa– role, hanno più interesse a venirsi incontro che ad· o– steggiarsi. Questi rilievi vengono a togliere molto signi– ficato alla sopravalutazione della lira nei rispetti del dol– laro. · 8. - Dal nostro particolare punto di vista italiano pe– rò v'è da aggiungere un'importante considerazione (dopo quella fatta in chiusura del par. 5). Sappiamo che l'Inghilterra ha tenuto fermo sulla trincea difensiva della parità del dollaro a 4,03 in causa della attuale impossibilità, per lei, di trarre vantaggio da un deprezzamento della sterlina. In Inghilterra c'è la « piena occupazione>: l'Inghilterra non potrebbe espor– tare più di quanto già esporta, perchè non potrebbe pro• durre di più, e quindi il deprezzamento della sterlina si convertirebbe per lei in uno sterile peggioramento del– la ragione di scambio. Perciò per l'Jnghilterra una ten– deruiale sopravalutazione della moneta è, in questo dopo– guerra, cosa utile. Per l'Italia invee-e si dà il caso perfettamente oppo– sto. L'Italia ha esuberanza di mano d'opera: è una mone– ta tendenzialmente sottovalutata che fa al suo caso. II peggioramento della ragione di scambio internazionale potrebbe anche (in via di ipotesi) essere sterile dal pun– to di vista economico, costringendoci ad esportare di più per importare - al netto delle materie prime e semi– lavorate riesportate nei prodotti lavorati - un eguale quantitativo di beni. Ma tale peggioramento non sarebbe st.erile dal punto di vista sociale, e, alla fine, anche dal punto di vista economico. Dal punto di vista sociale: perchè maggiori esporta– zioni significherebbero maggiore occupazione. Le leggi economiche vanno in soffitta, perchè si avrebbero mag– giori sforzi per conseguire il medesimo risultato econo– mico, ma la ·pacificazione sociale del paese farebbe un passo avanti. E anche dal -punto di vista economico, non riduci– bile ai gretti termini ora accennati. Maggiori esportazio– ni significano più ampia e sicura penetrazione sui mer– cati esteri, e quindi la certezza che altre nostre esporta– zioni, oggi nulle ·o marginali, prenderebbero sviluppo al– la retroguardia del grosso delle tradizionali esportazio– ni, godendo del vantaggio, per esse semigratuito, deiia più ampia organizzazione commerciale all'estero. E, in– sieme, più ampio volume di esportazioni, e perciò di pro– duzione, significa maggiori ,possibilità di sviluppo tee-· nico-economico con riduzione dei costi di produzione. Mancano i capitali, è vero: ma mancavano assai di più tre e due anni fa, eppure quanta stratla si è fatta. Oggi non sono tanto i capitali che mancano, quanto l'interes– se ad investirli. 9. - Due dati di fatto possono fare grosso ostacolo allo sviluppo delineato. L'uno concerne i vincolismi del commercio interna– zionale, per i quali spesso le possibilità di esportare non dipendono da questioni di prezzo' (entro margini ragio– nev_pli). Questo dato di fatto però va considerato come .un elemento deformante e vischioso che non potrebbe reggerè a lungo al < peso> della convenienza economica.

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