Lo Stato Moderno - anno II - n.15 - 5 settembre 1945

182 LO STATO MODERNO si parti per Bari e chi più chi meno avemmo viaggi fortu– nosi. Il governuccio di Brindisi ci fece trovare una specie di stato d'assedio: manifesti quasi minacciosi del generale• Gaz- - zera (ex sottosegretario di Mussolini) per le cantonate; tri– plice cordone di carabinieri comandati dallo sterminatore Ge– ronazzi intorno al teatro dove si teneva il congresso, controllo rigoroso sul numero dei partecipanti tanto che parecchi de– legati non poterono gartecipare ai lavori perchè oltre il nu– mero prefisso. Ma la p~enza della Militm-y Poi.ice spuntava le minacce. L'organizzazione del congresso era in gran parte opera della sezione locale del Partito d'Azione, indubbiamente la mi$1iore di tutto il Mezzogiorno. Cominciarono, prima dell'apertura del Congresso, le intese entro i diversi partiti e ad un tempo fra i partiti. tanto più che, traversando le linee, erano giunti parecchi rappresentanti di Roma. Da Roma probabilmente era giunta una specie di or• dine al Partito d'Azione di costituire un blocco con i socia– listi e con i comunisti, ma per un necessario riserbo, non se ne era data notificazione aperta. Tale accordo veniva propu– gnato da quelli che io scherzosamente chiamavo i cospiratori perpetui. La cosa non mi persuadeva e per precedenti contatti che socialisti e comunisti avevano avuto a Vietri con Bado– glio e per una certa svogliatezza che nota"° nei comunisti a condurre a fondo la battaglia istituzionale e, infine, per la necessità di persuadere gli alleati, che avevano la tendenza ad imporci il regime Vittorio Emanuele-Badoglio, della nostra ca– pacità di darci un governo equilibrato, sostanzialmente alieno da ogni impulsività: cosa non illogica mentre le loro truppe combattevano sotto Cassino e sbarcavano ad Anzio. Un front populaire a torto o a ragione avrebbe preoccupato chi aveva il coltello per il manico. Inoltre l'ordine del giorno proposto, moltiplicando le esigenze in diversissimi campi, non consen– tiva il dovuto isolamento del problema della monarchia. Il guaio derivava dal fatto che la direzione del P. d'A. di Roma pretendeva giudicare situazioni che non conosceva. Il risul– tato si fu che quando in una riunione di partiti si presentò l'ordine del giorno come una specie di ulJimatum da pren– dere o lasciare agli altri tre partiti, il Croce protestò contro la scorrettezza di voler presentare qualcosa come definito e in– tangibile dopo che si era preso impegno di discutere tutto fra i sei partiti, e si allontanò sdegnato. Il giorno 28 s'inaugurò il congresso: il discorso di Bene– detto Croce, con cui separò nettamente la responsabilità della · nazione da quella della monarchia ebbe un successo clamo– roso sia fra gli Italiani, sia fra i rapprèsentanti della stampa estera. Le difficoltà spuntarono alla fine della giornata, quan– do i rappresentanti si riunirono per stabilire il quid agendum. Lanciai la proposta dell'antigoverno da lasciare organizzare a Benedetto Croce e al conte Sforza, ma urtai nell'ostilità dei socialisti rappresentati dal Lizzadri, venuto da Roma, dei co– munisti, e dei democratici cristiani, i quali tutti reclamarono la formazione di una giunta paritetica con rappresentanti scelti dal singoli partiti. Di fronte a questa levata di scudi anche i liberali, molti dei quali non volevano spingersi avanti e sognavano la conservazione della dinastia, non diedero peso alla proposta e si schierarono secondo il &olito con i demo– ,cratici cristiani. Io incorsi, per questo e per la mia riluttanza all'ordine del giorno a tre, nella diffidenza dei «cospiratori» del mio partito. Eppure, pensavo, non ci voleva molto acume a capire che volendo scalzare il re che si trincerava dietro gli alleati, il miglior rimedio era schierare in una specie di antigoverno i nostri uomini migliori e mostrare agli Anglo– americani che ad abbandonare Vittorio Emanuele III non avrebbero fatto una gran perdita. Quella sera la discussione tempestosissima si protrasse a lungo. I cattolici cercavano di limitare tutto il congresso ad un voto platonico per l'abdicazione del re. I « liberal-reazio– nari > si spinsero sino al punto di affermare che, essendoci impegnati ad osservare la legalità anche a liberazione d'Italia avvenuta, la proclamazione della repubblica avrebbe dovuto essere controfirmata dal re. Ci separammo senza aver nulla concluso. La mattina seguente il Croce richiamò all'ordine il suo par– tito e si fece forte dell'ordine del giorno pervenutoci dal C. N. L. di Roma, a cui avevano aderito anche i cattolici, di accantonare la monarchia e tendere alla formazione di un governo fornito di tutti i poteri. Nella nuova riunione pre– parntoria dei rappresentanti dei partiti la mattina del 29, pri– ma della riunione del Congresso, le asprezze si smussarono; i cattolici, non più sostenuti dal]' ala destra dei liberali s'an– davano adattando. L'avvocato Di Pietro, un vero liberale di Lecce, presentò lo schema di ordine del giorno che parve accettabile a tutti, anche se fu cincischiato da incisi, paren– tesi, codicilli (ho ancora dinanzi agli occhi Renato Morelli e uno dei Rodinò rocru e schiumanti mentre ululavano fra le quinte d~l palcoscenico le loro aggiunte e i loro emenda– menti). Alla fine, con qualche ritardo, la seduta si aper-se sotto l'energica presidenza d'Alberto Cianca. L'ordine del giorno che ripudiava il re fu approvato ad unanimità. Una volta che uscimmo fuori da tutte le schermaglie e le lotte preparatorie il risultato non mancò di solennità. Un centinaio cli rappre– sentanti del C.L.N., che in gran parte non si conoscevano quarantott' ore prima, venuti da ogni parte del territorio libe– rato, si trovarono concordi nel condannare e nel chiedere I' al– lontanamento del re fascista. Anche i cattolici sentirono la solennità del voto e i loro capi ne approfittarono per tirar fuori qualche tesi demagogica di «massa>, a cui non si sot– traeva ai suoi tempi neppure il buon Renzo Tramaglino, di– scepolo di fra Cristoforo. In realtà, anche da parte di coloro che avevano tergiversato, non si trattava di vera e propria simpatia per il re e per la dinastia (tutti li sentivano svuotati di ogni ulteriore compito), ma di una specie di fobia per i passi decisivi, della preoccupazione per contraccolpi in altri campi. La dinastia non poteva neppure avere una Vandea, un gruppo di fedeli quand meme: ma solo qualche giornalista prezzolato, qualche generale od ammiraglio che aveva- un passato fascista da occultare col pretesto della fedeltà mo– narchica. Come poteva reggersi una casa regnante che non aveva dalla sua nè uno scrittore, nè un entusiasta, nè un cre– dente nella sua leggenda? Perciò anche il travaglio della deliberazione di Bari fu, per coloro che avevano riluttato, l'accertamento di una impossi– bilità morale. Alla corte di Brindisi s'inflisse così un rude colpo dinanzi ali' opinione mondiale. Però per non complicare troppo le cose, si dovette rinunziare ad estendere la squalifica anche al prin– cipe ereditario. Non si potè costituire il desiderato antigoverno perchè a tale posizione non si P?tè elevare la Giunta che il Congresso nominò, non ostante la grande tenacia con cui il rappresentante del P. d'A., l'ingegnere Vincenzo Calace, re– duce dalle galere e dal confino, tentò di animarla nei mesi successivi a Napoli. Il tentativo di riorganizzare con uomini nuovi il governo con Badoglio falli completamente. Un ten– tativo del Premier britannico in un discorso tenuto nel feb– braio di sostenere il re e Badoglio suscitò proteste da ogni parte. Infine anche le autorità alleate a Napoli cominciarono a persuadersi del danno d'irrigidirsi nella difesa di Vittorio Emanuele III. (Continua) ADOLFO OMODEO

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