Lo Stato Moderno - anno II - n.15 - 5 settembre 1945

LO STATO MODER~O 187 comunista. Ancora una volta era la mancanza di volontà di vittoria che entrava in gioco. Se anche le due guerre mondiali nel quadro totale 11 comporranno come due atti di un'enorme tragedia, alla quale manca, •per ora, la sua conclusione - e non è indispensabile che questo terzo atto assuma l'aspetto di una nuova guerra mondiale - il secondo si differenzia essenzialmente dal primo per il fatto che la guerra del 1914-18 - nonostante certe sfumature che avevano fatto in quella tedescofili i conserva– tori amanti del falso gotico della feudaleggiante Germania guglielmina - si configurava ancora come una propaggine del grande processo di sviluppo nazionale e quindi animata da ideali anche spazialmente ben delineati, cosicchè il nemico si situava senz'ombra di dubbio al di là dei reticolati e delle trincee mentre questa seconda, cosciente ormai il mondo del conflitto di idee che è in atto, fu guerra di religioni pol'itiche e non potè essere combattuta e vinta se non in funzione del– l'intensità, della pugnacità e della incrollabilità della fede. Questa segnava, delimitava, opponeva i gruppi e gli eserciti. li mutare rapido dei fronti, la tattica che fu di movimento anzichè di posizione sembrano simboleggiare la necessità in cui l'azione militare si trovò di seguire in ogni paese i confini continuamente inteuotti e frastagliati di questi fronti ideologici, i quali erano per lo più in un processo di inin– terrotta trasformazione, dato che la grandiosità stessa degli avvenimenti accelerava negli animi le catarsi o inaspriva in proporzione la resistenza. E naturalmente deposero prima le armi coloro che con l'avversario occasionale erano uniti da affinità spirituali, e non combatterono veramente fino all'ul– timo uomo se non quei condottieri che erano i campioni delle opposte fedi. Lo Stato Maggiore francese non potè chiamare il paese a una nuova Marna perchè - oltre tutte le deficienze tec– niche che avrebbero reso forse disperata l'impresa - non poteva volere una vittoria di popolo: Valmy, la Marna sareb– bero state oggi per lui una sconfitta sul fronte interno. Se i politici non amavano più la democrazia - e ognuno in cuor suo andava idoleggiando a proprio modo i pieni poteri - lo Stato Maggiore francese la aborriva in funzione di un ben definito timore delle sinistre. Ma, come spesso avviene, non son tanto i fini comuni che associano nella lotta i compagni, quanto il comune ne– mico. Ed ecco in questa azione i nemici della democrazia stringersi solidali e lo Stato Maggiore francese, conservatore e monarchico, allearsi agli antidemocratici di spiriti rivolu– zionari, e il debole Presidente della Repubblica, Lebrun, fattosi paladino della costituzione e della democrazia, trovarsi di fronte congiurati Pétain e Lavai. ,,. Daladier aveva lasciato il 20 marzo 1940 la presidenza del Gabinetto. « Non c'è ombra di dubbio che Paul Reynaud sarà il suo successore secondo il desiderio di Jeanneney, del– l'Inghilterra e dei socialisti franco-inglesi » nota sotto quella data Anatole de Monzie (Ci-deoon.t, 1941, p. 20) ainico del- E' V se I TO L. NICASTRO Confessioni di Eleonora Duse GENTILE EDITORE l'Italia. mussoliniana, partitante entusiasta della Conferenza di Monaco e pronto ad accogliere la pax teutonica. Reynaud, l'uomo più intelligente e impopolare tra i politici francesi, fu, nonostante le sue enormi deficienze, i'ultimo -baluardo della resistenza democratica In Francia, in quel torbido tra– monto del vecchio mondo. Chi non aveva avuto ·accuse da muovere a Reynaud, tutte ugualmente giustificate e ugual– mente ingiuste nella loro ùnilateralità partigiana? Réynaud alla d!lmocrazia era approdato dopo un periodo in cui era stato accusato di favorire troppo ardentemente l'alta finanza internazionale a danno della classe lavoratrice. I socialisti erano disgustati dalla sua campagna in favore dell'esercito professionale tli De Gaulle che aveva per loro un ingrato sapore di militarismo guerrafondaio; mentre invece i nazio– nalisti disapprovavano, in tema di politica estera, la sua simpatia per la Società delle Nazioni e la resi della sicu– rezza collettiva. Aspre erano state le critiche mossegli· per la sua politica finanziaria. Destra e sinistra gli erano, se non ugualmente ostili, ugualmente aliene; e i socialjsti seguivano FaUie nella fronda; i filofascisti mal tolleravano chi aveva ridicolizzato in pubblico Mussolini e abbandonato lo sforzo per un'intesa franco-tedesca al momento dell'avvento di Hitler al potere; e le destre diffidavano di lui e non gli si ' riavvicinarono neppure quando chiese la collaborazione di Pétain e di Weygand. Sulla massa poi Reynaud, cui mancava ogni dote di oratore, non poteva far assegnamento. Egli er.i, con l'andar degli anni, divenuto sempre più indipendente dai partiti, ma più fervente amico della democrazia. La salvezza di questa, ora, gli .sembrava - non c'era dubbio per lui su questo punto - essere nella difesa della Francia; una difesa che, fino a quando il paese potesse contare sull'alleata britannica, si sarebbe potuta fare con qualunque mezzo, anche sacrificando l'intero territorio na– zionale, purchè si dicesse: « no » ali'avversario. E' · quindi in questo spirito e non facendosi illusioni sulle possibilità militari della Francia, - egli stesso, dopo aver sostituito Weygand e Gamelin, aveva lanciato in Senato il 21 maggio il primo allarme: « La patria è in pericolo!» - che fece fronte alle sollecitazioni dello Stato Maggiore insistente nel sollecitare una rapida richiesta di armistizio. E il 6 giugno alle istanze di Weygand risponde decretando che Parigi doveva essere difesa. E, mentre cadono Rouen, Reims, Parigi il 14 giugno, mentre il Governo lascia la capitale il 10 giugno e vaga da Tours à Bordeaux (13 giugno), il 15 invia un mes– saggio a Roosevelt e s'aggrappa a questa speranza per dir di « no » allo Stato Maggiore - a questa assurda speranza che non può essere giustificata se non dalla fede in un ideale comune che dovrebbe muovere la grande democrazia di oltre oceano. E il 16, quando giunse da Roosevelt l'unica risposta che poteva logicamente giungere, trasmette al Consiglio dei Ministri l'offerta di Churchill di fondere Francia e Inghilterra in una federazione in cui la Gran Bretagna si sarebbe assunti tutti gli oneri della gueNa. E quando anche -questa proposta viene respinta, risponde ancora « no » allo Stato Maggiore~ sostenendo il dovere per il Governo francese di trasferirsi in Africa del Nord. Ma questa è anche l'ultima speranza alla quale s'ap– piglia. L'ostilità combinata dello Stato Maggiore e di una parte del Ministero in cui siede Pétain non gli permette di realizzare il suo sogno. La sera stessa del 16 giugno presenta le dimissioni del Gabinetto al Capo dello Stato. La Terza Repubblica morì iB quell'ora. (Cantinua) FEDERICO FBDERICI

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