Lo Stato Moderno - anno II - n.14 - 20 agosto 1945

158 LO STATO MODERNO nuccio di Brindisi, che non voleva altre formazioni armate. Dileguò così la speranza di combattere. Siccome il Partito d'Azione, preso nel tentativo degli arruolamenti, non funzionava quasi affatto come partito, fondai un circolo politico e Pensiero e azione>, che in quei primi mesi ebbe un notevole successo e col quale sopra tutto fu condotta la battaglia antimonarchica. Per quanto molti mi abbiano accusato di non avere una fisonomia distinta dai liberali, io, fin dal 25 luglio, avevo dichiarato d'essere radi– calmente avverso ad ogni tentativo di conservare la monar– chia centro dì corruzione per l'Italia e non ero incline agli uomini e agli interessi che andavano confluendo nel partito liberale. Il mio atteggiamento era schiettamente mazziniano, in piena armonia con il mio temperamento e la mia forma– zione spirituale. Intanto era giunto dall'America il conte Sforza. Si ebbe l'impressione ch'egli fosse l'uomo della situazione perchè, esule da vent'anni, lo si riteneva in buoni rapporti con gli alleati, e si attese il risultato della sua azione politica. Forse il conte Sforza ebbe if torto di non far conoscere subito ai suoi amici quale fosse la sua posizione: com'egli fosse in buoni rapporti con gli oppositori di Roosevelt entro il pat– tito democratico, invece che col Presidente degli Stati Uniti, e come fosse in aperto conflitto con W. Churchill, e come fosse stato obbligato per rientrare in Italia a firmare la nota lettera, che doveva servire di occasione alla sua squalifica. Naturalmente la situazione italiana non consentiva di puntare su avvenimenti ipotetici a lunga scadenza. Giunto in Italia lo Sforza non tardò a scorgere l'impossibilità di mantenere non solo il re ma persino la monarchia. Indubbiamente l'aver reclamato da un esule da tanti anni un impegno p_re– giudiziale sulla monarchia non era cosa giusta nè umana. Ma era inevitabile che, non essendo ancora del tutto chiara la situazione personale dello Sforza, l'attesa concentrata su di lui dovesse subire un disappunto, che si accavallava a un altro disappunto. I collaboratori degli alleati, che avevano combattuto il fascismo, a poco a poco si vedevano disco– stati dal Governo alleato e guardati con diffidenza, proba– bilmente in base a un piano preconcetto di una restaurazione dell'Italia sulle vecchie basi monarchiche al servizio di una politica che si riteneva conservatrice. Gli antifascisti si tro– vavano in una situazione imprevista e assai difficile. E il peggio si era che gli alleati non avevano uomini veramente competenti delle cose italiane. Gli inglesi hanno indubbia– mente uomini esperti nelle cose dell'Afghanistan o dell'Iraq, e di altri più o meno misteriosi territori, ma dubito che ne abbiano per gli affari interni dei diversi paesi d'Europa, e procedevano (e forse procederanno ancora a lungo} empiri– camente ad assaggi successivi, certamente con poca gioia di chi è il corpo d'esperimento. Gli americani non sempre si mostravano persuasi di questo procedere, ma non volevano impegnarsi troppo in affari di un paese remoto: suscitavano eccessive speranze ed eccessive delusioni. E poi noi avevamo da fare sempre con uomini vincolati dalla disciplina militare che avevano ordini da eseguire e che non si credevano autorizzati a discutere. Data la situazione taluni pensano che in fondo il conte Sforza abbia fatto male a non prendere ,il potere fin dall'ot– tobre del 1943, accantonando il re ed esercitando in pieno i poteri d'eccezione, visto che a diventare ministro di Vittorio Emanuele dovette adattarsi nell'aprile 1944. La scienza del poi mi pare che qui sbagli i calcoli. Perchè nell'aprile il re era completamente scalzato, la reazione neofascista monar– chica aveva esaurito le sue forze e gli alleati avevano bisogno di un esperimento democratico. Invece nell'ottobre i gros– bonnets militari erano, non ostante le umiliazioni, pieni di arroganza; l'incauto collaboratore sarebbe rimasto prigioniero di piccoli intriganti di corte e di vecchi dignitari fascisti, fra cui si segnalavano il maresciallo Messe richiamato dalla pri– ~t>nia, per tener testa eventualmente al maresciallo Badoglio, il generale Gazzera, antico luogotenente di Mussolini, Pippo Naldi losco figuro impeciato nel delitto Matteotti, il duca Acquarone eminenza grigia degli intrighi di corte, il colon– nello dei carabinieri Geronazzi che la voce pubblica 'consi– derava autore dei massacri di Addis Abeba ai tempi di Graziani, e poi lo spirito dell'intrigo impersonato nell'on. Phi– lipson che per sostenere la monarchia non so quale spettro di vecchia massoneria aveva evocato. Spaventare le classi conservatrici col pericolo comunista, dare garanzia agli im– peciati col fascismo, avvalersi nei comuni oltre che dei podestà fascisti ·che restavano in carica, anche déi malfamati marescialli dei carabinieri, continuare amministrativamente la prassi fascistica, questo era il piano della monarchia esule a Brindisi dopo 1'8 settembre. Il fenomeno ebbe subito un nome: neofascismo. Eliminare questa forza di corruzione, questo centro infetto non era possibile. Nella politica alleata, non chiara forse neppure ai suoi autori, c'era sempre la pretesa che noi per il' momento facessimo una specie di union sacrée, con questi resti del passato che avevano sotto– scritto l'armistizio. Ci si ripeteva continuamente che noi non dovevamo turbare le• retrovie µell'esercito combattente, che noi non eravamo tutta l'Italia e non potevamo decidere nulla assente il Nord: quasi che Milano potesse sconfessare Napoli nell'avversione ai Carignano. In sostanza ci si accantonava all'opposizione, si rifiutava il nostro concorso armato, rimet– tendo invece in linea qualche brandello del vecchio esercito. e disperdendo nelle funzioni di sabotatori alcuni nuclei di nostri volontari che eran rimasti a disposizione degli alleati dopo il fallimento degli arruolamenti Pavone. Il conte Sforza dopo alcune giornate di trattative a Brindisi rifiutò di collaborare con Vittorio Emanuele III e con Badoglio, il quale pare avesse una sincera avversione per il re, ma era dogmaticamente irremovibile per la monarchia. Si diceva che non sarebbe stato alieno dal!'assumere la reg– genza per l'ultimo rampollo dei Carignano. Il Croce si schierò collo Sforza, e per molti mesi l'accordo dei due uomini fu perfetto. Il senatore Croce, monarchico convinto, era però dell'opinione che Vittorio Emanuele e suo figlio erano un danno e un discredito per la dinastia e per le istituzioni mo– narchiche, e che convenisse perciò fare un supremo tenta– tivo per salvare le possibilità del bambino, visto che la pre– giudiziale sollevata dagli alleati (che noi non eravamò tutta l'Italia) costringeva tutti a limitarsi a chiedere la reggenza. Molti non avevano simpatie per quest'ultimo tentativo, che obliava gli interessi incalzanti dell'ora. Ma in complesso vi era coincidenza nei fini prossimi. Del resto nessuno dei gruppi politici pensò di aderire alla monarchia di Brindisi; s1 aveva troppo chiara coscienza di quale fosse il pensiero dei confratelli del Nord. Neppure il partito democratico cri– stiano, che .a Nappli aveva un particolare aspetto conser– vatore (qualche maligno diceva addirittura clerico-borbonico} osava prendere posizione per i Brindisini. Si limitava solo a ostacolare e a ritardare quante deliberazioni poteva del C.L.N. aiutato in questo dai rappresentanti del partito liberale, che non dissimulavano la loro inclinazione per una politica clerico-moderata, la quale reclutasse molti influenti adepti, proteggendo non pochi alti interessi sporcatisi di fascismo; ne avrebbe avuto in cambio numerosi mezzi di organizzazione. In questo periodo era notevole un divario fra l'atteggiamento <li Benedetto Croce, più libero e spregiu– dicato, e quello di taluni dei suoi seguaci che si andavano affermando come gli esperti che godevano la sua fiducia. Costoro si facevano valere esasperando l'antipatia dottrinale che l'illustre uomo aveva per il partito d'azione, o, meglio, per l'infelice tesi liberal-socialista che un filosofo discepolo

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