La Rivoluzione Liberale - anno I - n. 23 - 30 luglio 1922

LA RIVOLUZIONE LIBERALE Glll EROI CAPOVOù~TI Meglio cominciar dagli eroi, anzi che dalla plebe. Sullo sfondo grigiastro del popolamo ano.nimo, il lampeggiare degli occ!n1 11 luccichio degli elmi e delle corazze, tl gioco e.le: gante e perverso dei rasi tnne sete velluti, 1 grandi gesti, le voci gonfie c_le ombre enormi degli eroi impressionano e 111_v,1tanoQ.uesto corteo cli gente urlante _egestico_laule su] serio malata di genio e di pass10m cowe d1 tumo'ri senza 1;medio, annata di spade vere o avvolta in legittime toghe, mi concilia coi servi di scena, coro ignobile di maschere ladre e infingarde. Spesso, con l'aiuto_ di arti magiche non ignote ai filosofi, 10 m, diletto a faruu sfila.re davanti agli occhi, lungo la parete che mi sene da palcoscenico, tutti i più strani eroi della terra e del tempo, senza temere, quando 1ni pùt.... ~:ia di conversat'~ con lot•J e \ìi accompagnarli per un tratto, mescolandomi al corteo. Fantastica parete, questa che mi sta di faccia, ostacolo opaco fra me e l'oriente: vastissima e d'un colore verde-celeste che ha riflessi d'acqua o di erba, male illuminata e popolata di grandi ritratti enigmatici e di paesaggi sorprendenti, mi sembra che discenda. da settentrione e sci'loli di continuo verso mezzogiorno, solo per caso attraversando la mia camera e prolungandosi poi all'infinito, fatalità implacabile eretta a dividere l'oriente dall'occidente. Per chi la sappia guardare, essa ha u.na varietà di aspetti che direi geografi.ca, tante sono le perso.ne che vi si muovono entro cornici dorate e i paesi che v'ap-- paiono e spariscono, con lor v.alli e mont?gne e ampie distese verdi. Io immagino che viva e sia un aspetto misterioso e cosmico della natura, µesiderosa cli mostrarsi in breve spazio qual'è tutta, nella sua varietà infi.nita. Più cli una volta, al passaggio d'eroi pallidi e febbricitanti o cli filosofi magri e biechi, fratelli di Spinoza, mi sono lasciato vincere dalla mia stessa magia fino a seguirli fuori dell'alto silenzio della mia camera, nel loro viaggio metafisico. Le terre vedute e i cieli scoperti in quei viaggi sono ormai divenuti per me un ricordo di strani sogni e nulla più, uè ora saprei ridire qttanto ho ,-isto o sognato. Ma spesso avviene che le apparizioni abbia.no voce e figura d'uomini vivi, quasi fo...o.sero di carne, e mostrino di avere in dispregio le qualità metafisiche delle ombre. Allora m'è facile riconoscerli per italiani e intrattenerli, risusòtando in loro le antiche passioni col parlar delle cose di casa .nostra. Questi colloqui straordinari mi rimangono nella memoria col peso vivo delle parole, nè mi sarebbe possibile dimenticarli. Poichè la natura degli eroi nosti; è quanto di più umano si possa immaginare, e non ha nulla di comune co.n quella della razza che li ha generati. Sembrano fatti di pietra, in confronto dei consanguinei ; e il passo çli alcuni è pesante e pieno di fatalità come quello della statua del Co=endatore. Li diresti nati da un popolo duro e cupo, nemico d'ogni leggerezza o vanità, iroso e con-ucciato con tutti e con sè medesimo, disgustato di quest'obbligo naturale che noi tutti abbiamo, cli v-Ì·vere, e dominato dal pensiero continuo della morte. &e tu non sapessi che hanno lo stesso sangue delle maschere nostrane. Il che ti meraviglia e t'inorridisce, pensando che la madre di Vico poteva anch'essere quella di Pulcinella. Tanto, che nel tuo amore per gli eroi nazionali finiresti con lo scoprire un principio d'avversione e di disprezzo per il popolo che li ha ge.nerati, cioè per il tuo popolo e per te medesimo, se non ti soccorresse il pensiero che la miseria e indegnità dei molti sono condizione prima e indispensabile per la grandezza e degnità dei pochi ; ciò che per noi italiani sembra essere legge assoluta. In quanto a me, l'essermi trovato, come ho detto, nella possibilità di avvicinare gli eroi nostri e di rngionare con loro, m'ha permesso cli ter,~mi.i lontanissimo da ogni specie d'avversione o di disprezzo per il nostro popolo; I non dall'ira, si badi: ma in questa tutti sanno che l'amore ha gran parte). Poichè ho a:'nto modo, da quegli straordinari colloqui, dt trarre la certezza che la miseria e indegnità nostre ,ono il seguo tragico di una elezione divina, che_ci fa miserabili perchè da noi nascano uomm1 e cos.~grandi. E questa non è una maniera di consolazione, ma di superbia; come si vedrà. Geueralmenk fra noi si ha l'abitudine di {:onsiderare i grandi nomini come la schietta e naturale espressicne della nostra razza, eticamente cl'accordo, non già coutrari, con le virtù e i difetti del sa.ngue comune. Lo stesso avviene per quegli avvenimenti, o imprese nelle anali agisce la volontà determinante degli non;ini, non quella del destino. Dato il r·a.rattere popolaresco e sentimentale di questo odi.nano modo di gindicare, non è mera- ·viglia se in Italia abbondano, più che altroYe, q1'.c~li « eroi " e quegli. "uomini rappresenlattv1 » che Ca.rlyle e EmersoH penarono a introdurre nella mentalità anglo-sassone, purita11a e democratica, la quale è naturalmente avversa a qualunque specie cli prevalenza, anche postuma e filosofica. Però, se nei paesi anglosassoni, paesi senza Dio e senza tragedie dove nessuna forma di mito è accettata o capila, gli «eroi• son tenuti in considerazione di gente fnor dalla legge comune, degna di rispettosa indifferenza ma non d'entusiasmo, da noi godono invece la stima e l'ammirazione di tutti, essendo naturale negli italiani la tendenza a onorare negli altri quelle virtù, e spesso quei vizi, che essi p1.1crceredono cli possedere. fo quest'ammirazi011e ciel popolo nostro per gli eroi nazionali sarebbe vano, perciò, voler trovare qualunque specie di buone ma.niere e cli riguardosa sottomissione, perchè nessun italiano si sente inferiore agli idoli propri e tutti sono d'accordo nel trattarli da persone cli famiglia, nate sotto lo stesso tetto e nutrite alla stessa tavola. C'è molta aria domestica e molta ostentazione di parentela nell'entusiasmo nostro per i grandi concittadini, come v'è molto orgoglio ferito e amore offeso nella nostra matta furia contro di loro: quasi direi che in ogni grande italiano cacciato in esilio o portato in trionfo c'è sempre la stoffa di un figliol prodigo. Il tempo sa poi rimediare a tutto, in questi nostri odii famigliari; ciò che non avviene mai, per esempio, fra gli anglosassoni, i quali non si sanno ancora dar pace di Shakespeare e non si pentiranno mai d'aver lapidato Oscar Wilde. Poichè nel furore popola.re contro certi eroi nostri non v'è mai odio cli razza o di religione, come nel furore puritano contro Wilde, irlandese, ma la passio.ne del sangue, e nell'entusiasmo v'è sempre la compiacenza di chi si crede e si sente «rappresentato». Ma, in realtà, l'ufficio degli eroi è ben diverso e più tragico. Essi non rappresentano le virtù o i difetti di un popolo, ma quei difetti e qu-elle virtù che questo popolo non pos-siede; non afferma.no, ma negano; sono l'esjn·essione contraria di un popolo, eccezione e non regola; essi sono in contradizione, non d'accordo, con la razza dalla quale sono nati. Il compito di « rappresentare • è dato a.i mediocri, non ai geni. Vincenzo Monti è più italiano di Dante o di Leopardi, Boileau più francese di Pascal o di Descartes, Swinburne più inglese di Shakespeare o di Shelley, Hauptmann è ,più tedesco di Goethe o di Waguer. I geni di un popolo sono la prova di ciò che questo popolo non è. Pietro il Grande è la prova dell'incapacità a fare del popolo russo, non perchè egli stesso .non abbia agito, ma appunto perchè ha agito. Napoleone prova che il popolo italiano non ha genialità nè attitudini militari; Pascal, che il francese non è un popolo mistico e tormentato; Spinoza, che gli ebrei hanno nessuna originalità creatrice. Gli esempi di quanto dico abbondano in ogni nazione, nè mi sembra necessario insistervi; tanto più che mi preme restare nel cerchio delle cose nostre, per non correre il rischio di giudicar gli italiani alla stregua dei barba1;. Spesso i così detti «uomini rappresentativi • altro non sono se non una reazione allo .spirito della razza o del secolo; il che appare chiarissimo specialmente fra noi, a cominciare da Dante, il quale è da considerarsi come il primo, implacabile nemico del comune spirito italiano, allora sorgente. Gli altri grandissimi, che vennero dopo lui, non fecero se non continuare e inacerbire il contrasto e l'avversione. Non bisogna dimenticare, come è stato fatto a proposito dell'ultima commemorazione, che Dante reagisce allo spirito nazionale, non lo rapprese.nta : cli fronte allo sgretolamento, al provincialismo, alle manifestazioni più varie e più basse della meschinità e della ristrettezza del secolo, egli riafferma la grandezza e la vastità dei principi eterni, rimette in luce gli eterni valori della vita e, in difesa della continuità tradizio.nale di sè e della sua cultura, rinnega quel che di contingente, cli provvisorio e di incerto è nello spirito del suo tempo. Personaggio importuno, mal compreso e male a posto nel dramma del .suo popo.ìo, Dante si u.rta e si batte con gli altri mimi e, cacciato a furia dal coro, plebe « oppidana » che non ha inquietudini di nazione ma soltanto furori òi sa.ugne, parte pel gran viaggio, alla ricerca del suo dramma e della sua razza. Eroe pieno di aspirn.zioni e di tormenti, disgustato del la stta gente ma. nero della ,ua terra, egli è così il primo personaggio del vero dramma italiano, antico e moderno, che mette gli. eroi senza rnzza a fronte del coro seuz.a patria; contrasto inconciliabile fino a tanto che l'avversione e il disgttsto degli eroi no.n si mutino,. per il popolo, in sofferenza e in sotto11nss10ne. Questo è il dramma, torbido e feroce, che la violeU7,a e la tena.eia delle (Ya.SSionin contrasto fanno continuo e storicissimo, e che l'attenzioue interessata dei barbari aizza e: prolunga. Poichè se si volesse considerare la storia dello spirito italiano come il prodotto cli una conciliazione a'-'Venuta, nell'oscurità del medioevo, tra il popolo e gli eroi o cli nn pacifico pre<lomiuio di questi su quello, se si volesse giudicarla, cioè, secondo il concetto della rappres1mfazionJ e non della reazione, tutte le nostre vicende non avrebbero significato e il tormento cli cui tutti i grandi italiani hanno sofferto e delirato saprebbe di finzione e cli maschera. Se questo fosse il criterio, Dante medesimo, con la sua grandissima ira e il s-uodoloroso amore, apparirebbe ridotto alla statura cli u.n qnaluuque uomo di parte, « florentinu5 natione et moribus », nè si saprebbe vedere dove in lui finisca il fiorentino e cominci l'italiano, o dove il ghibellino diventi cattolico. Ciò che mi sembra indispensabile vedere chiaramente per poter giudicare di Dante e del suo popolo. E non solo di Dante, ma di tutti i condottieri e asceti, navigatori e sommovitori di plebe, poeti e filosofi, scopritori di cieli e donatori cli regni, che hanno seguitato in ogni tempo la lotta intrapresa da lui contro il comune spirito nazio.nale. Troppo lungo sarebbe parlare di ognuno di questi grandi, nei quali l'amore fu pari al disgusto e l'ingegno grande e turbinoso come le passioni. Nè mi sembra necessario addurre esempi m1ovi a riprwa di un fatto chiarissimo, qual'è senza dubbio l'inimicizia, direi quasi di razza, che animava quei grandi contro il popolo dal quale erano nati. Mi basta, prima di soffermarmi su l'ultimo eroe nostro, nemico dello spirito della sua gente e del suo secolo, ricorda.re la simpatia che Machiavelli aveva pel Valentino, da iui creduto unico fra tanti tiranni e appunto per la sua crudeltà senza pari e le sue nefandezze, capace di affrontare la lotta e di combatterla sino in fondo è con tutte le armi, cioè fino alla liberazione e alla sottomissione degli italiani, principi e plebe. Il che dimostra, fra l'altro, come il gran fiorentino, con quell'asciuttezza di cuore e durezza di volontà che in certi toscani dànno a vedere l'origine etrusca, intendesse l'amore dovuto ai consanguinei e come, secondo lui, bisog1;1asse agire verso loro per operare il bene d'Italia. Questo che ho detto di Machiavelli e del Duca non vuol essere un inutile richiamo storico, a riprova di un fatto manifesto ad ognuno, ma vuol sopratutto mostra.re quanto nel trattar delle cose nostre sia facile, anche alle intellige.nze più sperimentate, confondere gli eroi con i tiranni. Poichè tutti i grandi uomini nostri han mol_to che assomiglia al tirannico, specie in quel loro spietato amore per l'Italia che li spinge in guerra contro il comune spirito, sempre insofferente e contrario a ogni forma di vera grandezza nazionale. Ciò prova come il furor popolare agisca saggiamente scagliandosi contro di loro: è questo un istinto di difesa delicatissimo in noi, che d,ei tiranni abbiamo l'insofferenza nel sangue. Tanto più che non di stranieri si tratta, ma di tiranni domestici, con i quali, come ho detto in principio, ogni italiano si sente imparentato e perciò mal disposto a venire a patti, essendo più facile a ttttti noi di sopportare gli insulti degli stranieri che dei famigliari. Questo, si badi, non coutradice al già detto, poichè sa ognuno che noi, pure odiandoli, ammiriamo i tiranni è gli eroi del nostro sangue: c'è molto orgoglio ferito e amore offeso, ripeto, nella nostra matta furia contro cli loro. Qui, dopo aver parlato del primo nemico degli italiani, non mi sembra fuor cli luogo parlare dell'ultimo, e cioè di Garibaldi, sopratutto per mostrare quanto v'è di fatalità in questa nostra ininterrotta tradizione. Che il parlarne sia eccessivamente opportuno non credo, tenuto conto della maniera. romantica oggi in uso fra noi nel giudica.re i grandi dell'uJtimo secolo. Ma senza pretendere di voler precorrere i tempi, nei quali il nostro modo tradizionale di pesare schiettamente i fatti avrà ripreso il sopravvento sul modo r'ftorico di questi -ultimi anni, mi sembra che il mostrare fi.n d'ora semplicità cli giudizio non debba essere riprovevole. Tutto sta in non parlar male di Garibaldi. Del quale è facile riconoscere che tutta la sua v;ta, tutte le sne imprese, tutti gli avvenimenti che su lui s'imoernia □o sono s.tati una continua lotta con.tro gli italiani suoi contemporanei, la co.ntinu::i negazione, nei fatti, dei loro spirito. Ca!::itafimi è 11.[ul rlo, 1\1:entana è un'ingiuria, Caprera è una protesta, l'ultima. Ì\{a. qui rn'è necess::trio andar cauto pe.r nou attribnire al vincitore cli Bezzecca un COiltinnità logica cÌ1'egli non ebbe, e non confonderlo col pallido e srlegnoso Genovese. 85 apostolo della lotta nascosta contro la_maggioranza degli italiani, avversa all'unità e a\l'indipenden:r..a, non della guerra aperta contro i barbari. Poichè uo.n bi.sogna dimenticare che Garibaldi, eroe decadente, è una specie di tiranno romantico e democratico, riguardoso e di cuor debole, col quale la bontà e la pietà, interrompendo la bella tradizione tirannica degli eroi aristocratici, spietati e senza riguardi, italiani fino all'oclio pc.--r gli stessi italiani, entra.no da maestre nella storia delle nostre contese. In maniera che la ragione ciel disprezzo di :Mazzini per Garibaldi e del dissidio nato fra loro, è da ricercarsi sopratutto nella tenace e tradizionale avversione del primo per i con.sanguinei, ch'egli considerava alleati degli stranieri e indegni di compas.,;one, e nella tendenza singolarissima in Garibaldi a lasciarsi impietosire e addomesticare dalla retorica, dagli applausi e dall'entusiasmo del popolo. Questo raffronto è di grandissimo aiuto per capire lo spirito di decadenza del Nizzardo e la ragione delle sue imprese, clel loro successo e degenerazione attuale. Poichè, visti contro luce, Mazzini e Garibaldi perdono molto del loro aspetto di dioscuri : in Castore ti appare cosi il difensore della tradizione aristocratica, il restauratore della legge, nemico dei famigliari piuttosto che degli stranieri e preoccupato sopratutto di svegli.are gli italiani per poter fare la guerra ai barbari, e in Polluce tu vedi il violatore della legge, tirannello de~ocratico che non sa capire e continuare la tradizione, specie di eroe popolaresco avverso a' suoi senza saperlo, preoccupato di far la guerra agli stranieri per poter svegliare gli itali.ani e incapace di vedere nel suo successo la peggiore condanna dello spirito nazionale; <lei quale egli non si credeva nemico, ma < uomo rappresentativo •. T'appaiono, cioè, l'uno contrario all'altro, sebbene fratelli : il che rientra nella tradizione e giustifica storicamente le ire e le ingiurie. Il volerli riconciliare nè allora sarebbe stato nè oggi è possibile, perchè ciò presuppone l'esistenza di uno spirito nazionale imposto dagli eroi e accettato dal popolo, cioè il raggiungimento di un equilibrio ancora lontanissimo. Solta.nto Cavour a,Tebbe potuto rico.nciliarli, non asservendoli però ed eliminandoli in parte, come ha fatto : il che, se.nza dubbio, è ancora ragione di rimpianti a quelli fra noi che vorrebbero il dramma chiuso da tempo e gli eroi finiti, per non vederli u.n giorno o l'altro risorgere. Ma il dramma continua, per fortuna, e minaccia di risuscitare, fra breve, gli stessi morti. Qui, però, mi preme ragionare di quel che è avvenuto e non di quello che a'\-"TVerràb,astandomi per ora l'ufficio di sterico e rimandando a più tardi quello di profeta. Tanto più che non bi.sogna lasciare, a chi l'ha, !'illusione che Garibaldi sia stato un « uomo rappresentativo» e non un nostro nemico. Si badi, dunque, a ciò che egli ha fatto. Quasi solo, seguito da pochi, egli ha agito cont·ro l'Italia fuori delle abitudini quietiste e senza glo1;a degli italiani di allora, (e perchè soltanto di allora, sia detto senza maligna intenzione di raffronto?) vilissimi e malfidi, borbonici e non garibaldini. Se Garibaldi fosse stato un « uomo rappresentativo», che è quanto dire un mediocre, se avesse cioè realmente incarnato 1o spirito del suo popolo e del suo tempo, avrebbe senza dubbio continuato ad essere, dopo le prime disillusioni, un bravo e onesto emigrante fuoruscito per ragioni romantiche (allora la politica, in molti, era soprattutto un riflesso del romanticismo in voga) e a fabbricare candele steariche; sarebbe tutt'al più un bno.n « fazendero » come ve n'erano e ve ne sono a migliaia fra gli italiani del- ]' America Latina. Il suo ritorno in Italia sarebbe stato quello di un emigrante arricchito, non già quel che lo condusse al Vascello, alla Repubblica Romana, alla tragica pineta di Ravenna. « Chi non ha paura di soffrire, mi segua ». Dette a n.u popolo che si dà vanto di non voler soffrire, queste parole sono una dichiarazione d'inimicizia, rimprovero e condanna al tempo stesso; sono un elogio dei pochi, degli sbandati, dei senzafa.miglia, dei magni1ìci pazzi e dei santi avventurieri che lo seguivano da a.uni attraverso tutta l'Italia, laceri e affamati, invincibili e perseguitati, alla ricerca di una ra;r. za e di una patria. Certo, non sono un elogio degli italiani. « Bisognerebbe aiutare gli austriaci a bastonare questa gentaglia», ruggiva Bixio, questo capitano di ventura del cinqµecento, nato in 1;tarclo. Ma Garibaldi, eroe decadente e umanitario, ammalato di retorica e cli compassioni, tirannello demo. cratico figlio del popolo, era incapace d'ira spietata e tirannica e si lasciava addomesticare dagli applausi della folla, che vedeva in lui il buon nemico senza rancori e sentiva di poterlo vincere no.n a bastonate, ma con la coreografia dell'entusiasmo. Questa sua mansuetudine piena d'amore m'ha l'aria di 1ma istintiva riconoscenza. Poichè la. storia del nostro 11_ltimosecolo 11011 ha nulla di più

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