tratta ovviamente dell'anima - nei quadri di paesaggio l'impossibilità di attingere una volontà che prefiguri sapendolo o no il movimento e la posizione degli elementi della scena rende quasi impossibile ottemperare a tale condizione. Caratteristicamente, la condizione di occultamento dell'arte per la quale lo spettatore crede di vedere qualcosa che si è fatto da sé, rispondendo ad una legalità necessaria, è più difficile da raggiungere nel paesaggio che nella pittura di storia: ancora Rilke scriverà, invertendo l'accento del problema, che la natura non vuole nulla quando si muove8 . Proprio per questo la naturalezza per cui l'opera d'arte può esser chiamata bella è propria per Diderot alla pittura di storia, e non alle opere di paesaggio. La finzione dell'ingresso nella scena del quadro risponde alla necessità di legittimare un modo della rappresentazione artistica difettivo, il paesaggio, che non rientra compiutamente nella relazione facciale, oggettivante, in cui lo spettatore ha davanti a sé una figura animata. La fascinazione indotta dalle opere che rappresentano la figura umana dipende in tal senso dal riconoscimento di una volontà libera, che si offre alla vista esibendo una finalità presente come tale nel contemplante. Kant ribadirà quest'antica dottrina, affermando la superiorità della bellezza in cui vibra una finalità, come quella della figura umana, su quella «libera» propria alle manifestazioni inanimate della natura. Soltanto la prima può apparire, nell'arte, «come se» fosse opera della natura. Potremmo seguire, a partire da questa determinazione, il diffondersi nella teoria dell'arte di un concetto della figura9 rispetto al quale la pittura di paesaggio ha assunto una posizione del tutto marginale, ma non per questo - forse proprio per questo - meno produttiva di novità. Vorrei soltanto osservare qui che per un singolare destino storico, l'interpretazione della nascita dell'esperienza estetica offerta da Ritter pone il paesaggio nella condizio95
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