Il piccolo Hans - anno XXI - n. 83/84 - aut./inv. 1994

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 83/84 autunno-inverno 1994 Virginia Pinzi Ghisi 5 Il congedo 4. Rosso Tiziano Gabriele Frasca 9 Il paesaggio del mondo dipinto nella polvere Gian Piero Piretto 40 Monotono tintinna il sonaglio: considerazioni sul mito della steppa Roberto Cagliero 63 Panorami del muro Giorgio Maragliano 81 Passeggiate. Sul paesaggio nell'estetica e nell'arte Sergio Piro 99 Delotica Ottavio Cecchi 127 Estate 1987 Ermanno Krumm 151 Ripetizione e tautologia nell'ultimo Luzi Franco Cordelli 173 Saxa Rubra «Un mondo fatto solo di vento» Michael Jakob 189 Paesaggi di parole: Teocrito e du Bouchet Caroline Patey 202 Questo giardino è un teatro. Percorsi europei della terza natura manierista Eva Banchelli 229 Hoffmann: da un angolo di finestra L 1 AMBULATORIO DEI BAMBINI Augusto fossa Fasano 248 Un incestuoso che mangia e uno che non mangia Pier Cesare Bori 257 «Le Sacre Scritture, o Bibbie dell'umanità» in Walden di H.D. Thoreau 273 Indice 1994 277 Una rivista di una nuova specie

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore: Sergio Finzi direzione editoriale: Virginia Finzi Ghisi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola, e Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Mariarosa Mancuso. a questo numero hanno collaborato: Eva Banchelli, Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Pier Cesare Bori, Roberto Cagliero, Ottavio Cecchi, Franco Cordelli, Enzo Di Mauro, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Gabriele Frasca, Giuliano Gramigna, Augusto fossa Fasano, Michael Jakob, Ermanno Krumm, Mariarosa Mancuso, Giorgio Maragliano, Caroline Patey, Gian Piero Piretto, Sergio Piro, Mario Spinella, Italo Viola e l'Ambulatorio psicoanalitico dei bambini di via Cellini. redazione: Via Borgospesso 8, 20121 Milano, tel. (02) 794515 editore: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo, tel. (035) 239104 abbonamento annuo 1994 (4 fascicoli): lire 60.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano responsabile: Sergio Finzi fotocomposizione: News, Via Nino Bixio 4, 20129 Milano stampa: Grafita!, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

Il congedo 4. Rosso Tiziano Il bagliore di una fiamma sostituisce il rombo della bomba che scoppia. A terra, nell'ultimo bombardamento di una guerra già finita mio padre vide quella fiamma come il colore dei capelli della sua bambina nata da poco e che forse non avrebbe visto mai più. Ma tanti anni dopo, non fu portandola all'altare che consegnò all'uomo cui l'affidava il foglio della poesia che raccontava questa storia. C'è un bianco, al centro del quadro, scriveva Bonnard, ci deve essere un vuoto al centro, quando si incomincia un quadro. Il bianco nel foglio era già il congedo. Nella Punizione di Marsia (ha sfidato Apollo, il Sole, e ha perduto) un colore bianco illuminaMarsia scuoiato. Ma ciò che, al di qua della rappresentazione, c'è sotto la pelle, è il rosso, il rosso sangue che scorre nelle vene rilevate delle mani dei suoi Cardinali e che muta su ciò che è appariscente, come una lunga capigliatura bionda, in rosso Tiziano. Così nel rossastro diffuso, il triangolo bianco delle mutandine carpite dallo stupratore in The Snapper di Frears era lo sbandieramento di un segreto, la rappresentazione di uno stupro, un'indicazione, come il film bianco, secondo 5

della trilogia di Kieslowski rivelava il senso, la direzione del primo film, quello sulla libertà, ma anche ciò che, finché nascosto, teneva la giovane protagonista di Frears lontana dalla famiglia, al riparo dal suo sollecito amore, è sola, finché essi non sanno, come il sangue dell'incidente mortale che apriva il film blu, diventava blu, come l'amore che reggeva il film bianco non poteva che essere in bianco. Blu non era libertà, e bianco non era uguaglianza. Rosso non è fraternità. È, dunque, un congedo. Il terzo della trilogia di Kieslowski, il Film Rosso che Kieslowski dice essere il suo ultimo, il suo addio al cinema. Ma questo congedo, l'Adieu, Goodbye, che è la canzone che in un film di Julie Andrews cantano i personaggi su un palcoscenico prima di scomparire, ma per ritrovarsi altrove, è solo la chiave di un segreto, il cui disvelamento appartiene, come in quel film che segue il successo di un altro, Mary Poppins, nello spostarsi altrove, o nell'entrare con Mary Poppins nel disegno sul marciapiede per abitare il paesaggio. Ma come mi vestirò per entrare nel paesaggio? Nei vent'anni del Piccolo Hans collaboratori e lettori hanno scoperto di essere fatti di residui, composti di protesi, coperti di macchie, fasciati da strisce, e ci hanno seguito così vestiti in un universo di forme che diventava un universo di sapere. Ma come mi vestirò adesso per entrare nel paesaggio? I'ho guardato dalla finestra, l'ho tagliato con una barriera, ne abbiamo alzato i culmini, distanziato i covoni, moltiplicato le prospettive, l'ho scelto come modello, ne ho fatto una rappresentazione, l'abbiamo disteso dolcemente sotto il ricadere dei tralci di vite, falce e quincunce, dai quattro anni alla vecchiaia, l'abbiamo accompagnato. Forse ora ci ama, forse ci aspetta, finalmente, per farci entare, forse possiamo ricominciare daccapo. Rotola una ·palla, in una filastrocca per bambini, senza gambe e senza braccia, rotola un cerchio magico che ci allontana da casa: lo riconoscete? 6

Il segreto del Film Rosso non può che avere un altro appuntamento, quello che permette ai protagonisti dispersi, e a quelli che si credono morti, di ritrovarsi su un nuovo schermo. Dunque, come dice Totò, soprassediamo, saltando in braccio all'interlocutore. Virginia Finzi Ghisi 7

Il paesaggio del mondo dipinto nella polvere a Mario Rinovan gli anni in sul fiorir d'aprile reliquie polverose, atomi morti, e con l'inverminir spiran risorti al tiepido fiatar d'aura gentile. Chiara e rasserenante infine fra volute franate la marina si stende verso la linea dell'orizzonte, trascorsa da navi con vele gonfie di vento o ridotte ad ombre lontane, perse nel rannuvolare del cielo, che in alto, nel vertice a destra di chi si affaccia da questa mirabile finestra, s'addensa e rabbuia, ammonendo d'un solo tratto all'improvvisa minaccia delle notti dei temporali. Nel mare e nel cielo, affidati all'anconetano Antonio Francesco Peruzzini, il transito del tempo è allora tutto in questo trascolorare dell'improvviso e del breve termine, è insomma l'oggi, l'oggi tutto, che meticcia il prima e il dopo. Ma nella carie della cavità architettonica, colossale e cadente, nel cui centro sfuma nell'ombra la gloria tombale di una statua equestre, col cavallo ghiacciato nella sua definitiva rallegrata, invenzione scenografica di Clemente Spera, il tempo è il tempo lungo: la rovina, secondo tradizione e consuetudine, nel genere delle «rovine e figure», cui, perché si completi quest'affresco del Castello di Brignano Gera d'Adda, mancano solo le macchiette rattorte, chi dal lavoro e chi dalla lassezza e chi soltanto dall'estro del pittore, scorciate dal genovese Alessandro Magnasco, il Lissandrino. 9

Il secolo appena nato, il diciottesimo, allunga le sue radici nella tipologia culturale del precedente, e ne consegue nell'immaginario messo in opera nella pittura di genere una nuova attenzione alla materia, non realista né spiritualizzata, piuttosto spietrata dalle sue forme, scaraventata nel gorgo del tempo, a divenire fluida, sciolta non già dall'anelare altro dell'anima ma per sua stessa inconsistenza. L'occhio che il genere richiede al paesaggista, l'occhialino insomma che dovrà inforcare il committente, è un occhio che si spinge di gran lunga innanzi nella fuga del tempo, cogliendo la realtà nel suo fondo sdrucciolevole e astraendone un attimo qualsiasi, non già la grande impresa, l'evento eccezionale, ma un frammento della successione, fra infinite cune e sepolture, scelto con quello stesso impuntare di piedi che risuona nel richiamo quevediano, «jAh de la vida!», cui dispietato nessuno risponde. Vi è l'affresco sopra descritto, e una pletora di grandi tele e quadretti di paesaggisti di rovine, nell'incipit di una delle dolenti e celeberrime poesie metafisiche di Quevedo: jFue sueflo ayer; maflana sera tierra! jPoco antes, nada; y poco después, humo! E una sorta di fumo, difatti, uno sfumare impregna questi paesaggi in luogo di ogni fenomeno atmosferico: non v'è tempesta o sereno che non svapori in una nebbia turchina d'indistinto, dove fluisce il grigio delle pietre, il verdino e il giallo delle frasche e il tenue sbiadito delle vesti con le quali si macchiano di vita gli affrettati corpi umani. All'occhio il genere richiede di accelerare, di forare l'immobilità figurativa non nell'illusione del movimento delle corse sospese di uomini e cose, ma nel tempo lungo, nell'arco tutto della sua esperienza esistenziale di camera delle visioni, e oltre, nella grande orbita sovrindividuale di cui tutt'intero quest'arco è solo corda. E se al cielo pertanto si chiede di figurare non 10

quel cielo lì, giusto guel cielo lì, ma la mutevolezza inquieta dell'atmosfer:, come da una camera da presa che accelerasse i fotogrammi e desse un giorno, nel suo addensarsi e sfilacciarsi di cumuli e bagliori, nell'istante dello sguardo, alle rovine piuttosto si richiede di costruire la proterva monumentalità del secolo, spinta fino a «lapidar le stelle», e di abbatterla poi come solo sa abbattere il { empo. Nell'aff r sco da cui si è principiato, come in altri «campi lunghi» del Magnasco, le rovine non sono la testimonianza di � ma civiltà passata, ravvisabile in certo vedutismo documentario affermatosi a Roma ad opera di artisti olandesi e fiamminghi, e fatto proprio infine dalla committenza papale per pubblicizzare la magnificenza e lo storico decoro della città. Né tanto meno, divenute innocuo simbolo da repertorio della caducità del mondo, stanno a fare l'ordito di un «capriccio» pittorico, alla maniera di Giovanni Ghisolfi o di Marco Ricci, dove pietre del mondo classico e paesaggio fantasioso occorrono al realizzarsi del pittoresco, del «fuori vita» e «proprio dell'arte», dicia±no pure dell'effetto speciale, secondo l'estro brioso e � izzarro ma proclamato domestico e ripetibile da Salvat r Rosa. I ruderi di Clemente Spera, tirati su perché il issandrino li popolasse di larve intese in una bambocci ta, sono rovine del presente. La monumentalità che vi s intravede è classicista più che classica, ed è in- 1 congrua n 1 suo sito, e per quella incredibile balaustra da cui s'affac ia vincitore il cielo. Sotto, gli omini s'affannano di rito o dalla pesca, calcando i più lo squadrato pavimento ,he fu base al monumento, tornato ad essere niente più1 che una spianata di sassi. E mentre vanno piegati fra tanto monito della vanità del mondo, l'occhio li scorge vani più degli «orridi sassi» dirupati, più della stessa mutevolezza dell'atmosfera. Se ci sono, fra il paesaggio e le rovine, è perché potrebbero non esserci: Magnasco li risolve in pochi tratti, li depriva di qualsiasi 11

espressione che non sia smorfia di fatica o lassezza di affaticati. Per il resto, la carne vanta la propria inconsistenza sotto il vanto abbattuto dell'orgoglio delle opere del1'arte e dell'ingegno. Questo stesso senso della pompa materica, dell'ottusa gravezza degli edifici, erti a ributtare verso il cielo nei loro fregi le vane grandezze che l'arte destina ai casati, agli ordini religiosi e ai culti, era stato trascorso, sullo scorcio del precedente secolo, in rapida sarcastica rassegna nei versi umorosi che il gesuita Giacomo Lubrano scrisse per il terremoto che devastò Napoli nel 1688. Dinanzi al subitaneo sfarinamento delle cose d'arte, alle quali l'uomo comunque destina la protesta di sopravvivenza al proprio transito, e al ricadere di ogni luogo anche geografico su se stesso, il lettore di queste «poesie sacre e morali» viene allora chiamato a sbirciare «entro ogni muro», per ritrovarvi le tombe che si celano nei fondali mirabili, nelle superbe architetture, «in ogni bel soggiorno». In quei sassi levigati dalla vita di chi li lavorò, tornati ad essere materia «orridamente» inerte, il poeta morale non scorge i corpi violati delle vittime; i morti non hanno consistenza se non per i propri sogni inconsistenti, quando sono piuttosto, nel primo di questi sonetti (il CXXX della raccolta), non già"individui ma la «mortalità» tutta. Di loro si fa fugace accenno, nel successivo sonetto, con una spietata sineddoche che li fa «piè» in corsa, nell'inutile e patetico tentativo di trovare scampo nel rovinare delle cose che occorsero al fasto dove si sarebbe voluto ingabbiare l'ineluttabilità del transito: «la vita inciampa» proprio lì dove sentiva di essere sicura, perché Dio pose ciascuno di noi «propter dolos» (Ps 72,18), o meglio, come specifica la versione approvata da Pio XII dello stesso salmo di Asaf, «in via lubrica». La strada è sdrucciolevole perché è fatta della sostanza del tempo, è dunque materia nel vortice ove tutto si disarticola: gli uomini che l'attraversano sono già disfatti, sono niente, polvere. 12

Altri esseri umani, che non siano quei generici posteri ai quali sarà dato inforcare l'occhialino del committente del Magnasco, non si danno in questi sonetti. Il deserto inorganico di macerie, in cui si consumano «!'agonie d'infranti sassi», sta dunque a decantare la materia organica per sua natura stessa frequentata e disertata poi dal tempo. Terremoto orribile accaduto in Napoli nel 1688 Mortalità che sogni? Ove ti ascondi se puoi perire a un alito di fato? De i miracoli tuoi il fasto andato or né men scopre inceneriti i fondi. Sozzo vapor da baratri profondi basta ad urtar con precipizio alato alpi di bronzo, e in polveroso fiato struggere tutto il tutto a regni, a mondi. Di ciechi spirti un'invisibil guerra ne assedia sempre, e cova un vacuo ignoto a subitanee mine in ogni terra. A troni ancora, a templi è base il loto: su le tombe si vive: e spesso atterra le nostre eternità breve tremoto. La scelta di testimoniare piuttosto, fra i tanti effetti devastanti del terremoto, i crolli delle grandi strutture edilizie, nella loro pretesa stabilità e magnificenza, se a prima vista può apparire generica e spietata, rientra perfettamente nell'accesa militanza del nostro gesuita; e se il religioso non dové restare indifferente alla sofferenza umana, ai lutti e alle mutilazioni, vale a dire alle priorità dell'oggi, i'acceso predicatore, solito ad infiammare la città con e l oquenza pirotecnica, non poté fare a meno di spostare n 1 tempo il proprio punto di vista, di dipingere insomma un «paesaggio con rovine» per le future generazioni, di modo da far trascorrere lungo la schiena dei lettori a lui coevi il brivido del tempo. Queste, parrebbe dire 13

Lubrano ai suoi contemporanei, che furono le vostre fastose dimore, le vostre gloriose chiese, le vostre superbe regge, queste e non altre sono le rovine del mio «paesaggio»; se ogni fondo, o fondale, nasconde un'infinità di tombe, per tutti gl'imprevedibili futuri lettori ai quali toccherà di leggere i miei versi, in queste dunque accomodatevi! L'iniziale tropo da solo vale dunque a configurare l'intero paesaggio: non si tratta della classica sineddoche del locus a maiore ad minus, quella che esprime la specie con il genere, e che fa degli uomini i mortales. Gli uomini tutti non sono qui i destinati alla morte o coloro ai quali la morte fa da fedele compagna; non è dunque nel tempo che regola il trapasso fra il modificatore che qualifica nell'attesa dell'evento dissolutore (mortale) e quello participiale, che segna il già avvenuto (morto), che la specie s'individua. È piuttosto nella qualità stessa, nell'essere cioè mortalità, o propriamente addirittura la stessa morte, che risiede l'estremo senso dell'uomo, quello che crea comunità. Ma ad una sola condizione: che, perché il tropo si completi, si aggiungano le due interrogative retoriche in qualche modo dichiarate e contraddette dallo stesso sostantivo posto in prima battuta. Tu che sei la mortalità che sogna, dice Lubrano, che sogna la vittoria sulla mortalità, tu quanto vanamente sogni. E tu che sei la mortalità che si nasconde, che si nasconde al debito della mortalità, tu quanto inutilmente ti nascondi. Perché sognare equivale a sognare di sopravvivere, nelle grandi pompe ad esempio, e nascondersi piuttosto difendersi da un'infinità di piccoli prolettici insulti, da quelli del freddo, del caldo, dei malanni. E se la mortalità che sogna è l'arte ripiegata su se stessa, è l'arte dunque come antidoto, vale a dire il fasto, quella che si nasconde e sogna è invece architettura, voglia d'eternità concetta nelle pietre, presto abbattuta da un «alito di fato» («E pur v'è fasto al mondo? E pur superbe I sognano eternità l'umane voglie?», aveva 14

scritto lo s l esso Lubrano nell'ode VIII, J.:Eraclito, sfogo di malinconie per la peste di Napoli, 121-122). I «miracoli» nei quali si nascose e sognò la «mortalità» sono fatti della d st e e r s i s d a e m l M at } r g i n a a d sc e o p . eribile, di fatto di già deperita, dei ru­ Nel con � rasto fra l'inconsistenza del «sozzo vapor», s in p s o o n m sa m b a ili dl 1a e n ll c ' o « r a a lit p o er d l i 'e f p a o to c » a , d d e e i i m v o e t n i ti sis s m ot i t c e i r , ra e n l e a i, pr r e e ­ sunta stat�cità dei monumenti architettonici, «alpi di bronzo», rimane come termine medio solo il sintagma m to e a to r n a i c m c i o c r o ci « a p r o e, lv n e e r l os g o us fi t a o to d » e , ll v a a c le on a c d is i i r o e n q e u a e r l g s u o t f a fi , o d a e t l ­ l'epitome pregnante, il lavoro del tempo che tutto rende polvere. Lo sguardo del poeta morale, del predicatore costretto a 1 dimettere il pulpito per la «cetera», non può che scorgete nel «breve tremoto» l'epitome di secoli e s se te c n o t l e i d e i in c e t r r t r e o , s e io a n l i c e on c t r e o m lli p : o la qu m el a l t a er p i i a ù , a q r u t e e l f l a a tt p a i e ù t r r e o s n i ­ fia, viene s f. lcagliata nell'eternità, non in quella pr�sunta d su e l l t l o 'a , r m te a , c i s q ì u fa el c l i a lm ve e r n a te e « in a c tt o e m rr mat e a n » su d r a ab u i n le p p i r c o co p l r o ia s d u e sl d ri i r v e in c o h , e n c e e l 1 a er c e u . i C i e n n fi e n r i e ta e f p u o g l a ve p re ro , s d p u e n t q ti u c e a , n so o n n o p p u i ò ut a t p o p st a o nella tavolpzza del gesuita metafore prolettiche, figure v d e e n ll u a t c o o c n i t ò em ch p e o d ra o n v e rà ità a , v c v h e e ni m re e . t A to v n e o va ne d l e l t u to og d o el de re l s g t i o à L a u v ­ brano in una delle sue prediche per il Mercoledì delle Ceneri (J.:inventario de' beni temporali scritto nella polvere): I s n n c o e g r i a n t n i n p o a g e t r n a i or g v f a i a o n n r i a n tà o de d o l m e la ' b f mr re a o l n d e d z i z a v a n e : i s e p n b r o o e n , n i c v n h u é o o i g si n r v i ic e c o g i n g e a l o o mm e a l t a e n ri c c o i n , i i n e o d g i n e i c m lis a s r i, e i s n ec o c g h n e i d a i n n n a o u s fr c a a g la ii t , e in di og cl n i i terra fosse di sepolcri, in ogni strada processioni di esequie, in ogni casa stracci di lutto, in ogni 15

corpo sintomi di morbo, in ogni vita sequestri di morte, quasi non toccasse a te, ti scuoti di testa con abituata inavvertenza le denunzie d'Incenerita. Se le ceneri liturgiche, dunque, consustanziano, per così dire, la doppia temporalità che in ogni terra scopre «fosse di sepolcro» («su le tombe si vive»), e il «loto» a base di «troni» e «templi», nella stessa tessitura formale del sonetto in esame si ritrovano in opera figure foniche (allitterazioni, consonanze, quasi-rime, assonanze, anagrammi addirittura) utilizzate per veicolare una sorta di contemporaneità subliminale dei termini in questione. Così, la mortALIT à comprende già immediatamente l'AL/To che la fa perire, e lo stesso ALITO di fATO del secondo verso si replica nel sesto (precipizio ALATO), mentre il FATO si riverbera proprio nel FASTO (v. 3) che distrugge con un AliTO, nello stesso modo in cui PreciPizio ALato si comporta con ALPI al v. 7. E ancora, l'uRTAR del v. 6 è compreso nei bARATRi del verso precedente, così come si specchiano al v. 10 COVA e VACUO, quasi a consustanziare «ogni terra» con il vuoto che vi si nasconde. Nell'armonizzazione fonica dell'intero sonetto, dunque, si contrappone alla presunta staticità della materia inerte da un lato il perseguito «tema del soffio» (Fato: Fasto: Fiato; e la rima etimologica Fondi: proFondi), con il sodale «tema del sibilo» del primo terzetto (Spirti: inviSibil: aSSedia: Sempre: Subitanee), dall'altro il rimartellamento, fonico e concettuale, dell'immagine figurale dell'«ala», come sigillo sineddotico sotteso della fugacità (mortALità: AL/to: ALATO: ALpi). Data una simile perseguita sonorizzazione, non potrà dunque stupire l'escalation formale cui è sottoposto l'ultimo terzetto, basato interamente su un congegno fonico [dentale+ vibrante], anticipato di già dalla geminatio accusativa del v. 8 (sTRUggere TUTTO il TUTTO) e, naturalmente, dalla parola in rima a chiusa del v. 11 (TERRA): 16

... TERRA . A TRONI ancORa, A TEMPLI è base il lOTO: su le TOMBE si ViVE; e spEsso ATTERRA le NOsTRE ETERNiTÀ bREVE TREMOTO. Ciò che pare maggiormente degno di nota in una simile armonizzazione pirotecnica è il fatto che si assiste, attraverso tale espediente formale, ad una sorta di risemantizzazione di taluni dei termini in opera. In realtà, lo slittamento dei significati è pressoché completo, a partire già dalla saldatura fra ViVE e BreVE, o fra TRONI: TeMPLI: TOMBE e, naturalmente, NOsTRE; ma il grande gioco parasinonimico, come sarebbe a tal punto lecito attendersi, sta interamente nelle parole ingabbiate nello schema rimico. Il tuttq avviene perché la parola da glossare non può che essere quella che principia il congegno, vale a.dire TERRA, che è giusto un importantissimo termine medio fra la «materia» resa falsamente «eterna» dal«fasto» e la «cenere» in cui la vera «eternità» la converte. Sicché TERRA diviene immediatamente la rima etimologica ATTERRA, non prima però di essere stata propriamente preparata nei sensi di una declinazione delle vanità: TERRA -A TRoni- A TEmpli -ATTERRA; per ritrovarsi infine, quando il congegno si arresta, volta in TREMOTO, non già per l'etimologia (addirittura nascosta, data la forma scelta del sostantivo) ma per una sorta di progressiva acquisizione degli elementi formali messi a disposizione dai sostantivi lOTO, TOMbe e ETERNiTà, dei quali nel contempo assorbe interessanti nuclei semici. La «terra», dunque, è per sua natura stessa fatta di «loto» e «tombe»; le «nostre eternità», pertanto, a fatica scolpite e modellate in questa «terra», non sono altro che un «breve tremoto», lì dove la forma eletta del sostantivo che compie il .sonetto rimanda, in virtù del modificatore «breve», nonché per una falsa etimologia, piuttosto all'area semantica di «tremare». La «terra», allora, stretta nello sfarinare del tem17

po, schiacciata dall'eternità che la sovrasta, è piuttosto un «tremito». È questa, questa terra che trema, su cui ci contorciamo come le macchiette del Magnasco, la «via lubrica» sulla quale ci è dato solo di scivolare. Varrà la pena, prima di proseguire l'esame dei sonetti dedicati da Giacomo Lubrano al terremoto del 1688, soffermarsi ancora un po' su questo primo individuo della serie, nel quale spero il lettore abbia già ritrovato, a dispetto d'una certa disaccortezza della critica, qualche costrutto stranamente noto, diciamo pure un'aria di famiglia, quale quella respirabile nei testi di divulgazione scolastica. Se ciò, come mi auguro, è avvenuto, lo si deve semplicemente al fatto che questo sonetto sembrerebbe prestare più di un elemento (lessicale, sintattico, ritmico e addirittura rimico) al grande «paesaggio con rovine» disegnato dalle prime due strofe de La ginestra di Giacomo Leopardi. Si tratta, a ben vedere, di echi formali alquanto precisi, ancorché dissimulati, se non addirittura da ascrivere a quella «memoria involontaria» di cui parla Gianfranco Contini a p�oposito degli echi danteschi in Petrarca (una memoria insomma «neppure verbale» e di conseguenza ritmica o, addirittura, «timbrica»), poi messa definitivamente allo scoperto, in un volume utilissimo di riscontri, da Paolo Trovato. Seppure, dunque, non è necessario per forza di cose ipotizzare un utilizzo perseguito consapevolmente del testo lubraniano, riarrangiato come materiale di risulta, da parte del Leopardi (ma prediche e panegirici del gesuita avranno potuto ben figurare nella biblioteca di Monaldo; e i versi, ai quali arrise minore fortuna, ma alquanto noti in àmbito napoletano, se in questa assenti, difficilmente dovettero mancare in quella del Ranieri), si potrebbe quanto meno pensare che la contiguità di luoghi e di argomenti abbia richiamato alla mente del maggior Giacomo taluni giri sintattici e qualche torsione fonica dell'omonimo secentista. Una poligenesi di immagini e di suoni, fra quelli in ope18

ra ad esempio nell'ottava del sonetto di Lubrano e nei vv. 17-23 de La ginestra, parrebbe più azzardata che riconoscere il debito contratto. L'emistichio leopardiano dl CENERI lnFecONDe è nel lessico e nel timbro fin troppo vicino al secondo emistichio (anch'esso, se lo si decontestualizza, di misura settenaria) del v. 4 di Lubrano, InCENERltl FONDi (fra l'altro preceduti il primo da COsPaRsi, e il secondo da COPRe); i vv. 22-23 de La ginestra(« ... e dove al NOTO I CAVernoso COVil torna il coniglio»), intessuti fra l'altro di un'orchestrazione formale alquanto irrobustita, e abbastanza rara in Leopardi, se da un punto di vista strettamente fonico richiamano il v. 10 del sonetto del gesuita («... e COVa un VACuo iGNOTO»), per quello che concerne l'interezza dell'immagine (che, insomma, il suolo, sia il tufo della città o «l'impietrata lava» delle falde del Vesuvio, ricopre il vuoto) mostra una simiglianza davvero ragguardevole (quale può essere quella, per rimanere in termini sintagmatici, fra gli «inceneriti fondi», ad esempio, e l'«impietrata lava»). E ancora, non può apparire di certo un caso che al brEVE treMOTO che chiude il sonetto lubraniano corrisponda al v. 45 de La ginestra l'emistichio (anch'esso quinario) con liEVE MOTO, in un ambito ideativo simile («... e spesso atterra/ le nostre eternità breve tremoto»: «con lieve moto in un momento annulla») atto a rappresentare la repentinità della catastrofe, così come il suo giungere inattesa («ov'ei men teme», scrive Leopardi nel v. 44, che ricorda l'«ove si pensa men» del terzo verso del sonetto CXXXI di Lubrano) e la totalità della sua devastazione («annichilare in tutto», La ginestra 48, da raffrontare a «struggere tutto il tutto», CXXX 8). Poco conta, da questo punto di vista, che una tale declinazione della fragilità dell'uomo e delle cose dell'uomo occorra·al gesuita per far drizzare lo sguardo verso il cielo, e a Leopardi per irridere «le magnifiche sorti e progressive». Anche nella seconda strofa de La ginestra si assiste ad un rimartellare di immagini ed elementi lessicali lubra19

niani, e segnatamente nei vv. 98-110. Innanzi tutto la stoltezza dell'uomo, che, per quanto «nato a PERIR», riempie le proprie opere d'ingegno «di fetido orgoglio», dell'invettiva leopardiana non può non ricordare le domande retoriche che principiano il sonetto («Mortalità che sogni? Ove ti ascondi / se puoi PERIRE a un alito di fato?»); ma soprattutto ai vv. 105 e 107 si possono trovare in posi- . zione privilegiata (vale a dire a fine verso) due parole messe in rima da Lubrano: terra (v. 11) e fiato (v. 7), quest'ultima nel sintagma «fiato/ d'aura maligna», che seppure significherà un'epidemia (e non il «sozzo vapor» vulcanico del terremoto napoletano), si trova comunque in contiguità con il sintagma «sismico» che completa il verso, «un sotterraneo crollo». A parte tali riscontri, la presenza dei sonetti scritti da Lubrano per il terremoto del 1688 ne La ginestra di Leopardi sembrerebbe serpeggiare non solo nei momenti «paesaggistici» (ai quali, fra l'altro, non sarà estraneo il «paesaggismo con rovine» che ancora all'epoca di Leopardi, fra tante vecchie tele, doveva abbellire non poche case della piccola nobiltà) ma anche nello sguardo moralistico, insomma nell'occhialino dell'Ecclesiaste, spinto a scrutare le rovine dei secoli fugaci (va anche ricordato, a tale proposito, che il Lubrano utilizza nel sonetto XVI il sintagma «vil ginestra» per indicare, in una variante poco attestata della «nascita dalla polvere», le miserrime origini del baco da seta). Quanto Leopardi, nell'assurgere con le armi proprie del sarcasmo a tale spalto secentista, si sia fatto coinvolgere dalla ribollente orchestrazione lubraniana, potrebbe provare chi si prendesse la briga di seguitare lungo tutto il testo, ma in specie nelle prime due strofe, la presenza carsica della parola «terremoto», più volte franta e decostruita, addirittura anagrammata, a partire da quel minaccioso «sterminator» con cui s'individua il «formidabil monte», il Vesuvio. Un giorno, forse, piuttosto che inseguire le lucciole dei grandi romanti20

ci europei o la luce smorta del classicismo settecentesco, vi sarà chi deciderà di regolare i conti lasciati in sospeso dal Seicento e saldati da taluni dei nostri più grandi autori del XIX secolo: ne verrà fuori un certo scespirismo di taluni apici manzoniani e i debiti formali che il lombardo contrasse con Chiabrera e chiabreriani da un lato, e dall'altro il meticciare di Leopardi predicatori gesuiti e scettici francesi (e poi classici ed Ecclesiaste, come già fecero costoro), oltre che il suo essersi inoltrato non nello «sciolto» razionalista ma nella «selva» della facondia barocca. Allora, chissà, anche Lubrano meriterà più degne attenzioni. L'istesso accaduto nella vigilia di Pentecoste Se in furie di vapor la terra avvampa e suona a l'arme entro le vene impure, ove si pensa men la vita inciampa, e son le fughe a' piè nuove paure. Del Repentino a i colpi in van ci scampa o lido o colle o 'l sen d'ampie pianure; né mai di sicurezza orma si stampa per le vie de' tremoti ambigue, oscure. Napoli contro il Ciel sì addensa i torti che un Dio spirto d'Amor nembo farassi, spargendo in faccia a' vivi arie di morti. Già posson l'agonie d'infranti sassi con bocche di terror renderci accorti Nella successiva forte scossa di terremoto, avvenuta il giorno precedente la Pentecoste, il gesuita dové reperire due straordinarie convenienze: la prima andava nel senso di una lettura «celeste» dell'avvenimento e, dunque, dato quanto prospettava il calendario liturgico a fronte di ciò che era accaduto nell'annuario terrestre, nel senso precipuo di un ammonimento alla città tutta e ai suoi «torti»; la seconda, invece, pareva sollecitare piuttosto il predica-. tore, avvezzo nei giorni di solenne liturgia a coniugare i 21

sacri misteri dell'Eterno alle austere reprimende dei vizi quotidiani, ne.i quali è obbligo proprio del magistero calarsi e operare. Ma qui, su questa seconda e più «personale» convenienze/-, converrà fermarsi, perché chiarissimi non appaiono i rapporti fra il predicatore e il poeta, fra, insomma, Gia�o'.mo Lubrano e la sua maschera tarda (le Scintille poetiche escono nel 1690, quando questi ha già superato la settantina, ed è «in somma riputazione salito di grande orator sacro», come ricorda nell'Autobiografia il Vico, che, «giovanetto» sottopose deferentemente alla sua «emenda» una «canzone sopra la rosa»): Paolo Brinacio. Nato a Napoli il 12 settembre del 1619, Giacomo Lubrano era entrato nella Compagnia di Gesù a quindici anni, e appena trentenne aveva principiato la sua carriera di predicatore, cui aveva arriso immediata fortuna (se già nel 1651 stampò l'orazione funebre Geminatus fortunae triumphus; e nel '53 il panegirico Il Tempio della Memoria, per il capitano dell'artiglieria di stanza a Napoli don Diego di Chiroga y Faxardo). Dal 1660 in poi, finita la peste a Napoli (durante la quale trova rifugio a Reggio Calabria), è, come ricorda Claudio Sensi (che nel 1976 ha tentato un'importante biografia del nostro), «stabile alla Casa Professa di Napoli»; invitato a predicare in altre città, compie comunque pochi viaggi (Palermo, Venezia, Modena, poi di nuovo in Sicilia e a Malta). Fra le scarse informazioni che possiamo trarre dalle opere sue e dei suoi contemporanei, due cenni biografici brillano per il loro significato: nel 1678, il cardinale Caracciolo invita a Napoli il predicatore cappuccino Francesco Maria Casini, parrebbe proprio in funzione antilubraniana (il trentenne Casini rappresenta un'oratoria che tende di già a scrollarsi le ampollosità barocche, e che vede nel Marino delle Dicerie sacre il nemico da combattere, non già l'esperienza capitale del secolo); intorno agli anni '80, poi, il Lubrano inferma, attaccato da un «ostinatissimo morbo» che gli toglie d'un tratto lo strumento di lavoro, o, come ebbe a 22

dire in una lettera datata «ultimo dì del 1680» e inviata a Venezia all'amico Cristoforo lvanovich, «la caratteristica d'uomo, cioè la favella». Eccolo qui, dunque, Paolo Brinacio, eccolo nascere dalle ceneri della facondia, da quel «tremolamento di lingua», da quell'improvvisa balbuzie insomma, che trasforma ogni pulpito in martirio, puntigliosamente affrontato dal Lubrano che si costringe comunque a salirli, quei pulpiti dai quali per un'intera esistenza s'era affacciato, impetrando, come scrive sempre all'Ivanovich, «la fermezza ne' labbri». Nel decennio che va dall'80 al '90, Lubrano comincia dunque, malgrado la malattia gl'imponesse «lacci» (come scrive ancora all'Ivanovich, in una lettera datata 11 marzo 1681) alla «lingua» e alla «mente», anzi proprio a dispetto di tali impedimenti, a raccogliere i suoi scritti, a partire dai panegirici (che verranno poi raccolti in due volumi e pubblicati, col titolo di Il Cielo Domenicano, col primoMobile della Predicazione, con più Pianeti di Santità, nel 1691 e nel 1693; e i rimanenti nel 1694, a un anno dalla morte, col titolo de Il solstizio della Gloria Divina racceso negli altari del Clero mitrato e religioso), fino alle poesie latine (Suaviludia Musarum ad Sebethi ripam, 1690) e a queste Scintille poetiche o poesie sacre e morali, per le quali però, reputati i versi volgari «scherzi di penna», non ritiene opportuno spendere il proprio nome, mutandolo in Paolo Brinacio, anagramma di Jacopo Lubrani (o forse, nel cognome, denuncia sineddotica dell'ormai brinata, canuta età dell'autore). Nell'iniziale dedicatoria al duca di Marigliano, Silvestro di Fusco, che si ascrive il merito di aver posto «in concio di stampa» non poche di queste poesie disseppellite «da un cimitero di confuse cartucce», segnala allora il senso dato dall'autore «contumace» alla propria opera: L'Autore, di tutto altro genio che di comparir poeta, stimando un capitale di favole ogni deposito del monte delle Muse, e un infrascamento d'om23

bre ogni serto d'alloro, per alleggiar le fatiche di studii più serii, si è diportato sovente in Parnasso, senza però perder di mira il Calvario. E dunque, comparate al fuoco della sacra oratoria, frutto di «studii più serii», queste poesie non possono che essere scintille, rapidamente scoccate e spente, o· ion possono che essere piuttosto ciò che di questo fuoco resta (così nel primo sonetto della raccolta, vv. 9-11: «Con inchiostri febei a l'ore inferme I d'ozio senil imbalsamo gl'istanti, / destando uranii spirti al plettro inerme»). Ne risulterà che le argomentazioni solitamente dispiegate e ingegnosamente amplificate da L ubrano, perché rimartellino nelle orecchie dei rapiti uditori secondo il consueto copiosum dicendi genus (quello che si confà, a detta del Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro alla «retorica elocuzione(...) papulare», vale a dire rivolta a «un uditorio mezzano, cioè mescolato d'ingegni né totalmente eruditi, né totalmente plebei», in modo tale che «né i dotti sentan nausea per troppo intendere, né gl'idioti sentan noia per non intendere») diventano nell'opera di Brinacio rapidi accenni, fiori di concinnità, alla cui rapida esecuzione sopperisce tutt'intera la musica. E non solo. Se il luogo del predicatore è il pulpito, ed è dunque interamente calato nella quotidianità di miserie e peccatucci, dai quali sfondare in ogni direzione, il punto di vista scelto dal poeta è quello, s'è detto, al di là del tempo contingente: lo sguardo si posa sulle cose e le attraversa, cerca piuttosto i grandi moti dei tempi lunghi, e in essi le più audaci simultaneità, in un impiego di metafore attinte di lontano (simile longe ductum). E se, dunque, al predicatore non fu dato di sciorinare al suo uditorio gli ammonimenti che si potevano trarre dalla seconda scossa del terremoto del 1688, sarà il poeta ad interpretare questa mirabile contemporaneità del fuoco, quello della terra, che «avvampa» su a distruggere, e quello che scende giù dal Cielo, per vivificare. L'argomen24

tazione è mirabile: la città, che ha addensato i propri «torti» empiamente «contro il Ciel», è schiacciata fra le «furie di vapor» che vengon su dalle «vene impure», provocando quella catastrofe «ove... la vita inciampa», e il «nembo» in cui, irato, s'è tramutato «un Dio spirto d'Amor». La discesa dello Spirito Santo, che si contempla il giorno della Pentecoste, piuttosto che vivificare allora sparge «in faccia a' vivi arie di morti», assumendo la stessa potenza dei vapori sprigionati a tentare l'inconsistenza della materia: la rabbia del Cielo e la pochezza della terra concorrono a togliere ogni scampo ai peccatori, instabili sulla «via lubrica» quanto lo sono quegli affannati piè nei quali vengono scorciati dallo sguardo del poeta. Nelle voragini aperte dal crollo «d'infranti sassi», allora, il suolo denuncia piuttosto che v'è una tomba per ognuno, e morti da calpestare ad ogni passo. La scelta delle rime, nell'impeto di una tale argomentazione, tende decisamente allo stile aspro [A:-ampa; C:-orti; D:-assi], ricorrendo ad altri elementi interni, alla parola in rima o allo stesso verso, nell'unica sequenza rimica (B) relativamente semplice [-ure], sicché in tre casi su quattro il termine in esponente presenterà l'occlusiva bilabiale p, quasi tracimata dall'altra sequenza rimica dell'ottava (impure, paure, pianure), e in ogni occorrenza verrà piuttosto variamente armonizzata in un perseguito gioco isofonico che, principiato dal termine forte vapor, subito rincarato in avvampa, spargerà ovunque, fra le rime A e B, la sequenza [(labiodentale) + nasale + bilabiale]: [(VAPOR) - aWAMPa -VENE IMPURE -Vita INCIAMPA- NuoVE PAURE -IN Van CI SCAMPA -AMPIE PIANURE -SI STAMPA- VIE... AMBigUE oscURE]. Da questa pur breve ricognizione formale, si potrà allora capire quanto Lubrano, la cui professione, come ricorda ancora Silvestro di Fusco nella nota a chi legge, non era certo quella di «far mostra di sé colla cetera al collo, ma di sacro oratore», conosca i più intimi espedienti in 25

opera nella fabbrica dei versi: la musica, s'è detto, sta lì a fare il gioco della contemporaneità, quasi in una coazione all'omografia e all'omofonia, atta a rendere conto della coincidenza del tutto, vuoi come polvere vuoi come spirito, nei tempi lunghi; del resto, scaraventate attraverso l'eternità, se la materia è cenere, tutte le parole sono omonime e sinonime, sono insomma la stessa parola. Le «intellettive scintille» di queste poesie marciano verso questo irraggiungibile stadio finale: ma anche «a volo» di isofonie e metafore, per parafrasare un passo del Cielo Domenicano, Lubrano sa di non poter raccorciare la distanza che ci separa dall'unica parola, quella che è salvezza, così come sapeva di non poter significare il senso pieno della mistica esperienza dei santi, «anche a volo d'iperboli». Ma per quanto la meta non sia perseguibile, la via per raggiungere la meta è pur sempre da perseguire: ecco come ragiona un religioso reso scettico dai suoi stessi strumenti di persuasione, insomma un fior di secentista. All'istesso La terra anco è mortal: trema e si scote di parletico umor turgida il seno; e se le pesti sue smaltir non puote trasuda in zolfi e bollica in veleno. Di astrolaghi presagi al guardo ignote le vertigini occulta; e al ciel sereno, quando l'acque del mar dormono immote, tanto imperversa più quanto vien meno. E pur deluso l'uom pensa sicuro vivere ad anni lunghi in bel soggiorno, ove si celan tombe entro ogni muro. Napoli, a te! Le tue grandezze un giorno né men la Fama saprà dir che furo, presso il Sebeto a piangerne lo scorno. A conclusione del breve ciclo dedicato alle scosse del terremoto del 1688 (e prima di principiarne un altro sulle 26

devastazioni compiute dallo stesso terremoto su monumenti e architetture), Lubrano ridà fiato all'invettiva, chiudendo idealmente quanto era stato aperto dalle interrogative retoriche che principiavano il sonetto CXXX. Il tutto nasce da una sorta di rassegnata considerazione, destinata a divenire amara allorquando entrerà in scena l'uomo, vanamente legato ai propri beni e convinto di vivere sicuro nei palazzi dove abita. È questa considerazione, a pensarci, la «figura» propria del terremoto, e una constatazione che nasce decisamente immediata in chi ha fatto l'inquietante esperienza di sentire tremare la terra sotto i propri piedi: se i terremoti possono giungere improvvisi, nessun uomo mai, ovunque si trovi, potrà dirsi sicuro. Ma per il Brinacio, dietro cui si nasconde il gesuita, trarre un simile ammaestramento è troppo poco; al solito soccorrono le tecniche tutte della contemporaneità, e l'equazione che ne consegue torna a configurare la «via lubrica»: La TERRA anCO È MORTAL: TREMA e Si SCOTE di paRLETiCO uMOR TURgldA il SENO; e SE le PESTi Sue SMALTiR non PuOTE TRASuda in ZOLfi e bOLLICA in veLENO. La coazione alla contemporaneità, dunque, ricorre alle consuete omografie decostrutte e costrutte, sempre nella direzione della falsa sinonimia: se la terra è mortal, la sua vera condizione sarà racchiusa nella parola che fonde soggetto e predicato nominale, vale a dire nel predicato verbale trema. La terra è dunque un tremito, ancora una volta, la «via lubrica»; e quanto più parrebbe acquietarsi (nel «ciel sereno» come nelle «acque... immote»), tanto più «imperversa» quando d'improvviso «vien meno», scoperchiando le sue «vertigini». Eppure, malgrado l'essenza «parletica», malaticcia e tremante del mondo, l'uomo, illudendosi, «pensa» di poter condurre «sicuro» la 27

sua esistenza, per tanti anni «in bel soggiorno», dimentico che «entro ogni muro» delle abitazioni ove crede di essere al riparo si nascondono, sineddoticamente e proletticamente, «tombe». Si raffronti allora questo terzetto con le argomentazioni più esplicite tratte da una predica detta da Giacomo Lubrano per la terza domenica di Quaresima (Eignoranza di chi sogna Paradisi in terra): Paradisi terrestri appena piantati per l'innocenza, tosto disertaronsi dalla colpa; e quante abitazioni si fabbricano per commodo, per diletto, per fasto, tutte sono appiggionate alla Morte; e 'l Tempo vi tien continuo Si loca a' fulmini, ad incendii, a scotimenti, a rovine. Dunque, sulle pareti esterne dei luoghi dove si soggiorna, dei palazzi insomma, delle camere o stanze dove più ci si sente nel proprio, il tempo pone sempre il suo Si Loca, perché v'entrino improvvise sciagure e gli altri infiniti inquilini al seguito, incatenati usurpatori ai quali tutto sarà usurpato. Non v'è cosa al mondo, non v'è possesso o corpo, desiderio o artefatto che non sia pervaso da «parletico umor»; non v'è terra, si diceva, che non sia un tremito, vale a dire la contemporaneità dell'esserci e non esserci. I terremoti, pertanto, occorrono perché in qualche modo metafora (vale a dire raccorciamento e sovrapposizione) di questo tremito complessivo nel quale ci sogniamo stabili. E se il compito del predicatore è precipuamente quello di rendere evidenti i piccoli segni, comunque sparsi nella falsa stasi del reale, di questo tremito, in virtù, diciamo, del cannocchiale aristotelico, insomma del macrobiettivo iperbolico, al poeta, e all'artista, sarà invece dato di perseguire la via breve della metafora, e dunque l'instabilità delle percezioni divenuta coscienza, l' «umore parletico» proprio delle cose del pensiero. Se adesso ci si raffigura una tela come il Paesaggio con lavandaie (Napoli, Pinacoteca di Capodimonte) del Magnasco, dove tutta 28

la realtà è piuttosto un vortice condotto nel tratto di lumeggiature guizzanti,.rapidissime, al contempo tocco coloristico e disegno, dove insomma ciò che si vede, fra colori e figure, parrebbe destinato a svanire nell'istante dello sguardo in un risucchio, potrà allora apparire chiaro come lo spalto religioso e marinista che fu di Giacomo Lubrano, e di tanti suoi contemporanei, non fu posizione aristocratica di uomini di lettere, di pulpito o di «cetera», ma tassello complesso e fondante della tipologia stessa della cultura dell'epoca. Sarebbe venuta dopo la ragione, contabile, sprezzante, a fare lentamente le sue parti. Per il momento ancora all'artista consapevole si chiede solo una cosa: di indurre a vivere veloce. Insomma, se il reale, quello sotteso eterno ed ineffabile, si manifesta nell'apparenza del contingente solo attraverso metafore, raccorciando in un istante il tempo a significare l'oggi senza flusso, la metafora dell'artista, metafora seconda e poi via via allegoria, occorre a dare senso di spalto privilegiato a quello stesso istante, come per davvero divenisse l'oggi di un altro oggi, il giorno senza tempo da cui affacciarsi a commiserare la catena di giorni che fanno franto il tempo. Il discorso dell'arte, allora, è un discorso in sospeso con l'oggi; rivela gli eterni gangheri intorno ai quali ruotano le nostre finitezze non con nomi diretti, impronunciabili, ma con i nomi delle cose caduche, ingabbiati in perifrasi d'ironia dissimulante, insomma in litoti. Ed è litote la cenere agitando la quale Lubrano vorrebbe rimandare allo spirito, ma non direttamente. Il predicatore sa che fra materia e spirito non v'è possibile competizione, giacché l'epoca sua, nel suo immaginarsi, si schiaccia tutta sul secondo termine: la materia, addirittura, non esiste, non v'ha gioco insistere sulla sua fralezza. Ma il gesuita sa anche quanto si dissimuli nei templi dello spirito il senso del fasto e della pompa, quanto insomma il santo desiderio d'eterno possa pervertire, e la materia dunque aggirare l'argine religioso per ri29

proporre il desiderio volto in concupiscenza di «caduchi beni». Il fuoco, scrive nel sonetto LXXI (Il fuoco delle concupiscenze fa degenerare l'anime create pel Cielo), anela' «a la sfera altier», ai luoghi dunque più alti, mostrando «ambizion di stella», ma la sua «fame rubella» di un cibo quale che sia «l'abbassa a divorare aridi steli»; così «il desio» dell'uomo che «in alto aspira», ubriacato dai «caduchi beni», pone in oblio il Paradiso e desidera, struggendosi, «sol per incenerir», soltanto ciò che, cenere (perché la materia è cenere), incenerirà il suo spirito. La cenere, la polvere della liturgia, è dunque il «non eterno», e abbatte il tempo della materia, a partire da quel transito da fango a fango in cui s'inscrive l'esperienza umana. Così, ancora, il predicatore per il Mercoledì delle Ceneri: Memento homo quia pulvis es. Così comincia, così finisce l'inventario de' beni temporali, compilato in breve dalla Chiesa curatrice de' cristiani, e pubblicato da' singhiozzi del sacerdozio a tutti noi, come a primogeniti del loto, eredi ab intestato della putredine. Il predicatore chiama a raccolta, suona a distesa le campane del raccoglimento e dello sguardo interiore; ma per l'artista, il «paesaggio dipinto nella polvere» è piuttosto uno sguardo al di là del tempo, esterno, ed è pertanto il tutto avvenuto in un istante, insomma il colpo d'occhio che cospira per l'oggi senza oggi. Questo è il compito dell'arte, questo e non altro: sprigionare nel desiderio di eterno lo spirito, lì dove l'arte che di tale desiderio fa materia, che vorrebbe insomma immettere nella materia l'eterno, è piuttosto fasto. Il fasto è dunque un traviamento dell'arte, un'eternità presunta pericolosa quanto altre mai, perché capace d'imbrigliare nella concupiscenza il vero desiderio, dismisurando «un mezzo niente» in un «mezzo tutto» (così nel sonetto XXXI, I.:occhialino, vv. 930

14: «Come se stesso adula il fasto umano I e per diletto amplifica gl'inganni,/ stimando un mondo ogni atomo di vano./ O Ottica fatale a' nostri danni!/ Un istante è la vita; e 'l senso insano/ sogna e travede Eternità negli anni»). In quanto tale, è bene che il fasto a sua volta venga ricondotto alla cenere, così come di fatto avviene nei sonetti CXXIII-CXXXVII, dove i crolli dei grandi monumenti e dei palazzi signorili vengono salutatLcome provvide vendette del tempo. E se nel CXXXIII (Per le colonne davanti al tempio di San Paolo dedicate da' gentili a Castore e Polluce, fatte in pezzi) sarà l'antichità che rapiva «a la Fé plausi eruditi» a pagare il proprio debito, avendo il terremoto «ripulito» piazza San Gaetano (l'agora di Partenope, il Foro di Neapolis) del pronao del tempio d'età tiberiana dedicato ai Dioscuri (che furono i protettori della città greca), e lasciato di quel formidabile complesso (di cui ci resta solo un disegno del 1540 del portoghese Francisco de Hollanda, e la notizia dell'attenzione destata in architetti come Giuliano da Sangallo e Palladio, oltre che forse nello stesso Leon Battista Alberti del Tempio malatestiano) solo poche «dirupate colonne», «audacie già de l'Arte, ora a la gente/ scheletri d'idolatria, marmi codardi»; se, dunque, innanzi tutto sarà la proterva arte classica a sperimentare la vendetta del «suol fremente» (che diede, diciamo così, una mano ai padri teatini nello sgomberare il terreno da simili «anticaglie», facilitando l'erezione monumentale di S. Paolo Maggiore, cui lavoravano sin dal 1538), nei sonetti CXXXIV-CXXXVI toccherà alla stessa monumentalità cristiana della cupola della Chiesa del Gesù, affrescata soltanto una quarantina di anni prima dal parmigiano Giovanni Lanfranco, divenire «un monte vil d'arridi massi». Le argomentazioni con le quali Giacomo Lubrano rie­ . sce a rendere meno lacerante il disastro intervenuto nella chiesa madre sono degne di nota: nel primo sonetto (Per le rovine della cupola nella Chiesa del Gesù; rimasti solo ne' 31

quattro angoli gli Evangelisti dipinti dal Lanfi'anchi), la Fama, in virtù della miracolosa permanenza degli evangelisti effigiati, viene chiamata a cospargere la memoria delle «istorie», dal momento che le parole durano di più delle «alpi di bronzo», sul distrutto monumento («se ne l'esser mancasti, il nome dura»); nel secondo, invece, la responsabilità del crollo viene attribuita al comportamento peccaminoso della città, giacché «a mover terra e Ciel, se al mal s'indura, I basta ogni colpa, è Archimede ogni empio», vale a dire che ogni singolo peccatore può far da leva («Archimede» è dunque metonimia) sotto la presunta stabilità del mondo, provocando lo sdegno di Dio; nel terzo, infine, è Lucifero stesso che, non «soffrendo che in terra un Ciel s'adori», abbatte quell'Empireo «colorito ... in bei lavori», sconfitto comunque immediatamente («ma scoppi pur d'invidia») dalla purezza di «un cor sincero» vivo in Dio, il quale, infatti, «se perde un finto Ciel non perde il vero». Se, dunque, «val per cento glorie un Gesù solo», se cioè l'ostia consacrata, tropo incarnato, può più di qualsivoglia «Empireo» creato dall'arte, la polvere cui si riduce ogni artefatto può a ragione occorrere da antidoto al fasto della materia; la cenere, che è la materia scaraventata nell'eternità, insomma l'antimateria, cospira per le ragioni dello spirito. L'arte, quella vera, religiosa e militante, invita, nel suo sguardo veloce, a percorrere i deserti della polvere, a vivificarsi di tutto quest'infinito disfacimento, perché se la vita è il sogno che sogna la vita, l'arte è la vita che sogna il sogno, e insegna pertanto ad attendere il risveglio. Il fasto e il lusso, al contrario, che rappresentano nell'arte il desiderio traviato, divenuto cioè concupiscenza, non superano la prova delle «polveri benedette». In un'altra predica per il Mercoledì delle Ceneri (J;assedio delle ceneri) aveva infatti argomentato Lubrano: 32 Come l'arte militare compendia nelle polveri nitrate e catapulte di arieti e tempeste d'incendii e

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