un errore non riconoscere le sue ragioni storiche, per le quali essa trova le sue radici nello statuto obliquo che il paesaggio ha assunto nel moderno. Quando parliamo del paesaggio indichiamo infatti qualcosa di ancipite, che comprende in sé l'esperienza di vedute naturali e di prodoui dell'arte. Quest'identità semantica, sopravvissuta nella lingua al decadere in pittura della divisione in generi, costituisce l'unico esempio nel discorso teorico-artistico di una designazione in cui il motivo dell'opera d'arte impronta interamente i predicati del risultato che esce dal lavoro dell'artista. Non è così ad esempio per il ritratto o per la natura morta, dove la differenza tra rappresentazione e rappresentato è espressa chiaramente attraverso l'indicazione diretta della subordinazione dell'immagine al modello, o mediante l'aggiunta dell'aggettivo che specifica la qualità propria della «natura» raffigurata, in opposizione alla vivacità degli uomini o degli animali, in quanto esseri dotati di un'ani- . ma. Non si tratta qui di attingere una verità del paesaggio che sarebbe celata, posta al di là dell'uso ambiguo del termine. Il problema del paesaggio sta anzi proprio nel rapporto tra determinazione estetica, per cui esso designa qualsiasi veduta naturale, e quella artistica, riferita all'opera d'arte. Esso si dà a cogliere come un concetto di relazione, in cui il rapporto tra percipiente e percepito rimane irriducibile ad una datità quale si presenta ad una coscienza ingenua, che avrebbe semplicemente degli oggetti davanti a sé. Detto altrimenti, la contemplazione del paesaggio implica un'attività dell'io, senza la quale non saremmo in grado di godimento estetico. La natura bella non viene incontro al sé come qualcosa che gli appartiene già da sempre, come se essa fosse un'idea innata che preesiste all'esperienza. L'immagine che si dispiega davanti all'io appare come se l'intero spettacolo della natura si offrisse al contemplante per lui, ma rimane consegnata a 92
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