artisti che negli ultimi trent'anni hanno realizzato opere di e nel paesaggio, sarà l'intenzione di attingere ed evocare strati di esperienza che precedono la rappresentazione della scena naturale all'interno dei limiti del quadro. Frammenti di roccia, mappe, parole, sono i mezzi di un'arte che in questo modo cerca di rinviare ad un'esperienza la cui rappresentazione in immagine pare oramai tradire, a causa della uniformità coattiva del medium, la singolarità eventuale che costituisce l'unico vero segno dell'esperienza estetica. La tesi che intendo svolgere è questa: l'arte che segue la fine del genere pittorico del paesaggio è espressione di una trasformazione dell'esperienza estetica della natura, in cui proprio i predicati d'istantaneità, flagranza e conciliazione con l'esteriorità che definìvano la visione del paesaggio vengono a cadere. Ciò che viene a giorno nelle opere contemporanee di paesaggio, se questa definizione è ancora possibile, è il tentativo di manifestare strati di un'esperienza che è «estetica» nel senso originario del termine, e cioè attinente alla totalità della percezione sensibile. Non a caso gli artisti a cui penso qui, da Richard Serra a Hamish Fulton, da Robert Morris a Richard Long, realizzarono i loro «earthworks» poco dopo l'apparizione dei testi in cui Merleau-Ponty presentava la sua fenomenologia della percezione, animata com'essa era dalla tesi di un'inerenza reciproca e indissolubile tra corporeità e visione, tra movimento e sguardo. Queste opere sono quasi sempre occasione, risultato, incitamento a quel movimento nel corpo nella natura che è la passeggiata. Lo sono a giusto titolo, poiché l'esperienza che esse indicano-mai come ad esse si adatta la definizione offerta da Pierce del segno-indice, che è del tutto estraneo a ciò che designa - è quella di qualcosa che non si offre mai totalmente allo sguardo, posando in un'immagine i cui limiti coincidono con il campo della visione. La parabola di Titorelli, contenuta nel Processo di Kaf85
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