Il piccolo Hans - anno XXI - n. 83/84 - aut./inv. 1994

dire in una lettera datata «ultimo dì del 1680» e inviata a Venezia all'amico Cristoforo lvanovich, «la caratteristica d'uomo, cioè la favella». Eccolo qui, dunque, Paolo Brinacio, eccolo nascere dalle ceneri della facondia, da quel «tremolamento di lingua», da quell'improvvisa balbuzie insomma, che trasforma ogni pulpito in martirio, puntigliosamente affrontato dal Lubrano che si costringe comunque a salirli, quei pulpiti dai quali per un'intera esistenza s'era affacciato, impetrando, come scrive sempre all'Ivanovich, «la fermezza ne' labbri». Nel decennio che va dall'80 al '90, Lubrano comincia dunque, malgrado la malattia gl'imponesse «lacci» (come scrive ancora all'Ivanovich, in una lettera datata 11 marzo 1681) alla «lingua» e alla «mente», anzi proprio a dispetto di tali impedimenti, a raccogliere i suoi scritti, a partire dai panegirici (che verranno poi raccolti in due volumi e pubblicati, col titolo di Il Cielo Domenicano, col primoMobile della Predicazione, con più Pianeti di Santità, nel 1691 e nel 1693; e i rimanenti nel 1694, a un anno dalla morte, col titolo de Il solstizio della Gloria Divina racceso negli altari del Clero mitrato e religioso), fino alle poesie latine (Suaviludia Musarum ad Sebethi ripam, 1690) e a queste Scintille poetiche o poesie sacre e morali, per le quali però, reputati i versi volgari «scherzi di penna», non ritiene opportuno spendere il proprio nome, mutandolo in Paolo Brinacio, anagramma di Jacopo Lubrani (o forse, nel cognome, denuncia sineddotica dell'ormai brinata, canuta età dell'autore). Nell'iniziale dedicatoria al duca di Marigliano, Silvestro di Fusco, che si ascrive il merito di aver posto «in concio di stampa» non poche di queste poesie disseppellite «da un cimitero di confuse cartucce», segnala allora il senso dato dall'autore «contumace» alla propria opera: L'Autore, di tutto altro genio che di comparir poeta, stimando un capitale di favole ogni deposito del monte delle Muse, e un infrascamento d'om23

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