Il piccolo Hans - anno XXI - n. 83/84 - aut./inv. 1994

ti i paesaggi che ci frullano per la testa, rischiamo di perdere di vista il paesaggio! La coscienza del paesaggio è un fenomeno antropologico piuttosto recente, poiché pr ocede da un controllo sempre più stretto della natura. Dal punto di vista filosofico non si può far risalire lo sviluppo di una coscienza del paesaggio a prima del '700, epoca nella quale questo concetto si fa strada nelle lingue europee. Per ritornare al paradosso iniziale, si può affermare che il paesaggio è qualcosa di doppiamente soggettivo: non è soltanto il prodotto dello sguardo (soggettivo in quanto costituito dall'io), bensì appare nel contempo anche quale rimando al suo essere paesaggio culturale come impronta di quello sguardo. Il paesaggio bello, interessante, entusiasmante, sublime, terrificante ecc. porta in sé il marchio di questo nostro sguardo incisivo, di modo che sul corpo della natura è sempre iscritta-quasi f osse una seconda pelle - la cultura. Il paesaggio è pertanto sommamente ri-flessivo; non è mai semplice apparizione, ma piuttosto specchio di un soggetto che nel costituirlo e nello scoprirlo, scopre e costituisce se stesso. Perdersi nel paesaggio, lasciare il nostro sguardo libero di percorrerlo significa aver domato la natura, riordinato il caso..., ma ciò non basta ad esorcizzare quell'immagine di instabilità che il paesaggio malgrado tutto offre alla nostra vista. Proprio perché riflessivo il paesaggio si rivela una costellazione labile, un infinito inscandagliabile. Storicamente parlando, l'esperienza del paesaggio è un fenomeno tardivo, poiché ha dovuto lottare contro le più svariate tendenze che volevano soffocarne lo sviluppo. Vi fu beninteso il platonismo con la sua svalorizzazione del visibile, l'idea che tutto sia mera apparenza e il conseguente divieto implicito di «guardare» imposto dal mondo dell'Idea. Questa concezione, che è negazione implicita dello sguardo, fu ripresa naturalmente dal cristianesi190

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